Nel suo libro La scomparsa dei riti il filosofo Byung-Chul Han auspica un ritorno a quei gesti simbolici che, a suo dire, sono in grado di creare “una comunità senza comunicazione”. “Nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale”, scrive Han, e in effetti quando si parla di morte e lutto, siamo abituati a pensare che i rituali funebri siano qualcosa in grado di accomunare e unire automaticamente le persone che si stringono attorno al dolore della perdita. Eppure, in un sistema che favorisce alcuni gruppi di persone a scapito di altri, questa non è la realtà per tutti. Anzi, spesso è proprio di fronte alla morte che emergono non tanto i punti di contatto, ma le fratture insite nella società.
Secondo un report dell’associazione per il fine vita Marie Curie in partnership con l’Università di Nottingham e il King’s College di Londra, ad esempio, tra i timori delle persone LGBTQ+ di fronte alla morte c’è la possibilità che la loro identità sessuale non venga rispettata nella memoria e che le loro relazioni, le loro scelte di vita e i loro valori non vengano tenuti in considerazione al momento della cerimonia funebre. Anche le persone trans, quando muoiono, rischiano di venire ricordate con pronomi e nomi che non corrispondono alla loro identità di genere, persino quando la loro morte è stata causata proprio dalla stessa violenza transfobica.
Questa impossibilità della comunità LGBTQ+ di vivere il lutto al di là delle norme escludenti stabilite dalla società è emersa chiaramente negli anni Ottanta e Novanta, durante l’epidemia di AIDS. Lo ha raccontato molto bene It’s a Sin, serie televisiva britannica creata da Russell T Davies e ambientata nel 1981 all’interno della comunità gay di Londra. I protagonisti sono un gruppo di diciottenni omosessuali e queer che si trovano nella grande città per seguire i loro sogni e vivere la loro sessualità lontani dalle imposizioni delle famiglie. Quando quella che allora veniva considerata la “malattia dei gay” inizia a diffondersi, si trovano ad affrontare le drammatiche conseguenze dell’epidemia. Il regista, che per scrivere la serie ha attinto alla sua esperienza personale, descrive il netto contrasto tra la gioia sfrenata nell’abbracciare la propria identità e la libertà sessuale e la paura e il dolore causati dalla malattia, che in quegli anni era vista come una sorta di “punizione divina” per l’omosessualità.
Fin dalle prime scene, sappiamo che, probabilmente, molti dei personaggi moriranno, ma Davies – raccontandoci le loro vite, le amicizie, gli amori e poi le morti e la memoria di chi resta – riesce a far emergere quello che negli anni successivi è stato definito “queer grief”. “Queer” (la “Q” di LGBTQ+) significa letteralmente “strano”, ma è un termine ombrello che ha da tempo assunto un valore politico e si riferisce a quelle persone che, con la loro identità e il loro atteggiamento, mettono in discussione le norme imposte dal sistema dominante a livello di identità sessuale, e non solo. “Grief”, invece, è il dolore del lutto, la cui manifestazione viene di fatto regolata da riti e norme di comportamento sociali e religiose. A un certo punto, durante la serie, i ragazzi cominciano a tornare a casa propria perché si ammalano misteriosamente e tornano dalle loro famiglie, a morire lontani dalla vita e dalla comunità che si erano scelti (la cosiddetta “chosen family”). Molti, sopratutto, muoiono senza che la loro identità venga riconosciuta: ai funerali, organizzati dai genitori, gli amici e i compagni non possono partecipare e l’AIDS non viene nominata per paura che l’omossessualità a cui era collegata venga a galla: un aspetto ancora poco raccontato dell’epidemia.
Uscendo dal mondo della fiction, a New York, nel 2018, è nato il progetto AIDS Initiative che si occupa di identificare e ricordare le persone morte di AIDS e sepolte nella fossa comune di Hart Island, nel Bronx, a causa della paura della malattia e ancora una volta dello stigma legato all’omosessualità. In molti casi le famiglie non sanno nemmeno di avere dei parenti sepolti lì: “I genitori dicevano: ‘Non è un problema nostro, fate solo quello che dovete fare’,” ricorda di quel periodo al New York Times il proprietario di un’impresa di pompe funebri.
Secondo l’autrice e accademica femminista e lesbica Ann Cvetkovich, l’epidemia di AIDS ha segnato profondamente la storia della comunità LGBTQ+, ma anche l’immaginario collettivo. “Come altri incontri traumatici con la morte”, scrive nel suo libro An Archive of Feelings, “ha messo in discussione le nostre strategie per ricordare i defunti, costringendo a inventare nuove forme di lutto e commemorazione”. A partire dall’esperienza di negazione del dolore, la comunità LGBTQ+ ha iniziato a riappropriarsi delle pratiche del lutto e ad assorbirle nell’orbita dell’attivismo. Negli anni sono nati rituali funebri creati da e per la comunità LGBTQ+ che si distaccano dalle imposizioni sociali e religiose che alimentano le stesse discriminazioni subite in vita dal defunto. “Sono stanco di essere accolto solo da morto nella Chiesa Cattolica,” ha detto nel 1996 un attivista al New York Times parlando delle commemorazioni delle vittime di AIDS “Finché non ci accoglieranno da vivi è ridicolo che abbiano l’ultima parola sulle funzioni funebri”.
Il “queer grief” ha quindi gradualmente assunto dei connotati politici come reazione al disinteresse delle istituzioni verso l’epidemia di AIDS, allo stigma e al pietismo che rendeva le loro vite degne di inclusione nella collettività solo una volta finite. Act Up (AIDS Coalition to Unleash Power), organizzazione internazionale impegnata a richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di AIDS, ha organizzato, all’inizio degli anni Novanta, diversi “funerali politici”. Le bare venivano fatte sfilare per le strade, le commemorazioni tenute pubblicamente in luoghi-simbolo del Paese come Capitol Hill a Washington DC, le ceneri delle persone morte sparse sul prato della Casa Bianca. In questo modo, quel dolore altrimenti negato, silenziato e in molti casi coperto di vergogna tornava a essere pubblico attraverso rituali in netta rottura con lo status quo.
Di questo tema, nel mondo accademico statunitense e anglosassone, si occupano i Queer Death Studies, per lo più sconosciuti in Italia. Come spiega la filosofa e esperta di Studi di Genere Marietta Radomska nel saggio Queer Death Studies: Death, Dying and Mourning from a Queerfeminist Perspective, i Death Studies sono nati negli anni Settanta come campo di ricerca interdisciplinare dedicato alla morte e al lutto come complessi e sfaccettati fenomeni socio-culturali . I Queer Death Studies ne sono la diretta conseguenza e criticando l’approccio tradizionale si interrogano e decostruiscono le norme che inquadrano i discorsi contemporanei sulla morte, il morire e il lutto. La parola “queer”, in questo contesto rimanda alla comunità LGBTQ+ e alla sua storia di dolore negato e politicizzato.
“Gli individui”, scrive Radomsk, “che non soddisfano le condizioni dell’idea normativa del soggetto sovrano (di solito immaginato come bianco, moderno e civilizzato, di classe alta o media, eterosessuale, cisgender, abile e umano) tendono a essere ignorati nelle storie dominanti di morte, perdita, dolore e lutto”. Se pensiamo che, fino al 2016, in Italia le coppie omosessuali non avevano alcun riconoscimento legale e che, a oggi, non esiste ancora una legge che tuteli dalla violenza omobitransfobica, è facile capire come le norme sociali – e in certi casi anche giuridiche – finiscano per negare alcune relazioni e alcune individualità, nella morte proprio come in vita.
Come scrive Sara Ahmed: “Le vite queer devono prima essere riconosciute come vite per poter essere compiante nella morte”. L’alternativa è che i dettami della nostra società – di stampo patriarcale, capitalista e colonialista – continuino a gerarchizzare le esistenze, le morti e anche il modo stesso di vivere il dolore. Questo, ad esempio, è successo di recente con l’accesso ritardato ai vaccini contro il Coronavirus per le popolazioni più povere e ora lo vediamo con la guerra in Ucraina, a cui tendiamo a dare molto più peso se paragonata ad altri conflitti nel mondo. Lo stesso vale per i femminicidi, le uccisioni razziste e omotransfobiche e il discorso si può ampliare anche, in ottica antispecista, alle uccisioni degli animali e alla distruzione dell’ambiente. Si tratta di morti che, a livello sociopolitico, sono considerate di serie B. Il queer grief e i Queer Death Studies, dunque, sono “queer” anche in senso più ampio, vere e proprie rivoluzioni dello status quo, perché ci spingono a mettere in discussione un intero sistema di valori che rende determinate morti – ma, in primis, determinate vite – meno importanti e degne di rispetto e di compianto di altre.