Venerdì 23 ottobre centinaia di cittadini napoletani sono scesi in piazza per protestare contro le nuove restrizioni volte a contenere il contagio, in crescita ormai da settimane. Le proteste hanno velocemente assunto un carattere sovversivo: lanci di fumogeni, bottiglie, petardi, cassonetti della spazzatura vandalizzati e disordini di vario genere, espressioni di un malcontento covato per mesi e fatto detonare dalle ultime restrizioni.
Mentre venivano sbandierati nelle piazze di Napoli striscioni contro il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i manifestanti intonavano cori del tipo: “Tu ci chiudi, tu ci paghi”, il dibattito politico era incagliato sull’individuazione dei mandanti. Mentre gli scontri si acuivano e la rabbia si manifestava con forza sempre maggiore, la politica si sarebbe dovuta fare alcune domande fondamentali: qual è il significato profondo di queste proteste? Che cosa ha portato la cittadinanza a esprimere un malcontento di tale portata e con tale forza distruttiva? Perché, a raccogliere lo sdegno e la disperazione di chi non è più nelle condizioni di compiere l’ennesimo “piccolo sacrificio” – come l’ha definito il presidente del Consiglio – non è lo Stato ma le forze extra-parlamentari e criminali che si insinuano nei cortei?
Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, a queste domande avrebbe potuto rispondere raggiungendo il luogo dove il malessere veniva espresso, mostrando, anche simbolicamente, una disposizione all’ascolto dei disagi di una cittadinanza che lui stesso dovrebbe rappresentare. Invece, ha pensato bene di seguire il tragico spettacolo di una Napoli che affonda dagli studi di Rai 3. Sabato 24 ottobre, infatti, Luigi De Magistris si trovava in diretta televisiva a Titolo quinto, dove osservava le scene attraverso il megaschermo della trasmissione. Quando, incalzato dalla giornalista Lucia Annunziata, gli è stato chiesto se non fosse più utile la sua presenza sul posto, ha risposto, in evidente difficoltà: “Non è che posso andare dentro gli scontri in questo momento. In questo momento sono più attento a capire cosa succede”.
La risposta titubante del sindaco ha messo in luce una delle questioni fondamentali dietro al malcontento diffuso, e non solo circoscritto a Napoli, che ha portato agli scontri dei giorni scorsi. Una classe politica distante, più attenta a preservare un proprio ruolo di giudice esterna ed estranea ai fatti, di guida che governa senza mai porsi il problema di dialogare con il governato, è una classe politica che commette un grave errore di valutazione. Considerando il popolo una massa inerme e non il primo e fondamentale interlocutore politico con il quale interfacciarsi, la politica dimentica il proprio ruolo, acuendo l’insoddisfazione che non ha saputo prevedere e prevenire. Se infatti le proteste esprimono in primo luogo un forte disagio causato dall’ormai insostenibile crisi economica generata dal primo lockdown e dalle nuove restrizioni, quello che sembra essere il secondo significato sotteso alla rabbia di Napoli è la frustrante sensazione dei cittadini di non essere in alcun modo presi in considerazione. Nonostante De Magistris avesse annunciato ieri di voler incontrare, insieme a una delegazione di assessori, i commercianti della città intenzionati a esprimere il malcontento in maniera pacifica e democratica, il dietrofront non è tardato ad arrivare. La nota di Palazzo San Giacomo, resa pubblica nel primo pomeriggio del giorno stesso, infatti recitava: “La delegazione di assessori che avrebbe dovuto partecipare alle ore 18 in Piazza Plebiscito alla manifestazione di cittadini con il solo scopo di essere, come sempre ha fatto la nostra amministrazione, tra il popolo per ascoltare, per comprendere, per mediare e per portare anche le nostre proposte, ha ritenuto di non recarsi in piazza per evitare strumentalizzazioni o pretesti anche da parte di eventuali frange, che nulla avrebbero a che vedere con i manifestanti, visto il dibattito che si è immediatamente acceso rispetto alla partecipazione di una rappresentanza dell’amministrazione comunale”.
Ancora una volta è stata espressa “solidarietà e vicinanza”, ma solo figurata. A dialogare con i commercianti in protesta non si presenterà nessuno e i cittadini saranno costretti, ancora una volta, ad ascoltare le parole del proprio rappresentante dagli schermi della televisione o da quello del loro smartphone. Sebbene questa brusca inversione del sindaco sia stata fatta in seguito alle pesanti accuse del Partito democratico alla sua amministrazione, giudicata “sciacalla” e irresponsabile, rimane l’amarezza di un’opportunità mancata. Incontrare i cittadini che esprimono dissenso non è sciacallaggio, ma piuttosto il primo e fondamentale compito dei rappresentanti delle istituzioni. La distanza tra i rappresentanti delle istituzioni e gli elettori sembra essere diventata ormai incolmabile e la scelta comunicativa dei politici appare come un chiaro sintomo di questo divario.
La scelta di De Magistris di mostrarsi tramite il mezzo televisivo quando la sua città avrebbe avuto più bisogno di lui non è una scelta priva di significati e conseguenze. In un articolo apparso sulle pagine di Tempo, nel 1968 Pier Paolo Pasolini avvertiva gli italiani dei rischi politici e sociali dell’uso del mezzo televisivo da parte della classe politica e intellettuale – ovvero da parte di quell’élite a cui la maggior parte della popolazione si sente sempre più contrapposta, quando non totalmente estranea. Secondo Pasolini, la televisione era un mezzo tipicamente autoritario: “Tra video e spettatore non c’è la possibilità di dialogo. Il video è una cattedra, e parlando dal video si parla, necessariamente, ex cathedra. Non c’è niente da fare, il video consacra, dà autorità, ufficialità”.
La tv, scrive Pasolini, è inoltre un medium di massa: una fonte di informazione centralistica e manipolata, che non include quella massa a cui si rivolge ma ne fa il destinatario di un messaggio in partenza espresso dall’alto verso il basso, senza possibilità di replica o dialogo. Oggi, al mezzo televisivo si è aggiunto quello pervasivo e potentissimo rappresentato dai social. Che la politica si esprima molto più spesso a suon di tweet e post su Facebook rispetto a quanto non lo faccia nelle piazze non è un caso. Durante la trasmissione di sabato 24 ottobre, De Magistris è intervenuto – con grande spirito di osservazione – dicendo: “Vedere la violenza, i lacrimogeni, le bombe carta è una sconfitta. Sta montando la tensione sociale”. Ma la tensione sociale non monta solo perché è in corso una crisi sanitaria ed economica. Le proteste sono il risultato di mesi di inefficienza politica e di mancata presenza delle istituzioni dove il disagio è diventato troppo grande per essere ignorato ed essere espresso con pacatezza.
La scena di De Magistris che guarda le proteste di Napoli in diretta è la metafora perfetta della politica italiana, una politica non solo incapace di interpretare i malesseri profondi che permeano la società, ma che si guarda bene dal toccarli con mano. Si tratta di una politica che preferisce guardare e parlare al popolo sempre attraverso un filtro – la tv, i social, i sondaggi – e che non solo non è in grado di comprendere le necessità e i malumori profondi delle persone che governa, ma che sarà sempre condannata a una visione miope e distorta della loro realtà.
Sarebbe necessario, fatte queste premesse, che personaggi come il sindaco Luigi De Magistris, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e il premier Giuseppe Conte, prima di giudicare la forma dell’espressione di un disagio, riconoscessero le proprie mancanze e le proprie responsabilità. Forse dovrebbero sforzarsi di ricordare che, in un ritorno al contrattualismo lockiano, il contratto tra governante e governato implica precisi doveri per entrambe le parti. Quando al cittadino si chiede di cedere il diritto di farsi giustizia da sé, gli si promette e garantisce la giustizia dello Stato. Per lo stesso principio, se al cittadino si chiede di interrompere le attività che gli permettono di mantenersi materialmente in vita, gli si deve garantire una sussistenza. Quando questa promessa viene tradita, quando le clausole del contratto sociale non vengono rispettate da una delle parti, l’altra parte insorge (e la prima, per reazione, reprime).
Ci si chiede chi sarà pronto a cavalcare l’insofferenza di un popolo tradito. La classe politica che oggi ci governa dovrebbe sapere che non può sussistere in democrazia una contrapposizione violenta tra il volere del popolo e quello della classe dirigente. Per comprendere ciò che il popolo chiede è necessario scendere dal piedistallo e abbandonare, una volta tanto, gli schermi luccicanti degli studi televisivi per immergersi nella realtà delle persone che chiedono aiuto.