Sui social la psicologia si è ridotta a 5 consigli su come stare meglio. Anche no, grazie. - THE VISION
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Io non so se effettivamente quel che ci appare sui social sia ciò che siamo, ma in tal caso l’algoritmo di Instagram sta provando a farmi capire che la mia vita è una merda. Se prima il mio feed “era tutta campagna” – gattini, rovesci di Federer e scene di film di Nanni Moretti – adesso sono entrato nel rabbit hole dei tizi che provano a dirmi in venti secondi di reel come dare un senso alla mia esistenza. Non so se sia un segno, una grande macchinazione della mia psicoterapeuta in combutta con Meta o una sceneggiatura posticcia di una puntata di Black Mirror; sta di fatto che sto avendo a che fare con lo sconfinato e dispersivo mondo della psicologia su Instagram. E avrei preferito evitarlo.

I profili in questione si dividono in due categorie: quelli di psicologi veri e quelli di pseudo-mental-coach, guru improvvisati e santoni da tastiera. Nel primo caso si tratta prevalentemente di professionisti giovani che usano la vetrina dei social per pubblicizzare se stessi. Se ormai anche i politici sono diventati a tutti gli effetti degli influencer, nel 2024 è inevitabile che sia così per praticamente ogni mestiere, soprattutto perché ormai la “semplice” competenza sembra non bastare, se non è accompagnata dalla visibilità. C’è da fare anche un ragionamento più profondo e sfatare alcuni miti. Molti lettori avranno in testa l’immagine degli psicologi “già arrivati”, quelli che dopo decenni di carriera hanno uno studio privato, prendono 100 euro a seduta e in un mese guadagnano più del presidente della Repubblica. Sono però casi che spesso nascondono l’altra realtà, ovvero le difficoltà che, soprattutto in Italia, devono affrontare i giovani psicologi per affermarsi e poter svolgere dignitosamente la propria professione. Anni di studio in cui ci si laurea, ci si specializza, si fanno tirocini interminabili, esami, ci si iscrive all’Albo, si prova a scardinare uno stigma ancora non del tutto estirpato riguardo la psicoterapia, si fanno esperienze nelle carceri, nei centri di riabilitazione per tossicodipendenze, e tutto questo senza un vero e proprio ritorno economico. C’è poi una reale crisi occupazionale per la categoria, perché per avviare un’attività privata servono spesso costi insostenibili per chi è a inizio carriera, e nel pubblico le risorse sono limitate e il processo di assunzione ingolfato. La conseguenza è che in Italia soltanto un terzo degli psicologi raggiunge i 20mila euro annui, con più di quindicimila che non arrivano nemmeno ai 5mila.

Fanno quindi bene a sfruttare anche i social per la propria crescita professionale. E alcuni di loro lo fanno anche con ponderatezza, evitando sensazionalismi, semplicismi e la tentazione della faciloneria per raccattare qualche follower in più. Molti, però, usano questo mezzo riducendo la psicologia a un bignamino di frasi fatte, a pillole di consigli acchiappalike, lasciando intendere che le soluzioni alle problematiche della vita siano riassumibili in parole chiave e frasi motivazionali. In qualche modo, insomma, si adeguano all’algoritmo, diventando tutti uguali. Ho spulciato diversi profili – di solito nome-cognome-psicologo/a – e l’attenzione sembra più incentrata sull’estetica appagante, sulla forma più che sulla sostanza. E non è per forza sbagliato, d’altronde ci si deve adeguare alla piattaforma e per promuovere la propria attività i nostri tempi chiedono a quasi chiunque di essere i manager di se stessi. Quasi sempre i post e i reel con più visualizzazioni sono quelli “a lista”: cinque modi per superare l’ansia, dieci trucchi per affrontare la fine di una relazione, e via dicendo. Sono facili da leggere o da ascoltare, spesso gli psicologi ci mettono la faccia e registrano video sottotitolati con le frasi che chiunque vuole sentire. Può apparire come la semplificazione di una scienza – perché la psicologia lo è – che si inchina al dio algoritmo, ma concretamente è una mossa di marketing abbinata a un tentativo di divulgazione. Lo stesso lessico usato è studiato minuziosamente, tentando di inserire parole virali, abusate e spesso svuotate del loro significato (come mindset o resilienza) per poter incuriosire l’utente, dargli un’infarinatura più che superficiale della tematica trattata e inserendosi nel meccanismo che porta a dire: “Ehi, ma sta parlando di me”.

I post, le storie e i reel sono inoltre giornalieri, perché più si pubblica più l’algoritmo ti premia. In tal modo si crea un bombardamento di stimoli, di informazioni non sempre necessarie o comunque monche. Non è di certo una novità legata alla categoria in questione, essendo un fenomeno che riguarda i social in generale e, per uniformarsi, è necessario – anche nel ramo della psicologia – usare questi codici. Se dunque anche uno psicologo può trasformarsi in un influencer, sarebbe utile se magari servisse a convincere qualche persona a iniziare una vera psicoterapia, ma il problema sorge quando l’utenza pensa che questo basti, e che la pagina preferita di pillole psicologiche sia un’iniezione di saggezza, quando ovviamente non lo è e non può esserlo, ma come non possono esserlo nemmeno tre sedute di psicoterapia, e magari nemmeno un anno intero. 

Il fenomeno entra nel torbido e nell’intollerabile quando a sfruttare questo trend entrano in gioco individui che non sono nemmeno psicologi e si spacciano come tali, se non addirittura come entità ancora superiori. Se già un post con una frase random di Jung è la quintessenza del pressapochismo, figuriamoci il sedicente coach esistenziale che ti spiega la vita. Quindi serve il giusto setting per impostare una routine da vincente e focusarsi (sigh) su un plan per migliorare il proprio lifestyle. Di solito i coach motivazionali sono dei Jordan Peterson pezzotti – non che l’originale sia migliore – e le strategie proposte sono più decise, quasi violente, rispetto a quelle usate dagli Instapsicologi. Pretendono di insegnarti a vivere, cavalcano l’algoritmo non soltanto per la ricerca di un like, ma per ergersi a, usando il loro lessico, role model. Sono dei sergenti Hartman che ti rimproverano nei loro video, ti spiegano perché la tua vita è sbagliata e impongono i loro standard. Magari ci buttano dentro qualche consiglio non richiesto sulle criptovalute, un panegirico sulla self-confidence e per chiudere in bellezza provano a venderti un loro corso, ne hanno a bizzeffe, quasi su qualsiasi cosa e ambito del sapere.

Posto che i commenti sui social lasciano il tempo che trovano, mediamente i follower si dividono tra adepti del culto e scettici che si fanno due risate sotto i consigli delle dieci frasi da dire davanti allo specchio per carburare meglio e poter affrontare la giornata da Patrick Bateman dei giorni nostri. Ma se in questo caso l’operazione di marketing è esplicita, è molto più strisciante quando sono degli psicologi veri a metterla in atto, proprio perché hanno, grazie agli anni di studio, una preparazione ben più strutturata, nonché responsabilità maggiori. Su Internet, e ancor di più sui social, è molto facile fidarsi di ciò che viene scritto e detto senza concentrarsi sui messaggi che vengono fatti passare. Per cui su dieci pagine di psicologi su Instagram magari ce ne saranno tre interessanti, dettagliate, deontologicamente valide, senza la pretesa di sostituire la psicoterapia con un reel, e sette che rischiano di disonorare un’intera categoria già in difficoltà – d’altronde vale per qualsiasi macrogruppo nella società. Anche qui, ci sono alcuni mestieri più sensibili a questo problema.

Dobbiamo allora supportare gli psicologi, è vero, ma questo è un plurale che dovrebbe coinvolgere principalmente le istituzioni, affinché si occupino di sensibilizzare sull’importanza della cura della salute mentale, della psicoterapia e dei suoi benefici. Il metodo però non è di certo trasformare la psicologia in un distributore automatico di frasi fatte o nella macchina della semplificazione. Già viviamo in un’epoca in cui il tempo è accartocciato, ogni contenuto si riduce e la concentrazione si abbassa giorno dopo giorno; se poi siamo costretti a trovare conforto in un reel sulle cinque serie TV per sconfiggere la solitudine, forse è il caso di prenderci una pausa dagli schermi e andare a scoprire la psicoterapia della chaise longue e dei Kleenex, non quella dello scrolling. Sarebbe la soluzione più scontata, non fosse per i problemi di accessibilità, con più di cinque milioni di italiani che non possono permettersi lo psicologo pur essendo intenzionati a rivolgerglisi.

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