Non hanno torto i meme che circolano su internet a proposito di questo 2020: sembra davvero che ogni mese sia il livello di un videogioco globale al quale stiamo partecipando tutti o che la terra sia una sorta di Truman show per alieni che guardano entusiasti questo finale di stagione col botto. Mi viene in mente la Miss Italia che pochi anni fa, durante il concorso di bellezza, alla domanda “In quale anno vorresti trovarti” disse con candida innocenza “Nel 1942, per vedere realmente la seconda guerra mondiale”; quella frase io la compresi all’epoca nelle sue buone intenzioni e continuo a farlo adesso. Alice Sabatini, cestista di Orbetello e reginetta di bellezza, sembrava esprimere uno stato di noia che, per certi versi e in qualche misura ingenuamente condiviso, nei confronti di un presente che si è spostato nell’etere e che ha sempre meno azione e grandi avvenimenti epocali. In effetti, però, a pensarci bene non è così, dal momento che la mia generazione – quella dei millennial – ha vissuto la fine dell’Unione Sovietica, e quindi la fine del Secolo breve, l’11 settembre, la crisi del 2008 e ora, tutto concentrato in un solo momento, un’epidemia globale che cambierà il corso del Ventunesimo secolo in concomitanza con una rivolta popolare del mondo Occidentale che forse, se tutto va come deve andare, potrebbe rappresentare un tassello molto importante per gli sviluppi del nostro presente.
Ammetto che per una mia deformazione ideologica ho provato molto stupore nel constatare che a livello italiano, la ricezione di ciò che sta succedendo negli Stati Uniti da quando George Floyd è stato assassinato da un gruppo di poliziotti in pieno giorno e sotto le fotocamere di alcuni smartphone è stata in alcuni casi delegata a una sorta di indignazione borghese nei confronti delle conseguenze vandalistiche delle sollevazioni. Come se dalla comodità privilegiata e sentenziosa delle nostre connessioni oltreoceano fossimo in diritto di giudicare la violenza e la radicalità di una protesta sociale che non ci appartiene e per molti versi ancora fatichiamo a capire. “Eh ma rompono anche le vetrine dei cittadini onesti, le rivoluzioni non si fanno svaligiando la Nike”, certo, e chissà quanti cittadini onesti neri negli anni si sono imbattuti in ingiustizie e soprusi tali che li portano a distruggere i simboli della civiltà di cui devono fare parte quando si tratta di rispettare le regole e adempiere ai propri compiti, ma da cui vengono esclusi ed emarginati quando si tratta di diritti e uguaglianza. Ma al di là della morale da nobildonne e gentiluomini che sospirano cercando i loro sali non appena vedono le manifestazioni di una rivolta, una reazione che trovo perfettamente coerente con un certo modo di pensare conservatore, ci sono anche altri tipi di contestazione che si fa ai movimenti di lotta afroamericana che da decenni si battono con la violenza, ma anche senza, che risultano davvero intollerabili, come per esempio tutto ciò che concerne il fenomeno tipicamente americano (ma che si verifica anche in Europa, sebbene la storia del nostro razzismo sia diversa) del “reverse racism”.
Il cosiddetto “razzismo al contrario” rappresenta uno dei baluardi dei suprematisti bianchi e in particolare dei conservatori americani – Trump se ne serve senza problemi pubblicamente su Twitter – e consiste in una logica fallace che prova a cancellare con un trucchetto di prestigio un problema enorme, sistematico e istituzionalizzato. Partiamo dal presupposto che ciò che succede negli Stati Uniti in questi giorni, dal punto di vista di un italiano, specialmente se bianco, non è di immediata comprensione per molteplici ragioni: la storia del nostro Paese, per quanto macchiata da parentesi coloniali, così come per quasi tutte le nazioni europee, non è paragonabile alla storia schiavista statunitense che ha fondato la sua base economica e sociale su un’idea di progresso capitalista che non poteva prescindere dalla forza lavoro importata dall’Africa. Gli Stati Uniti d’altronde cominciano il loro percorso come nazione sulle ceneri dei nativi americani, spazzati via con la giustificazione razziale che legittimava la loro eliminazione dalla faccia della terra per fare spazio a chi era ritenuto biologicamente superiore. Così è, senza girarci troppo intorno, negare il passato non ha senso, conoscerlo e accettarlo per migliorare il presente al contrario ne ha. Ciò non significa che l’Italia non sia razzista solo perché non ha fondato la sua economia sullo sfruttamento di uomini e donne africani schiavizzati – anche se su un’altra forma di sfruttamento industriale della manodopera del Sud, quello sì – ma che avere origini africane ha un significato storico retrospettivo che si deve considerare quando si analizza qualsiasi fenomeno civile. Da noi non si sente spesso parlare di “razzismo al contrario” quanto se ne può sentir parlare negli Stati Uniti, ma ciò non significa che non sia un argomento che può trovare i suoi sostenitori anche tra noi che purtroppo non siamo estranei alla fascinazione per l’etnocentrismo e la xenofobia. Il nostro dibattito sui migranti è in una fase ancora più involuta che negli Stati Uniti se vogliamo, e nel 2020 si discute ancora per regolarizzare i braccianti, che versano in condizioni prossime a quelle della schiavitù.
Prendiamo per esempio due famosi sketch di due tra i più importanti comici americani degli ultimi quarant’anni, Eddie Murphy e Dave Chappelle, entrambi afrodiscendenti e punti di riferimento per la loro comunità, fondamentali per quel processo di inclusione delle persone nere nel racconto mediatico. Nel 1984 Eddie Murphy per il Saturday Night Live si traveste da uomo bianco per apprezzare il privilegio che gli viene concesso una volta trasformato in un individuo “rispettabile”, mentre nei primi anni del 2000 Dave Chappelle parodizza un format americano e si traveste da caucasico in Trading Spouses, prendendo in giro i modi di fare goffi del marito bianco che si trova a dover avere a che fare con una moglie e un figlio neri. Chi ipotizza l’esistenza di un razzismo al contrario potrebbe tranquillamente dire che sia Eddie Murphy che Dave Chappelle hanno fatto uso di una “white-face”, quindi di un’appropriazione indebita della cultura bianca, per ridicolizzare gli americani dal viso pallido, utilizzando stereotipi e pregiudizi nei confronti di un’etnia. Da un punto di vista superficiale e immediato, in effetti si potrebbe anche pensare che questo ragionamento abbia senso, perché io non posso prendere in giro gli stereotipi afroamericani e le persone di colore possono prendere in giro i miei? La risposta la dà in modo molto semplice e diretto un altro comico, Aahmer Rahmar, fornendo un quadro della questione chiaro e comprensibile: sì, certo, io persona di colore statunitense potrei fare del razzismo al contrario, se solo tornassi indietro nel tempo per colonizzare l’Europa, usare gli europei come forza lavoro schiavizzata, confinarli nei ghetti, non dare loro le pari opportunità che do agli altri cittadini, schiacciarli sotto al peso del razzismo sistemico e continuato che fa sì che si ritrovino sempre parte di una categoria subalterna.
Il motivo per cui non esiste il razzismo al contrario è che l’intolleranza e il pregiudizio nei confronti di un certo colore di pelle e di alcuni tratti somatici – la cosiddetta “variazione clinale” che non ha nulla a che vedere con ipotetici tratti biologici di superiorità razziale o deliri di eugenetica – non ha solo a che vedere con stereotipi e discriminazioni che prendono forma su piani astratti, verbali o estetici. Il razzismo ha una radice prettamente collegata alla classe di appartenenza degli afroamericani, ciò che fino a poco più di un secolo fa era schiavitù e che in questi lunghi anni, nonostante le battaglie e le conquiste, nonostante le cariche che hanno ottenuto nel mondo della politica, dello spettacolo, della cultura dell’economia, determina ancora il presente e il futuro delle persone. Si tratta di un rapporto sistematico di potere che i bianchi esercitano sui neri e che si rende concreto in un razzismo istituzionalizzato che fa sì che la povertà e l’emarginazione rimangano caratteristiche centrali della comunità afroamericana che ancora oggi deve scontare il prezzo di un passato di soprusi, violenza, sfruttamento ed esclusione. Quindi no, creare un meme sulla donna bianca media americana che chiama la polizia non appena vede un nero, la cosiddetta Karen, la signora che si indigna e che ha sempre qualcosa da lamentare al manager del negozio non è razzismo al contrario e nemmeno sessismo, perché il razzismo si applica dall’alto verso il basso, da chi comanda verso chi subisce, da chi si sente superiore verso chi viene ritenuto inferiore. La cultura afroamericana che rivendica la sua indipendenza e la sua rivalsa nei confronti di un Paese che continua a violentarla attraverso atti disumani come quelli delle forze dell’ordine americane nei confronti degli uomini e delle donne di colore non sta “facendo lo stesso gioco dei razzisti”, sta smantellando un predominio.
Il senso di queste lotte è quello di reagire all’ennesimo atto di violenza perpetrato attraverso un razzismo istituzionalizzato che agisce là dove la povertà e il disagio sociale, le disuguaglianze e la mancanza di pari opportunità fanno da padroni, perché non possono essere il colore della pelle o il denaro a determinare il valore di una vita. Ed è quindi nostro dovere respingere qualsiasi piroetta logica che punta a smantellare le proteste e una rabbia che dura da secoli mettendola sullo stesso piano di un sistema che ha evidentemente troppi buchi, troppi elementi che non tornano e ancora molto da investire nel futuro per fare sì che non esistano più queste differenze sociali, di poveri bianchi che se la prendono con poveri neri credendo che siano la causa delle loro frustrazioni e della loro infelicità, e di persone di colore – americane o europee o africane che siano – che si ritrovano a vivere discriminazioni e soprusi. In Ho sposato un comunista, Philip Roth scrive una frase eloquente sugli Stati Uniti: “Questo paese si rovescerà da solo trattando gli uomini come animali”. Non so se le rivolte di Minneapolis avranno davvero un impatto così forte e radicale, ma credo che il vaso di pandora sul mito dell’America come faro di civiltà e progresso si stia ormai scoperchiando da solo, con tutto ciò che ne consegue.