La Colombia, oltre la rappresentazione delle serie e film su Pablo Escobar e i narcotrafficanti e quella che invece offrono i video promozionali in cui viene presentata come un paradiso terrestre da visitare durante le vacanze, si rivela come un Paese tanto complesso quanto poco conosciuto. Entrambi i punti di vista, seppur fuorvianti quando considerati singolarmente, raccontano qualcosa di ciò che la Colombia è stata e continua a essere: una terra bellissima dove la vita sa essere terribile o, in alternativa, una terra terribile dove la vita sa essere bellissima.
Quando mi viene chiesto di raccontare come sia stato vivere per anni in questo Paese, rispondo di immaginare una barca che fa acqua da tutte le parti, ma che rimane comunque a galla per una misteriosa falla nelle leggi della fisica. È finora l’immagine più efficace a cui sono riuscita a giungere. La metafora della barca contiene i fori delle pallottole della sua storia violenta, il mare dei Caraibi che bagna le sue coste, il realismo magico di cui è stata la culla e che ha saputo riscrivere i confini del possibile reimmaginando le regole del quotidiano. In Colombia, quando si iniziano a elencare le ingiustizie e i mali che la colpiscono, si finisce per concludere che si tratta di questioni tanto complesse e radicate nella storia e nel tessuto sociale e politico del Paese da essere sostanzialmente irrisolvibili.
Si percepisce, parlando con persone anche molto diverse per estrazione sociale e provenienza geografica, una sorta di rassegnazione collettiva che convive, contraddittoriamente, con una grandissima tenacia individuale del singolo e della micro-comunità, sempre pronta, nonostante i mali generali, a fare e vedere il bene particolare. La chiamano berraquera, un termine in uso solo in Colombia che descrive bene il carattere dei suoi abitanti: indica un modo di stare al mondo con determinazione e tenacia, una disposizione naturale ad affrontare le difficoltà sempre nuove che la vita pone, senza mai arrendersi, aggrappandosi alla speranza di potercela fare domani, se oggi non è più possibile. Nella borghesia colombiana, in particolare, ho sempre notato una tendenza al sacrificio e all’abnegazione che ricorda i Paesi calvinisti. Dall’abitudine di iniziare la giornata scolastica, universitaria o lavorativa alle sei del mattino, ancora prima dell’alba, a quella di lavorare fino allo sfinimento per poi abbandonarsi, pochi giorni all’anno, a un riposo ozioso e privo di stimoli che è in tutto e per tutto la negazione del lavoro. Dall’idea che tutto ciò che è pena e sacrificio meriti rispetto, e ciò che è godimento debba invece essere sempre misurato con il contagocce. Forse perché l’ozio viene giudicato come una caratteristica intrinseca di chi è povero, e la povertà, di conseguenza, viene spesso raccontata come una colpa del singolo – accusa infondata, se si pensa che gli studi dimostrano che in Colombia occorrono undici generazioni per uscire dalla povertà.
Medellin, la città in cui ho vissuto per cinque anni e che è conosciuta per il suo clima mite fermo a un’eterna primavera, è anche il luogo che per lungo tempo ha registrato uno dei tassi di omicidi più alti al mondo, toccando il picco nel 1991, con 6.810 morti violente l’anno: 18,7 al giorno. È la città di Escobar e anche quella che l’ha ucciso. È quella che tenta faticosamente di disfarsi del suo lascito e al contempo lucra, più o meno suo malgrado, sul turismo che ne cerca le tracce. Migliaia di giovani europei e statunitensi, attratti dalla prospettiva di trovare droga di qualità e prostituzione a basso costo, affollano le vie della vita notturna di Medellin e delle principali città del Paese. I colombiani li chiamano narcoturisti e sanno bene che sono la conseguenza di un’emancipazione ancora mancata dal ricordo ancora ingombrante di Pablo Escobar. In Colombia, il prefisso “narco” può infatti essere anteposto a termini diversissimi senza essere mai usato a sproposito. La narcocultura, per esempio, è l’eredità più grave del signore della droga. Si tratta di una mentalità di stampo mafioso che ha saputo permeare tanto i quartieri più poveri, dove manca anche lo stretto necessario, quanto i quartieri dell’élite economica e politica, dove l’opulenza raggiunge picchi difficilmente immaginabili anche nei Paesi più ricchi del mondo. Combina ambizioni di denaro facile a culto della violenza, oggettificazione della donna a pseudo cattolicesimo ostentato. Non a caso ha molti tratti in comune con la cultura di stampo mafioso italiana, che si serve degli stessi strumenti e persegue gli stessi fini: il controllo economico e sociale di un territorio che si vede costretto a cedere a un potere parastatale più forte di un potere ufficiale spesso assente o troppo debole per opporsi.
Proprio il vuoto che lo Stato lascia diventa terreno fertile per altri poteri: quelli delle decine di gruppi armati che hanno segnato la storia del conflitto armato colombiano, uno dei più longevi della storia. Dai gruppi guerriglieri rivoluzionari di stampo marxista originati negli anni Sessanta dalle cosiddette “autodifese contadine” – braccianti oppressi dal potere illimitato dei latifondisti e proprietari terrieri – ai gruppi paramilitari di estrema destra nati, con la connivenza dello Stato e il finanziamento degli Stati Uniti nel contesto della Guerra fredda, per annientare ogni forma di dissidenza di sinistra. Se le FARC – Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, il maggiore gruppo armato di origine marxista e contadina del Paese – hanno firmato nel 2016 l’accordo di pace con il governo colombiano che è valso il Nobel per la Pace all’ex presidente Juan Manuel Santos e ha dato inizio a un processo di post-conflitto travagliato e controverso che tuttavia fa ben sperare, i paramilitari di estrema destra continuano a essere i principali colpevoli delle morti violente che ancora segnano il Paese: 94.754 omicidi da quando ha avuto inizio il conflitto armato nel 1958, contro i 35.683 attribuiti ai gruppi guerriglieri di sinistra oggi perlopiù smobilitati.
Ad aggravare la situazione contribuisce anche una delle economie con le maggiori disuguaglianze di tutta l’America latina. E a pensarci bene, più che un aggravante, l’enorme divario tanto di capitale quanto numerico tra ricchi e poveri appare più come l’origine di tutti gli altri mali elencati prima. Il 70 % dei nuclei familiari colombiani vive con meno di 500 dollari al mese, mentre il 10% più ricco della popolazione guadagna sessanta volte di più del restante 90%. Del predetto 70%, cinque milioni di famiglie vivono con meno di 237 dollari al mese. Inoltre, l’Associazione nazionale delle istituzioni finanziarie (Anif) stima che durante il 2020 in Colombia la povertà sia aumentata del 42,6% a causa della crisi sociale ed economica dovuta alla pandemia.
Come si vive in un posto del genere? Da una parte o dall’altra della barricata, da una o dall’altra parte del privilegio. Nei quartieri più ricchi, le persone povere sono a servizio. Governanti, autisti, portieri, fattorini, giardinieri, guardie di sicurezza, imbustatori della spesa al supermercato: non c’è una scocciatura quotidiana che non possa essere sottratta a chi ha il denaro per delegarla a chi non ne ha. Nei quartieri poveri, invece, i ricchi generalmente non mettono piede. E dunque esistono due modi molto diversi di vivere in Colombia, e due modi molto diversi di giudicarne la vita stessa.
Se a tutti questi ingredienti, a tutti questi fori nella barca che fa acqua, aggiungiamo un alto grado di corruzione dell’amministrazione pubblica e un anno di chiusure a causa della pandemia che ha bruciato il 6,8% del Pil innalzando disastrosamente i già gravi livelli di disoccupazione – giunta ora al 14,2% secondo i dati resi noti a maggio dal Dane, il dipartimento nazionale di statistica –, possiamo capire la portata e le ragioni delle proteste e delle manifestazioni che hanno riempito le strade delle principali città colombiane nelle prime due settimane di maggio.
Le manifestazioni e gli scioperi che hanno avuto inizio il 28 aprile 2021 sono scaturite in seguito alla proposta, da parte del governo della destra conservatrice di Ivan Duque, di mettere a punto una riforma fiscale che avrebbe aumentato l’Iva e ampliato la base dei contribuenti, creando altre difficoltà alla già esigua e sempre più precaria classe media, alla quale in Colombia si appartiene se si guadagna l’equivalente di 500 euro al mese. Inoltre, la riforma prevedeva che a partire dal 2022, la base contributiva sarebbe stata ulteriormente ampliata e la tassa sarebbe stata estesa anche a chi percepisce un salario superiore a 1,7 milioni di pesos al mese, ovvero 383 euro. La riforma fiscale è stata accolta da un grandissimo malcontento e lavoratori, studenti, gruppi nativi e organizzazioni sociali di vario tipo hanno organizzato uno sciopero nazionale per esprimere la propria opposizione alle politiche di un governo che sembra intenzionato ad alimentare e accrescere disuguaglianze ingiuste e non più sostenibili.
L’indignazione dei manifestanti non si è però esaurita quando, dopo quattro giorni di proteste, il presidente ha annunciato il ritiro della riforma e il ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla ha annunciato le sue dimissioni: una prova del fatto che la riforma fiscale è stata solo che la proverbiale goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai troppo colmo. Ad alimentare le fila dei protestanti, e a ridimensionare la portata della “vittoria”, c’è stata infatti la modalità con cui il governo colombiano ha deciso di affrontare queste settimane critiche. È stato dato ordine di militarizzare le strade e le manifestazioni sono state represse violentemente dalla polizia. Dal primo giorno di proteste, l’ong Temblores ha registrato 47 omicidi, di cui 39 di civili disarmati per mano della polizia colombiana. I desaparecidos si aggirano invece sull’ordine del centinaio ogni giorno. Tra gli abusi della polizia sono state segnalate anche violenze fisiche sessuali, detenzioni arbitrarie e aggressioni non giustificate.
Amnesty International ha dichiarato che la polizia colombiana ha usato armi letali indiscriminatamente: le forze di sicurezza hanno utilizzato fucili d’assalto Galil Tavorn a Cali durante la repressione delle manifestazioni del 30 aprile, mentre il 2 maggio, a Popayán, i poliziotti hanno puntato armi semiautomatiche contro manifestanti disarmati. Il giorno precedente, nella capitale Bogotà, è stata verificata la presenza di un veicolo blindato che sparava sulla folla. Questo tipo di armi è vietato dagli accordi internazionali che prevedono un protocollo ben preciso per la dispersione delle proteste. Anche le Nazioni Unite hanno denunciato le violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito e della polizia colombiana contro i civili, ma ciò non è bastato a impedire che la repressione ordinata dal governo Duque continuasse a mietere vittime.
A preoccupare, oltre alla violenza indiscriminata e ingiustificata della polizia, dovrebbe essere ciò che questa violenza esprime, quando il mandante è un governo che si dice democratico. Perché quello che emerge dai fatti delle ultime settimane è che una società fondata sulla disuguaglianza economica e di potere, dove pochi lucrano sulla disperazione di molti, non può che assistere all’aggravarsi dei conflitti e una continua crescita dell’odio sociale. I manifestanti colombiani richiedono tenacemente l’accesso a una vita dignitosa con servizi di base garantiti, la certezza di non essere uccisi quando manifestano pacificamente il proprio scontento, il diritto di accedere all’istruzione anche quando nascono senza la possibilità di pagare un’università privata, la garanzia di non fare la fame per pagare le tasse quando già guadagnano uno stipendio misero.
E se nei colombiani ho trovato sempre una tenacia – una berraquera – individuale molto più che collettiva, sono stata felice di ricredermi nel vedere finalmente una mobilitazione coesa e forte di parti sociali diverse che si riconoscono in uno stesso desiderio. Quello di mettere fine a una storia di violenza e sfruttamento da parte di una classe politica e di una élite economica a cui per lungo tempo è convenuto reprimere la dissidenza più che ascoltarla. Dalla mia posizione di privilegio, oggi, credo che il mio ruolo, e quello dell’Occidente, sia di stare a sentire chi, dall’altra parte del mondo, chiede disperatamente di essere ascoltato. Perché la Colombia cessi di essere solo plata o plomo, come nella rappresentazione hollywoodiana che tutti conosciamo e che purtroppo spesso coincide con la realtà, mi auguro che anche da noi le ragioni dei manifestanti vengano recepite e diffuse anche dalla stampa italiana ed europea. La difesa dei diritti umani e la lotta per una società più giusta, infatti, passa anche per l’impegno, da parte di chi ne ha i mezzi, di tenere i riflettori accesi sulle ingiustizie e le prevaricazioni che opprimono popoli vicini e lontani da noi. Popoli che passano la vita a rattoppare sempre più faticosamente una barca che fa acqua da tutte le parti e un giorno potrebbe affondare.