Nel 1972, Giorgio Gaber cantava “Libertà è partecipazione”. Oggi invece le lotte per la libertà sono sempre più parziali o faziose. Fasce sociali, gruppi, professioni, minoranze, è giusto che ciascuno combatta per le proprie istanze, ed è normale che ciascuno di essi abbia le proprie ragioni. Tutt’ora scendono in piazza in Italia migliaia e migliaia di persone tutto l’anno. Le poche eccezioni che non riguardano interessi di parte e che coinvolgono una fetta più ampia della popolazione sembrano essere quelle a sostegno di alcuni popoli oppressi, come quello palestinese. Qui la partecipazione è quasi trasversale, può scendere in piazza uno studente come un insegnante, un impiegato come un libero professionista, e non ci sono differenze di genere, di orientamento sessuale, di religione. Politiche sì, perché gran parte della destra non sostiene certe battaglie – né quella pro Palestina né quelle per i diritti civili. Spesso ci sono anche contaminazioni, e dunque anche per il 25 aprile, l’1 maggio o il 2 giugno è comune trovare bandiere palestinesi svolazzanti o cortei organizzati per perorare quella causa. Ed è sentitamente commovente questo impeto di solidarietà e sostegno, vien da pensare che ci siano ancora speranze per questo pianeta. Salvo poi accorgersi che sui temi che si affacciano sul futuro la situazione cambia. Secondo un’indagine dell’Unione Europea, circa il 75% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è preoccupato per i cambiamenti climatici. Percentuale che scende al 53% per gli over 25 e che si abbassa progressivamente più si va avanti con l’età. Credo che il motivo sia l’individualismo che prende sempre più piede nella società: a un settantenne interesserà meno rispetto a un ventenne ciò che avverrà nel nostro pianeta nel 2050, anche perché probabilmente lui non ci sarà e la vicenda “non lo riguarda”.
Gli unici che manifestano per i bisogni collettivi e non privati sembrano essere i giovani. Sì, gli stessi che vengono accusati di essere immobili e di non fare abbastanza per cambiare le sorti del pianeta. Enrico Mentana, durante un evento a Cortina, un paio d’anni fa ha dichiarato: “Se i giovani fossero come una volta, sarebbero in piazza a protestare”. Ma in realtà i giovani sono i principali protagonisti delle manifestazioni a favore dell’ambiente, facendo un lavoro di sensibilizzazione che “gli ex giovani”, quelli che hanno vissuto il ’68, fingono di non ascoltare. È vero, in piazza con loro possono esserci anche persone più mature, ma il motore è costituito dalle nuove generazioni. Pensandoci bene l’argomento che dovrebbe riguardare tutti è proprio la salvaguardia del pianeta, ovvero un bene collettivo e non individuale, uno sbocco su un futuro che al momento sembra più che instabile. Eppure, i giovani attivisti per l’ambiente vengono considerati persino da molti politici, soprattutto di destra, degli invasati, dei ciarlatani e sono costretti a subire oltre a tutto il resto anche il negazionismo di chi ha costruito un mondo non a misura dei propri figli. “Figli” che manifestano anche contro il ministro dell’Istruzione, contro le politiche che alimentano la precarietà, contro le multinazionali che inquinano. Poi però prendono manganellate dalla polizia e i rimbrotti del Mentana di turno. Le manifestazioni che invece sono orchestrate esclusivamente dagli adulti riguardano solo il proprio tornaconto. Diverse categorie sono scese in piazza negli ultimi anni per far sentire la propria voce: balneari, tassisti, agricoltori e via dicendo. Tutti con una giustificazione più che valida, ma alle battaglie personali non aggiungono quelle collettive e sembra esserci un disinteresse comune rispetto a una visione strutturata del futuro. Un tassista vuole la sua licenza oggi, così come un balneare la sua concessione. I giovani lottano per il domani e vengono lasciati costantemente da soli.
In Italia più che la partecipazione oggi sembra che il principale – se non unico – collante della popolazione sia il lamento, e non ci sarebbe nulla di male, anche quello può essere un carburante per il cambiamento, il problema è che più che nelle piazze è stato dirottato su altri lidi. Su tutti la rete. Di fronte alla malapolitica, alla crisi economica o alla cementificazione del lato peggiore del capitalismo – sebbene faccia fatica a trovarne uno migliore – sembra che la soluzione ai giorni nostri sia un “armatevi e partite” scritto sul web. I social sono un contenitore di proteste e indignazione, ma poi di fatto resta il compiacimento dopo aver scritto la propria disamina sociale in un post, come se fosse un appagamento e bastasse per sentirsi in pace avendo fatto il proprio dovere di cittadino. Eppure, ciò che nasce su internet spesso muore lì. Un like non è una partecipazione in piazza, uno sfogo su Facebook non è un gesto civico tangibile. Magari ci giustifichiamo dicendo che il sistema stesso su cui si reggono le democrazie occidentali è oggi in declino, ci indigniamo per l’astensionismo senza analizzarne le cause, pensiamo agli scossoni e ai tumulti sociali del passato con ammirazione, ma non sapremmo neanche da che parte cominciare per uguagliarli. Anche perché prendere manganellate non è un’esperienza simpatica e noi trentenni siamo cresciuti con il trauma del G8 di Genova in mente.
Un tempo le persone riuscivano a dar vita a “masse” capaci di amplificare la voce dei singoli in un unico grido. Adesso c’è una maggior frammentazione perché molte categorie si sentono abbandonate da quelli che erano i riferimenti politici e ideologici. Per esempio, uno dei più grandi cambiamenti rispetto al Novecento è la trasformazione del mondo operaio. È vero, anche oggi abbiamo ancora scioperi, manifestazioni davanti ai cancelli delle fabbriche, ma la lotta operaia ha perso i tratti di quella proletaria, i sindacati si sono notevolmente indeboliti – oltre al fatto che in alcuni ambiti praticamente non esistono – e il capitalismo ha anestetizzato qualsiasi parvenza di lotta di classe. È in atto un isolamento. Un tempo, invece, gli operai si univano agli studenti, alle minoranze e agli intellettuali per trasformare una protesta in un movimento, poiché c’erano istanze comuni e una coesione sociale tenuta in piedi soprattutto dalla speranza – o dalla chimera – delle ideologie. Oggi è un tentativo riconducibile al femminismo intersezionale, ma forse come società non siamo ancora pronti per una trasversalità portata avanti da movimenti che le persone temono semplicemente perché non li conoscono a fondo.
A prescindere dalla sua eredità, il ‘68 è stato anche questo: l’unione tra proletariato e piccola borghesia per tentare di ribaltare i poteri dominanti e le ideologie asfissianti all’epoca, soprattutto con il traino dei gruppi giovanili. Da un lato è servito, è stato un momento di unione reale, un fermento anche culturale che ha influenzato il pensiero di massa negli anni successivi. Non ha prodotto però il rovesciamento auspicato, e con gli anni molti dei sessantottini si sono trasformati in ciò che un tempo contestavano. In poche parole: si sono imborghesiti, nonostante la borghesia fosse già all’epoca un motore trainante della protesta, soprattutto nel mondo degli intellettuali. Pasolini fu tra i pochi intellettuali italiani a prevedere questo scenario. Proprio nel ‘68 disse: “Ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti e adesso devo cominciare a odiare anche i loro figli, dato che i loro compagni di vita moltiplicheranno per mille il moralismo dei loro padri”. Gli studenti che nel 1968 erano alle superiori o all’università e che hanno partecipato ai movimenti dell’epoca, oggi hanno circa settant’anni e sono complici di aver tarpato le ali alle generazioni future. Qualcuno si chiedeva con quali soldi si potessero mettere in atto certe politiche. La risposta è semplice: con quelli che adesso sono debiti che gravano sulle generazioni successive. Per ogni baby pensionato e per ogni spesa sconsiderata di quel periodo c’è un’Elsa Fornero che ha dovuto mettere una toppa facendo patire lacrime e sangue a chi è venuto dopo. La conseguenza è che i figli guadagnano meno dei padri, non hanno la loro stabilità professionale ed economica, e per giunta vengono accusati di non ribellarsi abbastanza.
Storicamente, però, sono sempre stati i giovani – o i poveri – a dare vita a proteste e rivoluzioni, tentando di uccidere metaforicamente – e un tempo non solo – i loro “padri”. Se questo oggi sta avvenendo in sordina è anche – ma non solo, altrimenti anche questo mia riflessione appare come un tentativo di assoluzione generazionale – perché i padri non lo permettono, fanno scudo dietro i loro privilegi e non lasciano spazio a chi fisiologicamente dovrebbe prendere il loro posto. Il benzinaio scende in piazza per proteggere la propria categoria, non per garantire un futuro migliore ai suoi figli. E come lui tutti gli altri. Il punto è che le varie categorie guardano il dito e non la luna, la contingenza e non l’orizzonte, anche perché crollando le ideologie sono venuti meno i collanti che tenevano insieme diversi pezzi della società, ormai abbandonati a se stessi. I tassisti scendono in piazza per una licenza senza accorgersi che senza un cambio radicale della politica e della società resterà tutto immutato. Poi, magari, le proteste sortiscono i loro effetti, vengono rinnovati o riformulati i contratti di diverse categorie, si trovano compromessi mettendo qualche pezza temporanea. Avranno un contentino all’interno di un sistema che non teme i tassisti – e anzi come lobby li favorisce – ma lo studente che protesta per l’ambiente o contro una riforma scolastica.
Nel 2024 sembra che le più grandi divergenze siano più che di classe sociale di generazione. Agire per tutti per agire anche per se stessi, invece di arroccarsi nel proprio fortino e scindere la protesta di massa in infinite molecole individuali, significa anche e soprattutto ascoltare le istanze dei più giovani. So che ridurre tutto al discorso del capitalismo può apparire banale, ma di fatto anche ciò di cui stiamo parlando è una sua conseguenza, ovvero la disgregazione della massa in quanto insieme di individui collegati tra loro e la generazione di teste isolate, ecosistemi spesso polarizzati, gruppi che si allontanano invece di convergere. Eppure tutto è collegato: i popoli oppressi, gli stipendi troppo bassi, le differenze salariali, le discriminazioni, la distruzione dell’ambiente, le tasse, il welfare, la parità. Se ognuno protesta per il proprio giardino forse riceverà dopo anni di lamenti un fiore in mezzo a un recinto di fango. Fiore che appassirà, tra giardini separati. Il mezzo di controllo del potere è proprio quello di tenere la massa disunita: divide et impera. E la divisione è prettamente generazionale. Se si spegne sul nascere l’impeto giovanile resiste l’ancien régime, e della partecipazione di gaberiana memoria non resta che l’eco di una canzone destinata a risuonare nei meandri dell’utopia.