Gli psicofarmaci stanno diventando il principale antidoto al capitalismo - THE VISION
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Delaney è una studentessa del college convinta che essere un’universitaria modello, con voti eccellenti e un profilo Instagram impeccabile sia l’unico modo per garantirsi un futuro. Per mantenere la sua media scolastica all’altezza di quella dei compagni, ogni mattina assume l’Adderall. C’è anche Peter, un analista finanziario. La settimana lavorativa di Peter si articola in sette turni da sedici ore durante i quali, nemmeno per un momento, avrà la possibilità di sottrarsi dal confronto con i colleghi. Per non rischiare di apparire meno efficiente di loro – condizione che lo collocherebbe automaticamente fra i “perdenti” del suo settore, oltre a sgretolare la sua autostima – assume l’Adderall. Infine c’è Eben, ex giocatore professionista di football. Per anni ha conosciuto un unico obiettivo: vincere sempre. Nessun infortunio fisico, crollo nervoso o impegno familiare avrebbe rappresentato un valido motivo per saltare un allenamento o perdere una partita. La sua carriera non sarebbe potuta durare così a lungo, senza l’aiuto dell’Adderall.

Delaney, Peter e Eben sono solo alcuni dei protagonisti di Take Your Pills, documentario diretto da Alison Klayman, disponibile su Netflix. I tre condividono la dipendenza da Adderall, la versione farmaceutica della metanfetamina: commercializzato a partire dagli anni Novanta dalla Ciba Pharmaceutical Company (ora Novartis) e appartenente alla classe degli psicostimolanti, oggi l’Adderall è il farmaco più diffuso negli Stati Uniti per il trattamento dell’ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder). Agisce a livello del sistema nervoso centrale, dove facilita il rilascio di serotonina e dopamina, neurotrasmettitori con un ruolo importante in funzioni quali reattività, attenzione e concentrazione. Il numero di statunitensi con una scorta di Adderall nel cassetto, però, è ben superiore a quanti ne avrebbero effettivamente bisogno e la questione non riguarda solo gli stimolanti: l’abuso di psicofarmaci rappresenta, oggi, un’emergenza che la società occidentale non può più fingere di non vedere.

‘Take your Pills’, Netflix, 2021

Fra il 1990 e il 2011, il numero di statunitensi in età scolare con una diagnosi di ADHD passò da 600mila a 3 milioni e mezzo – un aumento vertiginoso in cui il fattore economico giocò un ruolo fondamentale. Gli USA infatti rappresentano, insieme alla Nuova Zelanda, l’unico Paese in cui le case farmaceutiche sono autorizzate a proporre ai consumatori pubblicità diretta di sostanze psicotrope. Nel caso dei farmaci per l’ADHD, però, i “consumatori” in questione non erano i bambini che faticavano a concentrarsi – spesso troppo piccoli per cogliere il senso dei messaggi promozionali e che, comunque, non avrebbero potuto acquistare i farmaci autonomamente –, quanto i loro genitori. “Ogni madre si farebbe sedurre da una campagna pubblicitaria che promette voti più alti con una pillola, con una diagnosi”, afferma Alan Schwarz, giornalista e autore del libro-inchiesta ADHD Nation. Molti medici, dal canto loro, non si tirarono certo indietro quando i loro ambulatori cominciarono a riempirsi di madri alla disperata ricerca di un farmaco che consentisse ai loro figli di eccellere in ogni attività che praticavano. Così, nel 2019, circa il 9% dei minorenni statunitensi possedeva una diagnosi di ADHD e il mercato degli psicostimolanti si aggirava intorno ai tredici miliardi di dollari.

Se è facile intuire le ragioni che spinsero l’industria farmaceutica a promuovere i propri prodotti senza badare ai danni che questi avrebbero potuto provocare – negli anni Duemila erano noti da tempo gli effetti collaterali degli psicostimolanti, soprattutto se assunti senza una reale necessità – è interessante notare la facilità con cui milioni di famiglie scelsero di sottoporre i propri figli ad un trattamento farmacologico, pur di non dover sopportare i loro eventuali insuccessi scolastici, sportivi o relazionali. Si trattò di una vera e propria medicalizzazione della vita quotidiana, in linea con una cultura che, accecata dall’individualismo e dal desiderio di prevaricare sugli altri, vede nel fallimento il peggiore dei destini possibili. 

Secondo la dottoressa Wendy Brown, filosofa e teorica politica presso la UC Berkeley, il fenomeno è interpretabile alla luce di un indottrinamento sociale che ha portato gli individui a concepire l’umanità come il riflesso del modello economico dominante. “Le persone pensano a sé stesse come una piccola parte di capitale umano”, afferma Brown nel documentario di Klayman. “I genitori sono preoccupati, fin da prima che i bambini nascano, da quale sarà il valore del capitale umano dei figli e cercano di aumentarlo in ogni modo. Dall’ascolto di Mozart nel grembo all’accesso a determinate pratiche sportive o programmi scolastici, quest’ansia porta quasi inesorabilmente verso l’Adderall, proposto dai genitori stessi oppure offerto dai compagni del liceo o del college”. Se il valore dell’essere umano dipende esclusivamente dalla qualità delle sue prestazioni, assumere stimolanti è quindi funzionale a garantirsi la vittoria – sia essa una medaglia sportiva o una promozione con il massimo dei voti – e preservare così la propria autostima. L’insuccesso, al contrario, è un’eventualità che nell’universo capitalista trova spazio solo nella vita dei perdenti – e nessuna madre vorrebbe che il proprio figlio appartenesse a questa categoria.

In Europa, questa pressione performativa ha dato vita a uno scenario diverso. Complici la diversa organizzazione del sistema sanitario – il guadagno dei medici, nella sanità pubblica, non dipende dal numero di pazienti che questi riescono a soddisfare –, una regolamentazione dei medicinali più rigida e l’impossibilità di pubblicizzarli in televisione, l’abuso stimolanti non ha raggiunto i livelli statunitensi. Ciò non significa, tuttavia, che la logica del profitto – e, soprattutto, l’ideologia falsamente meritocratica che la accompagna – non abbiano influito sul benessere della popolazione. L’idea che il successo dipenda esclusivamente dalle proprie capacità ha favorito la colpevolizzazione delle persone che, a causa di fattori contestuali indipendenti – il background economico, il luogo di nascita, la sorte – faticano a raggiungere i risultati che i loro compagni, colleghi o familiari sembrano ottenere con facilità. L’ansia da prestazione si è cronicizzata nella nostra quotidianità, alimentando un malessere che negli ultimi anni è diventato sempre più profondo e pervasivo.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, un europeo su quattro soffre di ansia o depressione: non sorprende, quindi, che negli ultimi decenni anche la diffusione dei farmaci dedicati al trattamento di questi disturbi abbia conosciuto una vera e propria esplosione. Stando ai dati raccolti dalla London School of Economics and Political Science, fra il 1980 e il 2009 il numero di consumatori di antidepressivi è aumentato, in media, del 20% annuo. In Italia, dove a soffrire di depressione sono circa 3 milioni di persone, fra il 1995 e il 2009 le vendite di antidepressivi sono più che triplicate. Il nostro Paese si distingue, in particolare, per gli alti tassi di “psychological distress”, una forma di stress psico-fisico caratterizzato da ansia, insonnia, sbalzi d’umore e un costante senso di insoddisfazione.

Nel tentativo di attenuare questo disagio, sempre più persone assumono psicofarmaci anche in assenza di una diagnosi medica. Il primato, in questo caso, spetta ai giovani: secondo l’ultimo rapporto Espad (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), nel 2019 l’assunzione autonoma di tranquillanti o sedativi, rubati dai cassetti dei familiari o spacciati sui gruppi social, ha riguardato il 6,6% degli studenti europei. Il ricorso alle benzodiazepine sembra rappresentare per migliaia di adolescenti l’unico modo per contrastare il proprio senso di impotenza, come se l’incapacità di corrispondere ai modelli proposti dalla società – dalle lauree in tempo record, all’estetica ritoccata delle star di Instagram – fosse sufficiente ad annientare il loro valore di esseri umani. Assumere ansiolitici in modo incontrollato, però, non solo non estingue la sofferenza, ma può essere anche molto pericoloso: oltre a presentare un elevato potenziale di dipendenza, infatti, le benzodiazepine vengono assorbite molto velocemente dal tessuto cerebrale, amplificando così il rischio di incorrere in overdose

Che si tratti di stimolanti per raggiungere il successo o di pillole per alleviare l’ansia di non riuscirci, ricorrere agli psicofarmaci si sta lentamente trasformando in una strategia di sopravvivenza. Condurre un’esistenza volta esclusivamente al soddisfacimento di standard prestazionali irraggiungibili è percepita, nell’opinione comune, come l’unica strada possibile per la felicità, come se perseguire i propri desideri o assecondare le proprie naturali inclinazioni – accettando, di conseguenza, la propria fallibilità – significasse ammettere, prima agli altri e poi a sé stessi, di non essere sufficientemente ambiziosi da meritare un posto in questa società. Al di là dell’evidente falsità di questa convinzione, il problema di questa eterna rincorsa alla performance è che esclude a priori la possibilità di dedicare del tempo ad attività socialmente catalogate come non produttive, come la cura delle proprie relazioni, la condivisione di esperienze e, non ultimo, l’ascolto di sé stessi

È necessario restituire dignità a queste pratiche e decostruire la nostra concezione di fallimento, liberandolo dal senso di colpa che lo accompagna. Solo allora, infatti, sarà possibile concepire la fragilità come parte integrante dell’esperienza individuale e anche la connessione fra gli esseri umani si riapproprierà del suo potenziale rivoluzionario. In alternativa, non ci resta che chiederci quanta della nostra umanità siamo disposti a sacrificare pur di eccellere, da soli, in ogni ambito della nostra vita.

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