È il 27 giugno quando il giovane Nahel Merzouk viene fermato a Nanterre, a nord-ovest di Parigi, da due agenti della polizia. Nahel ha diciassette anni, non ha la patente e non può guidare l’auto su cui è a bordo. Qui entrano in gioco due versioni. Secondo la prima ricostruzione della polizia, Nahel accelera con il suo veicolo verso gli agenti e uno di loro spara per legittima difesa. Siamo però nel 2023, e il video su ciò che realmente è avvenuto diventa virale in rete. Nahel tenta di fuggire in auto, andando però nella direzione opposta rispetto agli agenti. Uno di loro spara ugualmente, uccidendolo. L’agente è in stato di arresto ed è indagato per omicidio colposo, come è giusto che sia per legge. L’uccisione di Nahel fa insorgere le banlieues di tutta la Francia, con scontri e violenze che vanno avanti per giorni. Arresti, roghi, rabbia, Macron in difficoltà, la destra a strumentalizzare l’accaduto e un intero Paese a domandarsi cosa sia andato storto. La risposta in realtà è più semplice di quanto si possa immaginare: il fallimento di una nazione che ha preferito la ghettizzazione all’integrazione.
La destra di tutto il mondo, con la nostra premier in testa, si è compattata tornando a battere sul tema dell’immigrazione, facendo finta di ignorare i contorni della vicenda. Nahel era un cittadino francese figlio di cittadini francesi e la sua origine algerina non ha nulla a che fare con gli sbarchi, ma con la scia del colonialismo che la Francia non è mai riuscita a gestire nel modo adeguato. C’è chi impropriamente ha parlato di fallimento della società multiculturale, quando semmai il problema è il contrario, ovvero la marginalizzazione di quelli che ormai sono i pronipoti di chi è stato colonizzato – in Francia sono già alla quarta generazione. Altri hanno tirato in ballo anche il fattore religioso, con l’Islam come fattore scatenante. Eppure la Germania, che ha più fedeli musulmani della Francia e che contemporaneamente accoglie più migranti, ha saputo creare una convivenza tra autoctoni e persone di luoghi e culture diverse – basti pensare alla massiccia ondata migratoria dalla Turchia – nettamente migliore rispetto a quella francese.
La storia coloniale delle due nazioni è molto diversa e ha inciso anche quello che è il pomo della discordia transalpino: la segregazione nelle periferie. È lo stesso termine a contenere il significato e le sue conseguenze. Ban lieue: luogo bandito. Per comprendere il presente è però necessario far luce sul colonialismo francese e sulle conquiste degli ultimi secoli, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento.
In questo lasso di tempo, circa un centinaio di anni, i principali Stati europei vollero espandersi in Africa per garantirsi il dominio di territori utili per le risorse e la manodopera, quindi accrescendo il proprio potere economico sotto una logica imperialista. Ci provò anche l’Italia, ma in modo tragicomico, soprattutto durante il fascismo, in nazioni come Etiopia ed Eritrea. La Francia, non di certo in modo pacifico, fu lo Stato europeo a conquistare più territori in Africa, con dominazioni che hanno riguardato, tra le altre, nazioni come Algeria, Tunisia, Marocco, Camerun, Congo, Costa D’Avorio, Senegal, Mali e Guinea.
L’impero coloniale francese vide la sua caduta dopo la seconda guerra mondiale, ma il processo di decolonizzazione è stato nella gran parte dei casi traumatico e caratterizzato da guerre interne (come in Algeria, controllata dalla Francia per circa 130 anni), talvolta lasciando comunque una sorta di controllo francese sui territori decolonizzati. Anche a livello culturale, considerando che il francese è tutt’ora la terza lingua più parlata in Africa. Dopo la seconda guerra mondiale, la Francia si ritrovò con una carenza di manodopera per i lavori più umili e decise di risolvere il problema andando a prelevare nuovi lavoratori dai territori dell’ex impero coloniale, dando loro la cittadinanza francese. Questa è una delle principali differenze con i flussi migratori attuali: se oggi gli immigrati arrivano in Europa perché fuggono da una guerra o per cercare maggior fortuna, lo fanno per una loro scelta, seppur drammatica e causata dagli Stati più ricchi dell’Occidente che hanno depredato e deturpato le loro terre. All’epoca, invece, furono i francesi ad “andare a prendersi” gli africani per poter risollevare la propria economia.
Vennero poi inseriti in contesti alienanti, nei sobborghi delle città – le banlieues, appunto. All’inizio luoghi per le classi medio-basse, ma col tempo gli abitanti di origine francese li hanno quasi del tutto abbandonati, mentre per quelli di origine africana l’ascensore sociale era inceppato. E anche oggi è così. Se nasci in una banlieue e hai lontane origini africane, è probabile che tu resti lì per tutta la vita, a meno che tu non sia Kylian Mbappé o qualche altro calciatore di talento, e intorno a te non hai più quelli che erano i quartieri popolari negli anni Cinquanta, ma di fatto una gabbia che amplifica l’eco della ghettizzazione.
Ricordiamolo ancora una volta: stiamo parlando di cittadini francesi con genitori e nonni francesi. Eppure, l’origine dei propri avi dà vita a sentimenti di avversione allo Stato, perché i francesi in passato li hanno sottomessi e sfruttati nei loro Paesi d’origine, e ora in qualche modo stanno facendo lo stesso anche in Francia. C’è un termine dei dialetti maghrebini, hogra, che indica un disprezzo per la sensazione di essere esclusi, oppressi. I ragazzi delle banlieue lo ripetono spesso tra loro. A volte provano a tradurlo in francese, anche se ha sfumature diverse: “la haine”. L’odio, come l’omonimo film di Mathieu Kassovitz del 1995, dove le vicende dei protagonisti di una banlieue ruotano attorno all’omicidio di Abdel, picchiato a morte da un agente.
Oggi Abdel è Nahel, ma è stato anche Adama, morto nel 2016 dopo l’arresto della polizia; Alhoussein, ucciso il mese scorso durante un controllo stradale; Akim, diciassettenne che nel 1979 si rifugiò in un appartamento durante un inseguimento con la polizia e si tagliò le vene dei polsi con i cocci di una bottiglia, dando vita alla prima vera rivolta nelle banlieue, a Vaulx-en-Velin; Zyed e Bouna, diciassette e quindici anni, che per fuggire da un controllo particolarmente violento della polizia si nascosero dentro una cabina elettrica morendo fulminati, facendo scattare la scintilla delle tesissime proteste del 2005 in tutto il Paese.
Allargando il discorso sulla base della gestione dell’ordine pubblico, c’è un’interessante ricerca del sociologo Sebastian Roché che spiega come la polizia francese sia la più violenta d’Europa in due categorie: omicidi per sparatorie e durante le manifestazioni di protesta. Negli ultimi vent’anni, in Francia la polizia e la gendarmeria hanno causato un omicidio durante una sparatoria in più del 50% dei casi della polizia tedesca e addirittura del 377% di quella del Regno Unito. Roché specifica che gran parte di queste sparatorie si verificano contro un veicolo in movimento, come nel caso di Nahel, e che in Germania negli ultimi dieci anni c’è stato solo un omicidio di un soggetto che non si è fermato a un posto di blocco, mentre in Francia ce ne sono stati sedici solo nell’ultimo anno e mezzo, e quasi tutti nelle banlieue o in quartieri periferici a danni di francesi di origine straniera. C’è stato in questi giorni addirittura l’intervento dell’Onu, che ha chiesto espressamente alla Francia di “affrontare i profondi problemi di razzismo tra le forze dell’ordine”.
Quel che però colpisce maggiormente della reazione dei francesi in questi giorni è l’effetto rinculo provocato da Marine Le Pen e dall’estrema destra: il poliziotto che ha ucciso Nahel, ovvero il carnefice, ha avuto più sostegno della vittima. Come risposta a una colletta per sostenere economicamente la famiglia di Nahel, è arrivata la contro-colletta organizzata da Jean Messiha, ex portavoce di Le Pen, a favore della famiglia del poliziotto. Incredibilmente, per quest’ultima è stata raccolta una cifra nettamente superiore a quella per la famiglia di Nahel, e Messiha si è lanciato in dichiarazioni a dir poco abominevoli: “Non obbedire alle forze dell’ordine innesca una serie di eventi che può finire in tragedia. In questo caso, Nahel si è suicidato. Niente di più, niente di meno”.
La destra ha approfittato della tragedia puntando il dito contro la società multietnica e i seguaci dei partiti più estremisti hanno organizzato delle ronde squadriste, una sorta di caccia ai manifestanti di origini straniere. La violenza è così aumentata e il razzismo mascherato da patriottismo della destra francese ha esacerbato gli animi, creando una spaccatura sociale nel Paese. Lo sciacallaggio francese ha incontrato quello italiano attraverso la figura politica più avvezza a questo modus operandi: Matteo Salvini. Il ministro e vicepremier ha infatti tenuto una videoconferenza con Le Pen confermandole la solidità dell’alleanza tra Lega e Rassemblement National anche in vista delle prossime elezioni europee. Non il tempismo perfetto, per usare un eufemismo, soprattutto mentre Meloni e Macron stanno tentando di ricucire il rapporto dopo gli screzi degli ultimi mesi tra Italia e Francia. Dal governo è trapelato malumore per le esternazioni di Salvini, con Antonio Tajani che ha bollato come “impossibile” qualsiasi accordo con Le Pen e Afd.
Ma si sa, il vento delle destre soffia ormai in tutta Europa, e anche l’omicidio di un ragazzo viene sfruttato per alimentare il razzismo, quell’odio che è più strisciante dell’hogra dei maghrebini e che rischia di destabilizzare un intero continente. Se anche la nostra destra vuole seguire la strada dello squadrismo, della discriminazione e della polizia dal colpo di pistola facile, e le avvisaglie ci sono tutte, allora la haine diventerà un sentimento collettivo, il seme del male di questo millennio. E non possiamo permettercelo.