Il mondo è come ce lo mettiamo in testa, e il più delle volte come ce lo mettono in testa gli altri. Se applicassimo questa massima allo scompiglio creatosi di recente per una pubblicità di moda, o a quello che succede sempre più spesso da quando viviamo questa fase di rivoluzione profonda che sta investendo la rappresentazione e l’accettazione della diversità al giorno d’oggi – grazie all’esplosione di movimenti incentrati sulla consapevolezza del sé, l’inclusività, e la body positivity – verrebbe da pensare che sia proprio così. Si ha sempre di più l’impressione, infatti, che l’opinione pubblica stia non solo, piano piano, e a fatica, aprendosi a un nuovo modo di considerare la realtà, ma anche rivelando, allo stesso tempo, le strutture salde e radicate di una cultura visuale e di un’estetica, che gli sono state imposte per tanto tempo, e che hanno dominato, in maniera più o meno incontrastata, per decenni.
L’11 aprile la casa di moda Valentino ha pubblicato su Instagram l’autoritratto del modello e fotografo americano Michael Bailey-Gates per presentare l’iconica bag della maison, ma – come purtroppo c’era da aspettarsi – l’elegante immagine di nudo maschile scelta per la nuova campagna ha scatenato una raffica di insulti omofobi, molti dei quali legittimati in virtù di una libertà d’espressione che spesso viene confusa con l’intolleranza e il diritto di esprimere odio. Come al solito ci si è divisi fra i superbi e valorosi sostenitori che si battono “contro la dittatura del politicamente corretto” – che imporrebbe l’abominio di accettare un uomo nudo in una posa e in un contesto tipicamente femminili – e quelli che “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Uno scontro fra titani che di fatto ha generato commenti tanto aggressivi che hanno spinto il modello a chiudere il proprio profilo Instagram.
Purtroppo non si tratta di un caso isolato, né di un atteggiamento che sorprende, dal momento che questa è la reazione che si registra ancora, ogni qual volta una campagna pubblicitaria, uno spot o un post non abbia come protagonista una persona che incarna una bellezza canonica, capace di rassicurare lo spettatore secondo stereotipi binari. Basti pensare a cosa si è scatenato quando Gucci ha fatto sfilare la modella Armine Harutyunyan, o a ogni volta che Lourdes Leon Ciccone (la figlia di Madonna) posa su una qualsiasi rivista o per qualsiasi campagna pubblicitaria, e quali sono, ancora, le reazioni ai post delle star che talvolta decidono di mostrarsi in maniera più naturale.
Parlando esclusivamente di estetica – che nel nostro Paese ha sempre avuto un peso e un ruolo di centrale importanza – non c’è dubbio che queste siano scelte importanti, perché mostrano i nervi scoperti di una società che ha interiorizzato un solo modello visuale ed estetico e che per questo fa fatica ad accettare tutto ciò che non vi rientra. Questo è il risultato di decenni di standard esclusivi stratificati e sedimentati che si fa ancora fatica ad accantonare. Infine, la prova inconfutabile, di quanto siamo tuttora incapaci di accettare che il mondo non corrisponda al nostro immaginario e di quanto il male gaze continui comunque a imporsi come misura di tutte le cose.
Per quanto episodi simili possano sembrare marginali, il fatto che la moda, i media e la comunicazione mediatica stiano sdoganando sempre di più un modello non standardizzato e che le persone stiano cominciando a essere sempre meno schiave e condizionate da un unico modello estetico è indubbiamente positivo. Storicamente ciò a cui stiamo assistendo è qualcosa di veramente nuovo: non era infatti mai accaduto prima che così tanti diversi modelli estetici coesistessero e trovassero spazio in modo così trasversale. Come la storia dell’arte ci dimostra, la bellezza è un concetto in movimento che è cambiato e che continua a cambiare. I canoni estetici sono stati trasportati e diffusi nel tempo dalle icone in modo fluido, variando in base alle epoche e ai contesti. Oggi, infatti, la stessa “bellezza” che per secoli è stata riconosciuta come un dato di fatto ha perso l’aspetto di una conquista, non è più un attributo quanto una risorsa.
Il nostro sguardo è costantemente esposto a modelli di rappresentazione più positivi anche grazie al fatto che i suoi confini tradizionali sono stati finalmente messi in discussione dal dibattito aperto dai movimenti per l’inclusività. Eppure tutto questo non basta e le reazioni di odio cieco e apparentemente immotivato, ne sono la dimostrazione. Per questo bisognerebbe accompagnare a questa evoluzione anche la costruzione di un nuovo modo di guardare che non sia più statico e pronto in ogni momento a irreggimentare la realtà; che non obblighi ogni cosa negli spazi angusti dell’etichetta o del giudizio, ma che sia capace di considerare la realtà come un’entità dinamica e aperta. In quest’ottica, quindi, decostruire il nostro sguardo è fondamentale per sostenere e rendere davvero possibile l’inclusività, altrimenti i due piani, quello della realtà e quello della nostra percezione rimarranno inevitabilmente scollati e non saremo mai davvero in grado di capire e rispettare gli altri.
Come ha scritto Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo della maison, intervenuto nella querelle ripostando sui suoi profili la foto incriminata: “Stiamo assistendo a un grande, enorme, cambiamento nel genere umano, i movimenti sulla consapevolezza del sé sono tutti guidati dalla stessa idea: l’evoluzione è possibile se l’uguaglianza è possibile, se l’inclusività è possibile, se i diritti umani vengono difesi e la libertà di espressione viene protetta e nutrita”. Prima di tutto è quindi fondamentale fare in modo che le persone siano più aperte e più propense a guardare oltre la siepe e a non ad alzare il muro, perché queste persone non sono solo quelle che riversano il loro odio e la loro ignoranza sui social, sono le stesse con cui condividiamo le strade, i nostri luoghi di lavoro, la nostra patria e il pianeta e i danni che fanno con questa visione chiusa e limitata non rimangono solo circoscritti al mondo virtuale dei social.
Queste reazioni e l’ostruzionismo che ancora oggi viene fatto alla legge Zan vanno di pari passo, queste manifestazioni d’odio normalizzato in reazione a un’immagine prodotta dall’alta moda e i casi di violenza nei confronti di persone omosessuali che si tengono per mano, per non parlare di quelle nei confronti delle persone transessuali che spesso non vengono nemmeno ribattute dai media, sono tutti segnali di una situazione ancora estremamente critica. Lo scopo dell’inclusività non è solo l’accettazione di sé, ma soprattutto il liberarsi come società una volta per tutte dal giogo di un sistema opprimente che detta le regole – e spesso come abbiamo visto lo fa in maniera violenta – e che impone un unico modello giusto e accettato di essere e di apparire. “Essere consapevoli della propria bellezza” vuol dire essere consapevoli dei condizionamenti sessisti, del patriarcato e del maschilismo che ci circondano e del fatto che per tanto tempo, e ancora oggi, in parte, il “sentirsi belli” e accettati è dipeso dallo sguardo che il mondo ha su di noi. E tutto questo, per l’appunto, trascende il “coraggio di mostrare il proprio corpo” o il “trovare la forza di fotografarsi al naturale”. Rendere possibile l’inclusività significa capire che nessuna rappresentazione e nessun corpo sono “sbagliati”, perché in una società ideale nessuno dovrebbe avere il timore di mostrarsi. Per fortuna ci sono tante persone che lottano, ciascuna coi propri mezzi, per mettere in discussione i canoni vigenti o le esistenze non conformi a quella strettissima che ci è sempre stata imposta.