In principio erano i “vu’ cumprà”. Poi, per un lungo periodo, quando l’Europa non era ancora brutta e cattiva, e non comprendeva gli Stati dell’Est, furono gli “extracomunitari”. Poi, le nazionalità per il tutto: “gli albanesi” per dire i ladri, “i marocchini” per dire tutti i cattivi, “i rumeni” per dire sempre i ladri, gli “Africa”. Ancora prima c’erano i terroni. E gli zingari. Quelli ci sono sempre stati. Gli epiteti che nel corso del tempo i razzisti di questo Paese hanno usato per additare le persone venute da altrove sono stati molti, persino fantasiosi. Da qualche anno, l’appellativo più utilizzato è quello di “clandestini”. Il problema non sono gli immigrati in generale, dicono. Il problema sono i clandestini. “Non sono razzista, mi ci hanno fatto diventare i troppi clandestini che ci sono in giro!” è, da molti anni, l’argomentazione tipica di chi, prima che questo governo rendesse il razzismo un capo da esibire con orgoglio, non aveva il coraggio di dichiarare la propria xenofobia. Ma si tratta di una bugia: non è vero che sono i clandestini a creare il razzismo. È vero invece il contrario: è il razzismo che crea i clandestini. Perché le cose esistono, se le nomini. E “i clandestini” in Italia sono continuamente sulla bocca di tutti. Anche se nessuno di quelli che li temono così tanto ne ha mai visto uno nella sua vita: perché i clandestini non esistono.
Il termine “non corrisponde ad alcuna condizione giuridica”, ricorda Parlare Civile, e sebbene sia abusato sui giornali e nei discorsi, non è presente nei testi di legge dello Stato. La parola “clandestino” non è stata mai utilizzata né nella legge Bossi-Fini del 2002, né nel “pacchetto sicurezza” del 2008, firmato dal predecessore leghista di Salvini al Ministero dell’Interno, Roberto Maroni, né tantomeno nel testo del Decreto Sicurezza di quest’anno in Gazzetta Ufficiale. Fin dalla prima disciplina dell’immigrazione irregolare si parla, infatti, di “ingresso e soggiorno illegale nei territori dello Stato”. A essere clandestine, secondo la legge, sono le immigrazioni, non gli immigrati: ovvero, gli ingressi nel territorio di uno Stato possono avvenire per via clandestina, oltrepassando le frontiere in modo illegale. Quasi mai per scelta, quasi sempre perché i canali di immigrazione legale sono chiusi. Ottenere un visto, in molte nazioni del continente africano e non solo, è possibile a condizioni così stringenti che solo chi è altamente benestante, e non ha bisogno di emigrare (né di lavorare, in molti casi) per vivere se le può permettere. La situazione delle persone comuni che arrivano da altri continenti in Europa è simile a quella delle donne costrette ad abortire clandestinamente, finché la legge, grazie alle tenaci lotte femministe, non riconobbe un diritto che era nostro da sempre (diritto non ancora presente in molti Stati e continuamente in bilico, se non in pericolo, anche in molti luoghi d’Europa). Così come le donne che abortiscono non sono mai assassine, neanche quando la legge le vorrebbe far passare come tali, così le persone che migrano non sono mai clandestine, neanche quando i loro documenti non sono in regola secondo la legge del momento.
Ecco perché, già anni fa, alcune personalità del mondo culturale come l’ex deputato Luigi Manconi, lo scrittore Nicola La Gioia, il regista Ermanno Olmi si sono unite alla battaglia di associazioni come l’Associazione Carta di Roma, affinché la parola “clandestino” venisse definitivamente cancellata dal linguaggio giornalistico. Purtroppo senza molto successo, visto che nei primi otto mesi del 2018 il termine è finito sulle prime pagine dei giornali ben 129 volte, quasi un terzo in più rispetto al 2016. Fra linguaggio giornalistico e linguaggio politico si crea un cortocircuito costante, e non sono certo solo Salvini o Giorgia Meloni a parlare in continuazione dei pericolosi clandestini: anche il Partito democratico, nelle sue recenti proteste in aula contro il decreto Sicurezza, ha esposto cartelli che dicevano “Meno sicurezza, più clandestini”, dimostrando così ancora una volta di ricalcare fedelmente lo stesso immaginario dei loro avversari politici.
Sono passati 20 anni da quando il frontman della band parigina Mano Negra Manu Chao, iberofrancese, denunciava con una hit diventata di culto la triste condizione di chi vive scappando “por no llevar papel”, perché senza documenti. “Me dicen el clandestino”, mi chiamano clandestino, cantava. Era il 1998, e già allora si iniziavano a inasprire le condizioni di vita per gli immigrati dal Sud del mondo nei ricchi Paesi dell’Occidente. In Italia, in quello stesso anno, la legge Napolitano Turco, o “Testo unico sull’immigrazione”, poneva le basi per il lungo cammino tuttora in corso della criminalizzazione degli immigrati, inaugurando la sciagurata iniziativa dei Centri di permanenza temporanea (Cpt), dove gli immigrati trovati non in possesso di un permesso di soggiorno regolare venivano rinchiusi in attesa di espulsione. Le condizioni di vita in questi centri, denunciate da molte inchieste giornalistiche e parlamentari, erano di isolamento sostanziale, geografico, fisico e psicologico, e sebbene non si trattasse formalmente di strutture carcerarie, le condizioni di vita somigliavano molto a quelle di una reclusione detentiva. La legge Bossi-Fini convertì i Cpt in Centri di identificazione ed espulsione, i famigerati Cie, e nel solco di quella precedente allargò la forbice fra immigrati regolari e irregolari. Da una parte, infatti, la repressione verso i sans papier si inasprì radicalmente; dall’altra, con la più grande sanatoria nella storia d’Europa, il governo Berlusconi regolarizzò la posizione di più di 600mila stranieri in un colpo solo, grazie alla famosa “sanatoria delle badanti”. Il metodo del bastone e della carota, usato spesso verso gli immigrati: concedere alcune libertà da una parte, toglierle dall’altra. Una prova evidente che essere stranieri significa rimanere in balìa delle decisioni di uno Stato che può, a colpi di legge, fare di te un ricercato o metterti in condizione di vivere una vita serena; e che né l’una né l’altra possibilità dipendono da come ti comporti, bensì da ciò che nessuno può scegliere, il luogo di nascita.
La dialettica fra il contributo delle persone immigrate alla vita di una società e i diritti che vengono loro riconosciuti in quanto esseri umani è sottoposta infatti all’arbitrarietà della politica, e al connubio fra attività legislativa da una parte e propaganda dall’altra. Nel corso degli ultimi 25 anni, il ruolo della propaganda mediatica nel creare l’immagine spaventosa dei “clandestini” e alimentare la xenofobia è stato scientifico, a cominciare dai potentissimi mezzi di comunicazione a disposizione dell’unico tycoon dei media italiano, Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio per oltre nove anni negli ultimi 25; ha prosperato grazie alla fedele alleanza con la Lega Nord, un partito la cui propaganda razzista, di odio e lacerazione della società italiana ha trovato sempre grande ospitalità sui media berlusconiani, e quindi su tutti gli altri. Berlusconi ha sempre avuto l’invidiabile capacità di dettare l’agenda politica anche agli avversari, specialmente sul terreno dell’informazione e della narrazione mediatica. Le televisioni e la carta stampata hanno plasmato così, in un quarto di secolo, un’immagine criminalizzata dell’immigrazione e degli immigrati, dando spazio di volta in volta alle esternazioni barbare di Roberto Calderoli o a una cronaca influenzata e influenzabile volta a rappresentare, a dispetto di tutte le statistiche reali sulla criminalità, gli immigrati come tutti stupratori, ladri, assassini oppure, appunto, “clandestini”: criminali per il solo fatto di trovarsi in questo Paese. Il razzismo, fortemente radicato nel senso comune degli abitanti del Nord Italia, e per decenni riservato agli immigrati italiani venuti dal Sud, si è diffuso così a macchia d’olio su tutta la Penisola, contagiando anche territori storicamente più accoglienti come la Puglia o la Sicilia.
Negli ultimi anni, la propaganda xenofoba si è poggiata su un retroterra già fertile, portando la criminalizzazione a un livello ancora superiore: non sono soltanto gli immigrati a essere clandestini e perciò criminali, ma anche tutti quelli che li aiutano. Con il governo Lega-M5s, l’invettiva salviniana contro “i buonisti” non si è fermata alle parole, ma si è tradotta in azioni di legge – oltre a contemporanee attività della magistratura, nei confronti delle Ong o di esperienze d’accoglienza come quella di Riace, che lasciano molto da pensare, quantomeno per le parole di tribunali e magistrati che le hanno accompagnate. Le misure del decreto Sicurezza chiudono le porte a ogni forma di accoglienza capillare basata sulla rete solidale, e anche i permessi di soggiorno per motivi umanitari sono stati aboliti sulla base della stessa retorica: “Proteggiamo i veri profughi, combattiamo i buonisti”. E, intanto, rendiamo la vita difficile a chi lavora e vive qui da anni. In conseguenza del decreto Sicurezza, chi non ha potuto rinnovare il permesso di soggiorno umanitario prima del maggio 2018 si ritroverà in situazione di irregolarità. “Il mio permesso è stato rinnovato per altri due anni, perché grazie agli avvocati di un’associazione che mi segue ho fatto richiesta per tempo”, racconta O., lavapiatti, arrivato a Roma dalla Mauritania e titolare di un permesso di soggiorno umanitario. “Poi, potrò solo convertirlo in un permesso di lavoro con un contratto da dipendente o dopo aver aperto una Partita Iva”. Dall’oggi al domani, decine di migliaia di persone come lui dovranno accettare di ingrossare ancora di più le fila di chi lavora ai margini, nella precarietà e nello sfruttamento; altrimenti, si ritroveranno fuori dalla legge senza aver fatto nulla di male, per il solo volere della legge stessa.