Sarebbe sempre bene informarsi sulle vicende socio-politiche di un Paese attraverso documentari e testi prodotti da giornalisti e professionisti del Paese stesso. È importante per non correre il rischio di trovarsi con un’informazione fuorviante, in quanto interpretata da occhi esterni, che non comprendono a fondo il contesto di cui si occupano. Chiaramente però, è molto più semplice tenersi aggiornati guardando passivamente le prime pagine dei quotidiani italiani, o accendo semplicemente la Tv. Ecco perché, molto probabilmente, questa sana abitudine non è particolarmente diffusa. E i risultati si vedono e si sentono.
Essendo la Nigeria lo Stato di origine dei miei genitori, e non avendo mai avuto modo di andarci, io mi tengo aggiornata attraverso testate giornalistiche nigeriane. Non solo sulle questioni socio-politiche ma anche sull’intrattenimento: dalla musica ai film, fino a moda e tendenze del momento. E spesso mi domando quante persone in Europa, ma soprattutto in Italia, si rendano conto che oltre agli spot pubblicitari dell’Unicef, in cui vengono rappresentati solo e sempre bambini malnutriti con le mosche sul viso, ci sia molto di più. In Occidente la questione africana viene spesso liquidata con un generico “Oh, poveri bambini”; come se un continente enorme costituito da 54 Stati diversi, con storia e cultura eterogenee, fosse solamente fatto da un deserto di terra rossa e qualche capanna, abitata da persone morenti per Aids e povertà. Non che simili realtà non esistano – vi sono aree estremamente povere – ma credo sia necessario iniziare a mettere da parte questa narrazione stereotipata e disumanizzante.
Se da un lato è pieno di ignoranti xenofobi che generalizzano sul continente africano e lo disprezzano senza nemmeno conoscerne la geografia più elementare, dall’altro c’è una schiera di “antirazzisti wannabe” – ovvero coloro che si definiscono puri e negano qualsiasi influenza negativa degli stereotipi sul loro pensiero. Spesso si tratta di persone convinte di essere dalla parte giusta, quella che “non vede colori”, che “è aperta a tutti” e che crede in un mondo “senza confini”; la stessa che poi utilizza termini offensivi senza nemmeno rendersene conto. Un po’ come quando Pierluigi Bersani, nel 2017, nell’esprimere la sua opinione favorevole alla riforma di cittadinanza, ha descritto un bambino nero come “quel negretto lì…”; o ancora, come quando Carlo Calenda, durante un intervento sulla flat-tax e sulla misteriosa “manina” di Di Maio, ha descritto tale sceneggiata come “degna della Repubblica Centrafricana”. Anche volendo sperare nella buona fede di Calenda, e nella sua profonda conoscenza della condizione sociopolitica di quel Paese, frasi simili sono piuttosto irritanti. Quel “mica siamo in Africa” che spesso si utilizza con leggerezza per rimproverare un certo comportamento o una situazione di degrado, l’abitudine generalizzata a usare sempre e comunque l’Africa come metro di giudizio negativo, e l’uso improprio di termini come “negretto” o “di colore” sono il sintomo di un razzismo inconscio e interiorizzato.
La minoranza etnica, in particolar modo quella degli afrodiscendenti, è attualmente oggetto di dibattito politico, sia che ci si trovi dalla parte di chi urla “a casa loro”, sia che ci si trovi dalla parte di chi organizza cortei antirazzisti. Eppure è molto raro che venga coinvolta nel dibattito in quanto soggetto. Se da un lato ho ormai rinunciato a cercare di trovare un dialogo con chi mi vede come un’“invasora” – anche perché ritengo che sia una perdita di tempo – cerco invece ancora di farlo con chi, teoricamente, ritiene di avere una mentalità aperta e priva di pregiudizi. Ma quando faccio notare l’abuso di termini e paragoni fuori luogo, mi sento spesso etichettare come un’esagerata, mi sento dire che in fondo si tratta di piccolezze, modi di dire, e vengo invitata a “riderci sopra”. Il punto è che non riesco a ridere di fronte a tanta banale ingenuità, soprattutto quando questa proviene dalla bocca di chi si professa antirazzista. Pregiudizi e ignoranza si possono chiaramente trovare in ambo le parti, ma, quantomeno chi si dice di mentalità aperta dovrebbe riuscire ad ammettere lo scivolone per poi mettersi all’ascolto di chi è il vero soggetto della narrazione. Altrimenti gli italiani di origine straniera verranno sempre ridotti a semplici oggetti del discorso, strumentalizzati e senza voce, e ci ritroveremo casi come quello del pizzaiolo Gino Sorbillo, che ha ben pensato di fare “lotta antirazzista” dipingendosi la faccia di nero per sostenere il calciatore vittima di urli razzisti, Kalidou Koulibaly.
Anche quando ho fatto notare l’assurdità di questo gesto mi è stato detto di non prendermela, perché era stato fatto per mostrare solidarietà, non per denigrare. E invece bisogna prendersela, perché se in Italia – che è anche il mio Paese – non ci fosse una grave mancanza di dialogo con le minoranze etniche, se invece di parlare per loro si parlasse con loro, riusciremmo a evitare, nel 2018, di vedere lo scempio di un bianco che si “dipinge” di nero, come nella peggiore tradizione razzista. La questione “blackface” – l’usanza di dipingersi il volto di nero e prendersi gioco delle sembianze, dei modi e dei costumi degli africani – non è solo statunitense e non è stata usata per denigrare solo gli afroamericani; anche in Italia abbiamo avuto una storia di blackface: a partire dall’ambasciatore del Katonga interpretato da Totò, passando per lo sketch di Bramieri e Augus sugli “Angeli Negri”, fino ad arrivare a episodi come quello di Sorbillo o della scuola di Monreale, dove i bambini bianchi sono stati dipinti di nero per interpretare personaggi africani. Il colore della pelle di una persona non è una maschera e non dovrebbe mai essere trattata come tale, che lo si faccia in buona fede o meno.
L’arroganza degli antirazzisti wannabe risiede nella volontà di spiegare alla minoranza etnica in questione cosa dovrebbe trovare offensivo e cosa no, come si dovrebbe comportare di fronte a certe situazioni o addirittura come dovrebbe sentirsi. Un comportamento, questo, tanto razzista quanto quello della controparte. Al contrario, l’antirazzista wannabe è ipocrita in modo insopportabile, tanto da non accorgersi nemmeno del paradosso. Questo atteggiamento non solo è ingiusto, ma è anche controproducente per la battaglia che tutti gli antirazzisti vogliono portare avanti.
Non si può fare lotta antirazzista se si guarda all’Africa sempre e solo con occhi di pietà, pensando che i migranti sui barconi ne siano l’unica rappresentazione possibile o che il continente si stia svuotando. E ancora, non si può fare lotta anti-razzista se si pensa all’Africa solo come terra da salvare e non come un continente fatto di partner internazionali con cui costruire un futuro, come accade in molte organizzazioni di volontariato occidentali. Si tratta di una concezione che si basa su un pensiero simile a quello proposto da Rudyard Kipling, l’autore di White Man’s Burden: il grande fardello dell’uomo bianco, il quale ha il dovere morale di andare nei Paesi sconosciuti per “salvarli ed educarli”. Con tutto il rispetto per chi fa parte di simili associazioni, un simile intento sembra più portato avanti allo scopo di autocelebrarsi che di aiutare le persone in difficoltà, allo scopo di dipingersi come il white saviour di turno, che va in Africa per farsi un selfie con bambini neri da postare su Facebook, manco fossero souvenir di viaggi esotici.
Non è presentando lo straniero come un “cucciolo da salvare” – a patto che si comporti in modo consono – che si possono contrastare xenofobia e pregiudizi. Al contrario, è necessario guardarci come pari, toglierci di dosso tutti i preconcetti attraverso l’informazione e l’ascolto. È arrivato il momento sostituire la mononarrazione sull’Africa e gli “africani” con una che ne descriva la varietà di voci e l’eterogeneità. Oggi però, una simile realtà sembra essere completamente ignorata: parliamo di Africa per parlare di Congo, Sud Africa, Tunisia, Niger, Nigeria, eppure non parliamo di Europa per parlare di danesi, italiani, francesi. Il pericolo di un’unica storia, quindi di un’unica versione dei fatti, è che può privare determinate persone della loro dignità e della loro individualità.