Ci sentiamo persi, succubi degli eventi, scoraggiati: è la crisi dei 25 anni e non finisce più - THE VISION

L’altro giorno, parlando con un’amica, ci siamo interrogati sul nostro senso di smarrimento nella società. Un po’ un simposio virtuale senza banchetto – eravamo su Whatsapp – e un po’ un muro del pianto – prevalevano sfoghi e frustrazioni -, in cui abbiamo provato a individuare un punto nel tempo in cui non siamo più riusciti a ignorare la sensazione di disillusione, precarietà e mancanza di aderenza con il mondo circostante. Lei è stata più decisa di me e ha collocato quel momento intorno ai venticinque anni, ovvero quando ha finito gli studi e ha tentato di affacciarsi al mondo del lavoro, delle responsabilità, della ricerca di un’indipendenza economica e affettiva che, a distanza di quasi dieci anni, non ha ancora del tutto raggiunto. In psicologia questa condizione è definita “crisi del quarto di secolo”. 

Il fenomeno, chiamato globalmente quarterlife crisis, ricalca tutti quei tratti che erano emersi nella nostra conversazione, in modo poco accademico e molto raffazzonato, per descrivere l’impressione di sentirsi persi, in balia degli eventi, all’interno di una società poco propensa a incoraggiare non solo i giovani, ma anche quelli che a tutti gli effetti entrano nel mondo degli adulti, demoralizzandoli sin dal principio e finendo per non considerarli mai tali, passando per la nenia delgiovani per sempre”. Le conseguenze possono sfociare in sintomi più complessi, come una vera e propria depressione, ma anche in ansia, attacchi di panico e, più in generale, in un’incertezza di fondo che porta l’individuo a non riuscire a orientarsi in un mondo che lo sovrasta. I motivi vengono attribuiti alla prima, vera iniziazione alla vita. Se dopo gli anni delle superiori spesso l’università diventa una coda dell’adolescenza, il termine di questo percorso non lascia più margini per abbozzare un adattamento: devi arrangiarti, non sei più un ragazzino. Gli stress principali riguardano la ricerca del lavoro, spesso caratterizzata da una gavetta infinita e sottopagata che causa scoramento; e da un nuovo modo di intendere le relazioni, ancora attaccato ai modelli della società ereditati dai nostri genitori, che tendono a imporre la costruzione di una famiglia. In un periodo storico in cui sempre più persone si stanno rendendo conto che il lavoro non può rappresentare l’unico scopo della vita, e sposarsi o fare figli non deve essere un obbligo per completarsi come individui, invece, dovremmo accettare i nostri tempi e i nostri spazi. Non essendo però degli asceti in isolamento in cima a una montagna, inevitabilmente i diktat assorbiti dalla società continuano a stuzzicare i nostri nervi scoperti, e il senso di smarrimento prolifera.

Tecnicamente, la psicologia ha tardato a registrare il processo evolutivo dell’adulto, considerandolo per troppo tempo un individuo già fatto e finito, sinonimo di risolutezza e di materia non più plasmabile. Negli anni Trenta furono gli studi della psicologa Charlotte Bühler ad aprire uno spiraglio su un ritratto ancora inedito dell’essere umano moderno,come soggetto alla ricerca di una gratificazione personale che può diventare frustrazione se ostacolata. Furono quindi poste le basi per la psicologia umanista di Abraham Maslow, Carl Rogers e altri esponenti intenzionati ad aggiungere la prospettiva sociale nella formazione dell’individuo, soprattutto in rapporto all’esigenza di un’affermazione come spinta per ampliare l’autostima. Fu però lo psicologo Erik Erikson a dividere gli stadi di sviluppo psicosociale in otto fasi distinte per fasce d’età, associando una crisi a ognuna di queste. Quella che ci riguarda, si estende per un lungo periodo tra i venti e i quarant’anni, che Erickson chiamò “prima età adulta”. Lavorò su queste tesi fondamentalmente dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, fino a scovare quei patemi d’animo che hanno portato me e la mia amica a esclamare: “Cazzo, questi siamo noi”. E la nostra intera generazione.

Per Erikson, il giovane adulto vive un conflitto tra intimità e isolamento, ovvero tra il desiderio – o l’incombenza sociale – di costruire relazioni intime e quello di stare da solo, rincorrendo una forma di distacco che può essere percepita sia come volontà che come necessità di sopravvivenza. Spiega inoltre come in questa fascia d’età la crisi sia legata alla paura di un mondo nuovo, di quei parametri che devono essere assimilati senza averne una conoscenza totale, apparendo quindi ostili e provocando turbamenti. Abbandonare i vecchi codici, quelli dell’accudimento, per abbracciare i nuovi, ovvero l’autodeterminazione e la capacità di muoversi da soli nel mondo, comporta uno sconquasso emotivo caratterizzato da una fase di ristrutturazione della nostra stessa identità, necessaria per il passaggio all’età adulta. Se già ai tempi di Erikson la trasformazione determinava una crisi, nel mondo d’oggi le difficoltà sono aumentate a causa di una società che non si è evoluta in modo lineare, cioè lasciando il campo alle nuove generazioni, ma ha mantenuto i dogmi paternalistici dei nostri genitori in una realtà che non può più supportarli. Pretendere oggi la realizzazione attraverso la chimera del posto fisso o della stabilità dei rapporti significa essere fuori dal tempo, e chi attraversa la crisi del quarto di secolo ne paga le conseguenze perché non ha gli strumenti per affrontare le sfide a cui è sottoposto. È come sfidare un esercito di droni con una baionetta: si finisce per soccombere, venendo per giunta scherniti da chi non ha dovuto nemmeno imparare a usarla.

Il primo a coniare il termine quarterlife crisis è stato lo scrittore e giornalista Damian Barr nel saggio del 2006 Get it together: a guide to surviving your quarterlife crisis. Barr ha preso spunto dagli studi di psicologia dei decenni passati, compresi quelli di Erikson, traslandoli nel nuovo millennio in una forma più attinente alle incombenze che un giovane adulto deve affrontare oggi. Così, ai conflitti interiori si aggiunge la concretezza dell’ansia economica di chi teme di non riuscire a pagare l’affitto o le bollette, così come la consapevolezza di una realtà, quella capitalista, dove la competizione e l’individualismo tendono a escludere chi non ha l’attitudine, e soprattutto le possibilità, per poter attutire i colpi che inevitabilmente la vita ci assesta. Anche la fase di stabilizzazione, – banalmente trovare il nostro posto nel mondo – dà il via a rivoluzioni che non sempre siamo in grado di gestire. Ancora una volta è il lavoro il motore di questi cambiamenti. Vivendo al Sud, mi rendo conto di come intorno a me ci sia una vera e propria migrazione professionale, con il Meridione che si sta svuotando perché mancano i posti di lavoro. Molti dei miei coetanei cercano fortuna al Nord o all’estero, aumentando l’arsenale delle crisi, a cui si aggiunge il carico della dimensione affettiva. Abbandonando il proprio luogo di origine non solo si è costretti ad adeguarsi a nuovi posti e abitudini, ma bisogna convivere con la mancanza dei propri cari, tra famiglia e amici. Spesso anche le relazioni vengono minate da questi cambiamenti, con il fattore geografico a ridefinire una nuova mappa sentimentale. Per quanto in molti si trovino ad affrontare questi cambiamenti, sia per l’università che, appunto, per il lavoro, la sensazione è che crescendo diventi via via più difficile crearsi una nuova quotidianità. Questo mi ha portato a chiedermi se non fossi fuori tempo massimo per la crisi del quarto di secolo, non avendo più venticinque anni. La risposta è stata esplicita: no.

L’ha spiegato bene Oliver Robinson, il ricercatore capo che ha condotto uno studio per la Greenwich University di Londra: “Le crisi del quarto di secolo non si verificano letteralmente a venticinque anni, ma a un quarto dell’età adulta, nel periodo tra i 25 e i 35 anni”. Lo studio, basato su un campione di 1.100 intervistati in questa fascia d’età, mostra come l’86% dei giovani adulti si senta sotto pressione a causa dell’obbligo sociale di raggiungere il successo nel lavoro e di avere una relazione stabile. I soggetti in questione si definiscono preoccupati per i soldi, dichiarando di non guadagnare abbastanza, e non si sentono ancora pronti per sposarsi e avere figli. Anche l’Harvard Business Review ha condotto una ricerca sulla crisi del quarto di secolo, spiegando come molti si sentano intrappolati nella ragnatela di responsabilità nella vita personale e professionale, ripiegandosi spesso nell’isolamento come forma di protezione dalle pressioni sociali. 

La solitudine del cittadino globale prende ancora più piede in una fascia d’età dove la precarietà non è solo un termine legato al lavoro, ma a tutta una costellazione di aspetti sociali, emotivi e relazionali che ci sta facendo perdere la rotta, allontanandoci gli uni dagli altri. Il conflitto tra intimità e isolamento, nel 2023, vede vincere il secondo, e suona più come una scelta a esclusione: una resa di fronte a un tempo e a uno spazio che non riusciamo a considerare nostri. Il senso di estraneità diventa quindi la componente principale di quest’epoca, e ben presto si trasforma in paura. Quella di non essere all’altezza delle aspettative, di non poter costruire un futuro su misura per noi, di non essere in grado di trovare una direzione. La conversazione con la mia amica si è conclusa proprio con questa domanda: “Dove stiamo andando?”.

Nessuno dei due ha saputo rispondere, ma almeno sappiamo che non siamo i soli a porci questa domanda. Non è una consolazione: facciamo parte di un esercito di disorientati a cui hanno sottratto la bussola. E se non possiamo trovarla, non ci resta che inventarne un’altra che segni le nostre coordinate, non quelle di chi ci ha preceduto.

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