Dallo scorso 23 ottobre è disponibile su Netflix La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit), miniserie ambientata negli anni della guerra fredda e ispirata all’omonimo romanzo di Walter Tevis. I sette episodi ripercorrono la vita di Elizabeth Harmon, interpretata da Anya Taylor-Joy, orfana con un innato talento per gli scacchi che la porterà, in breve tempo, a diventare la più acclamata giocatrice del mondo. Parallelamente allo sviluppo di una brillante carriera, la serie racconta la dipendenza della protagonista da alcol e psicofarmaci, iniziata, all’età di nove anni nella struttura che l’aveva accolta dopo la morte della madre. All’epoca, infatti, non era rara la somministrazione di tranquillanti e sedativi agli ospiti degli orfanotrofi americani e canadesi, pratica altrettanto frequente in Paesi come Russia e Romania. Il loro abuso superava però i confini di queste strutture.
Fra gli anni Cinquanta e Settanta, la psicofarmacologia americana andò incontro a una vera e propria esplosione. Principali destinatarie dei suoi prodotti erano le donne, per le quali la manifestazione di ansia o stress era solita evolvere, con effetto quasi immediato, in diagnosi di nevrosi o instabilità mentale. La prescrizione di tranquillanti alle casalinghe e, soprattutto, alle donne con un reddito proprio, appariva come l’unico rimedio utile a placare la loro insostenibile inquietudine, preservandone così la capacità di gestire il ménage familiare e l’intimità della coppia. Il ruolo sociale di tali sostanze presenta però radici ben più profonde.
Durante la seconda guerra mondiale, l’arruolamento di buona parte della forza lavoro maschile aveva reso necessaria una rivalutazione del ruolo sociale femminile. Il lavoro delle operaie di fabbrica divenne vitale per la produzione di armamenti, mentre le donne borghesi cominciarono a svolgere le professioni liberali tradizionalmente riservate agli uomini, affermandosi come ingegnere, chimiche, giornaliste e avvocate. Per molte, soprattutto nei Paesi anglosassoni, scaturì la presa di coscienza del fatto che l’emancipazione e l’autonomia economica erano possibili e che il matrimonio non escludeva a priori la possibilità di autodeterminarsi professionalmente. Se negli anni Venti e Trenta erano quasi esclusivamente le donne single a dedicarsi al lavoro salariato, dal dopoguerra in poi l’80% delle neo-occupate, anche sposate, si dichiarò desiderosa di mantenere l’impiego conquistato. Si trattava di una prospettiva nettamente in contrasto con la struttura sociale che fino a quel momento aveva permesso lo sviluppo dell’economia capitalista, basata su una rigida e binaria distinzione del lavoro: quello produttivo, destinato alla creazione della ricchezza e di esclusiva competenza maschile, e quello riproduttivo, riferito all’ambiente domestico, riservato alle donne e secondario al primo nella gerarchia del potere.
Negli stessi anni in cui le donne minacciavano di sovvertire l’ordine sociale, negli Stati Uniti si assistette all’evoluzione di un ulteriore fenomeno: la crisi della psicoanalisi, accompagnata da notevoli progressi scientifici nello studio del cervello. La teoria psicanalitica, che nella prima metà del secolo si era affermata sotto molteplici forme in tutto il Paese, predicava l’esistenza di un netto squilibrio fra le condizioni di uomo e donna. Freud aveva evidenziato le similitudini fra lo sviluppo libidico del singolo individuo e il processo di civilizzazione della collettività, dichiarando che il mantenimento dell’ordine sociale fosse subordinato al contenimento dell’azione femminile entro una sfera che non le permettesse di minacciare la solidità delle “regole” che governavano la “rinuncia maschile degli istinti”. Secondo lui, infatti, la formazione del Super Ego – istanza psichica di frenare i nostri istinti primitivi – era ritenuta possibile solo in seguito alla repressione della pulsione sessuale che il bambino provava inizialmente nei confronti della madre.
Il binarismo di genere predicato dalla psicoanalisi sposava appieno i princìpi che sostenevano l’ideale patriarcale. Fra gli anni Quaranta e Cinquanta, però, tale disciplina si rivelò improvvisamente inefficace nel curare le conseguenze di quello che un neologismo dell’epoca aveva definito “mammismo”. Il termine, coniato nel 1942 dal saggista americano Philip Wylie nel suo libro Generazione di vipere, si riferiva alla “personalità tipica delle madri soffocanti e iperprotettive nei confronti dei figli”, che si manifestava nei loro atteggiamenti aggressivo-oppressivi che “privavano i futuri uomini della loro virilità”. L’agito destabilizzante delle madri nella società, secondo l’autore, si rifletteva nella crescita di uomini illusi, incapaci di distinguere i fatti dalle opinioni e impegnati a venerare la loro “cara, dolce mamma”, compiacendone i “capricci della menopausa” piuttosto che dedicarsi alle questioni rilevanti, come la politica e il progresso della scienza. Riprendendo la psicanalista Karen Horney, il conflitto generatosi fra la “natura maschile” dominante e il matriarcato domestico aveva promosso lo sviluppo di una società nevrotica. Casualmente, tale disagio psicologico coincideva con la messa in crisi di quella che la psicanalista Rosalind Minsky descrisse come “l’identità mascolina della cultura patriarcale”. L’angoscia che affliggeva gli uomini della classe media sembrava originare non solo dal cosiddetto mammismo, ma anche dalle ambizioni manifestate dalle loro mogli. Erano loro, quindi, a dover essere curate.
I progressi nelle scienze psicofarmacologiche si presentarono con un inaspettato quanto congeniale tempismo. Della psicoanalisi vennero mantenuti solo i princìpi funzionali a giustificare la necessità di placare le angosce femminili per permettere il raggiungimento della tranquillità maschile. L’ansia, in quest’ottica, non veniva più interpretata come sintomo di un conflitto interno, parzialmente inconscio e dunque difficilmente trattabile dalla medicina, bensì come una condizione fisica, mediata dal cervello e osservabile tramite elettroencefalogramma. Era opinione comune che l’ansia si manifestasse sotto forma di irrequietezza, palpitazioni, disturbi del sonno e allucinazioni uditive, ma anche vaginismo e dispareunia (dolore per le donne durante i rapporti sessuali); i sintomi riguardavano soprattutto le donne e venivano associati a un’eccessiva produzione di serotonina. La possibilità di sintetizzare pillole in grado di abbassare i livelli di questo neurotrasmettitore venne così dipinta come un evento quasi miracoloso. Citando i Rolling Stones, le benzodiazepine furono ribattezzate le “Piccole aiutanti delle madri” (Mother’s Little Helper), grazie alla loro capacità di favorire la calma e il rilassamento muscolare, migliorare la qualità del sonno e ripristinare l’istinto di cura, la fedeltà e l’accondiscendenza sessuale. In realtà, l’assunzione di farmaci quali Valium (diazepam) o Librium – le “pillole verdi” di Elizabeth Harmon – provocava effetti simili a un hangover, rallentando le funzioni motorie e cognitive e annullando, di conseguenza, anche qualsiasi pensiero e desiderio di ribellione o indipendenza.
Gli psichiatri contribuirono in modo significativo alla medicalizzazione della condizione femminile. Da uno studio canadese del 1976 emerse che le prescrizioni di sostanze psicotrope per le donne erano almeno il doppio di quelle riservate agli uomini, dato confermato anche da una ricerca inglese che, negli stessi anni, evidenziò che l’assunzione di psicofarmaci nei precedenti dodici mesi aveva coinvolto il 21% della popolazione femminile e il 10% di quella maschile. Crebbe anche la preferenza per gli antidepressivi, dal momento che l’abbassamento del tono dell’umore rappresentava un’ulteriore conseguenza della vita casalinga.
Le differenze di genere nella manifestazione di ansia o depressione sono oggi parzialmente spiegate da fattori genetici; è però altrettanto certo il ruolo delle pressioni sociali nel determinare l’improvvisa escalation dei disturbi psichiatrici femminili nei decenni che seguirono il dopoguerra. Betty Friedan, attivista femminista statunitense, nel suo classico del 1963 La mistica della femminilità, affermò che l’idealizzazione della perfetta casalinga, perpetrata dalla stampa periodica femminile in opposizione al crescente desiderio di emancipazione, aveva portato le donne a “rinunciare alla propria identità”, in virtù della necessità di soddisfare le aspettative sociali che le riguardavano. Dall’impossibilità di uniformarsi a tali aspettative derivava un senso di frustrazione che si traduceva nel tanto colpevolizzato disagio psicologico, dal quale originavano conflitti coniugali, disfunzioni sessuali e inquietudine nei mariti. Di qui la necessità mediatica di rivolgersi alle donne per la promozione di sostanze quali Valium, “per l’alleviamento della tensione psichica”, o Mornidina, antidepressivo funzionale a “tornare a preparare la colazione”.
Gli effetti legati all’assunzione sistematica di queste sostanze si manifestarono in modo trasversale. Le benzodiazepine regalarono un inaspettato sollievo non solo alle pazienti rappresentate negli annunci, ma anche e soprattutto ai loro uomini che le avevano invitate a farsi vedere per risolvere i loro problemi. Negli anni Settanta, le prescrizioni ormai fuori controllo di Librium e simili spinsero gli Stati Uniti a regolamentarne la diffusione con norme più severe, anche grazie agli studi che evidenziarono il potenziale di dipendenza e gli effetti collaterali associati al loro abuso. Il provvedimento non stroncò, però, il messaggio promosso dalle campagne pubblicitarie, per cui l’assunzione di antidepressivi a colazione era funzionale a ritrovare la voglia di passare l’aspirapolvere.
Alla fine degli anni Ottanta, le donne di mezza età erano fra le cinque e le dieci volte più raffigurate degli uomini negli annunci americani di antidepressivi e ansiolitici. Tale rappresentazione distorta rinforzava l’implicita associazione fra natura femminile e sfera irrazionale, iniziata quando Ippocrate ipotizzò che la manifestazione di reazioni emotive particolarmente intense avesse origine da disturbi dell’utero (in greco “hystera”). Se la concezione Ottocentesca vi associava ancora sintomi simili a quelli dell’epilessia, ormai è stato definitivamente smentito dalla ricerca stessa il mito dell’isteria, ritenuto già negli anni Sessanta “frutto di ignoranza e fonte di errori clinici”. Ciononostante, l’idea che le fantomatiche crisi isteriche siano connaturate al genere femminile è entrata a far parte della cultura popolare ed è difficile da sradicare, nonostante le evidenze scientifiche. Da sempre insomma le donne subiscono questo pregiudizio e vengono concepite come soggetti psicologicamente vulnerabili. Se da un lato questa credenza dipinge le donne come incapaci di mantenere un discreto equilibrio mentale e quindi poco idonee a ricoprire posizioni di potere, induce anche a sottostimare e stigmatizzare la diffusione dei disturbi psichiatrici fra gli uomini, ostacolandone il riconoscimento. Il retaggio patriarcale si è consolidato oltre che nella medicina nella comunicazione pubblica, continuando a nutrire pregiudizi sociali nocivi sia per chi li detiene sia per chi li assimila.
In un mondo in cui, spesso, siamo troppo distratti per prestare attenzione alle immagini che si accavallano nella nostra mente, questi messaggi hanno il potere di plasmare la nostra visione del mondo, guidando, di conseguenza, le nostre azioni. Dovremmo quindi farci attenzione, perché il primo passo per abbattere queste convinzioni errate è dedicare qualche minuto all’esercizio del nostro senso critico.