In una società in cui fallire è proibito, procrastinare non è un segno di pigrizia ma di ansia - THE VISION

Domani lo faccio. Questa frase è sempre più frequente nelle nostre menti: qualcuno se n’è accorto lavorando da casa durante il lockdown, altri ci convivono da anni. Riguarda i lavoratori, ma anche gli studenti, compresi i casi più estremi di menzogne raccontate a genitori e amici sul proprio percorso universitario, fino a che il castello di carte non si sgretola di fronte alla festa per una laurea che in realtà non si vede ancora all’orizzonte. Si tratta di procrastinazione, quella tendenza a rimandare le cose da fare, fino a che è possibile e anche oltre. Per qualcuno funziona: lavorare sotto la pressione della consegna, di una data di scadenza che si avvicina inesorabile, aiuta a focalizzarsi sull’obiettivo, evitando bozze inutili, correzioni e cancellazioni, per andare dritti al punto spinti da una benefica adrenalina. Il fatto che questa strategia funzioni, comunque, non significa necessariamente che sia salutare: dato che anche in queste persone che convertono l’ansia da deadline in concentrazione e produttività, il risultato sul lungo periodo è una quantità di stress che potrebbe essere un problema per la salute mentale, con ricadute anche su quella fisica. Il problema più grave, però, riguarda gli altri, quelli che nel meccanismo di rinvii, proroghe e dilazioni a oltranza restano impigliati, senza riuscire a uscirne.

Si parla, in questi casi, di procrastinazione patologica, un’abitudine che da fuori può essere vista come una manifestazione di inguaribile pigrizia da risolvere a suon di rimproveri e sarcasmo, ma che in realtà è un sintomo del disturbo d’ansia. La pigrizia, infatti, non c’entra niente. Alcuni studi scientifici ipotizzano che la procrastinazione sia collegata a una cattiva gestione dell’umore: il procrastinatore è tale perché ricerca in distrazioni o in attività più gradite la dopamina che gli serve a stare meglio, a far tacere la preoccupazione o il senso di inferiorità derivanti da un compito che non vuole affrontare, magari perché lo percepisce come troppo impegnativo per le proprie capacità, oppure perché porta con sé emozioni negative. Più si ha una qualche avversione per l’attività da svolgere, infatti, più alta è la probabilità di rimandarne l’inizio o il completamento della stessa. Quando l’abitudine è radicata, e quindi più problematica, sembra addirittura che le regioni del cervello legate al rilevamento delle minacce e alla regolazione delle emozioni siano diverse da quelle in chi non tende spesso a rimandare, come evidenziato in particolare da una ricerca pubblicata nel 2021.

Quando evitiamo un compito spiacevole, quello che stiamo cercando di evitare non è tanto il computo in sé, ma le emozioni negative associate a esso: in sostanza, se il solo pensiero del compito ti rende ansioso o minaccia il tuo senso di autostima, è più probabile che lo rinvii. Rimandare un problema, però, nella gran parte dei casi non risolve nulla e procrastinare finisce per avere conseguenze anche pesanti sulla vita accademica e lavorativa e le loro prospettive, come dimostrato da una ricerca condotta negli Stati Uniti su oltre 22mila lavoratori dipendenti. Coloro che affermavano di procrastinare regolarmente avevano redditi annuali inferiori e minor stabilità lavorativa. Quando la tendenza inizia presto, poi, l’impatto è anche sul rendimento scolastico e universitario. Per esempio, è stato rilevato su un campione di studenti tedeschi, seguiti per sei mesi, che coloro che riferivano di rimandare i doveri scolastici avevano anche maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti scorretti, come commettere plagio nei testi scritti e usare scuse inventate sempre più inverosimili per ottenere proroghe alle scadenze, con conseguenze non solo sulla loro carriera universitaria, ma in generale sui rapporti di fiducia, compresi quelli con docenti e compagni.

Ma la procrastinazione è correlata anche a problemi di salute potenzialmente gravi. Da un lato, infatti, i procrastinatori cronici hanno livelli di stress più elevati, cosa che influisce negativamente anche su diverse patologie, e quindi – per esempio – dormono peggio e meno del necessario e hanno più spesso comportamenti malsani in termini di alimentazione ed esercizio fisico. Da un lato tutto questo si traduce a sua volta in livelli più elevati di depressione e ansia; e dall’altro lato queste persone possono tendere anche a procrastinare le visite mediche e i check-up, proprio perché l’idea di trovare magari qualcosa che non va mette loro ansia. Il risultato è che le persone inclini a rinviare sembrano avere un rischio maggiore di oltre il 60% di soffrire di cattiva salute cardiaca, anche tenendo conto di altri fattori come l’età e la familiarità.

Se la procrastinazione è per certi versi un tentativo di mettere la testa sotto la sabbia, non è però una colpa, nonostante il fatto che chi mette in atto questa strategia tende a percepirla proprio così. Il procrastinatore seriale, infatti, spesso si sente in colpa per tutto ciò che rimanda e finisce per sviluppare una feroce tendenza all’autocritica, che lo fa sentire sempre più insicuro, cosa che a sua volta lo spinge a rimandare, ancora una volta. Non è un caso che le persone con bassa autostima abbiano maggiori probabilità di procrastinare, come quelle più perfezioniste e intransigenti con se stesse, che più temono il duro giudizio degli altri sul proprio lavoro. Rimproverarsi, però, non impedisce di procrastinare di nuovo: anzi, accresce il senso di inadeguatezza che porta a non sentirsi bravi abbastanza per affrontare un compito e la tentazione di rimandarlo ritorna.

Il fenomeno non è affatto nuovo, ma potrebbe essere aggravato dalla quantità di distrazioni digitali da cui siamo circondati anche durante la giornata lavorativa, dalle mail promozionali che promettono saldi su quella marca che ci piace tanto – perché non darci un’occhiata veloce, allora? Solo un minuto, tanto il resto può aspettare –, alle notifiche sullo smartphone, ai social che si scrollano tra un compito e l’altro, anche in questo caso solo per un attimo, che poi si prolunga e si dilata e si moltiplica fino a ingurgitare intere ore. Che si studi o si lavori, le pause sono indispensabili, ma affidarle al cellulare sembra essere il modo più immediato per ottenere una scarica di dopamina a rapido utilizzo, e per questo la tentazione è particolarmente forte.

Ogni piccola gratificazione allontana l’ansia, fosse anche solo per un momento. Il solo liberarsi dall’idea di affrontare un compito fastidioso o preoccupante, almeno fino a domani, dà una piccola gratificazione, sufficiente ad associare un rinforzo positivo alla procrastinazione stessa; rimandare, così, diventa lo strumento che usiamo per risollevarci l’umore. I compiti emotivamente carichi o difficili, infatti, come studiare per un esame importante o prepararsi per parlare in pubblico, sono tra le attività che è più probabile rimandare, perché riguardano il sottoporsi allo sguardo e al giudizio degli altri. Il pensiero inconscio che guida questo slittamento delle preoccupazioni in avanti nel tempo – e che finisce per generare una spirale d’ansia senza fine – è: se non finisci quel lavoro che il tuo professore o il tuo capo giudicheranno con severità, allora il tuo lavoro non può essere valutato con severità. Cioè, non puoi ricevere un giudizio negativo sul tuo lavoro fino a che non lo consegni; non puoi essere deluso dalla tua stessa mancanza di creatività o abilità in quel dato compito, fino a che non lo fai. E in quel momento non importa se prima o poi dovrai farlo, magari perché è obbligatorio o perché da quella consegna dipende una parte del tuo stipendio o della tua carriera universitaria: tanto lo farò domani, intanto datemi un altro po’ di dopamina per consolarmi.

Il fenomeno è per certi versi connesso all’ansia generalizzata che molti giovani sperimentano al pensiero di essere sempre in ritardo sulle tappe – percepite e narrate come imprescindibili – della vita, bombardati dalle esistenze degli altri che su Instagram sembrano sempre piene e soddisfacenti, punteggiate di obiettivi raggiunti e festeggiamenti meritati; dai parenti boomer – e un po’ insensibili – che fanno notare che “Alla tua età io avevo una casa di proprietà e un figlio”, dimenticando quanto la situazione socio-economica oggi sia diversa dagli anni Ottanta-Novanta e ignorando che siano diversi, forse, anche gli obiettivi di vita; dalle cronache dei giornali che non mancano di esaltare questo o quello studente da record che a 25 anni ha diverse lauree con lode, un lavoro ben pagato, amici e viaggi e magari pure una carriera sportiva o musicale ben avviata. La colpa ovviamente non è di questi giovani prodigi, ma di una narrativa diffusa che esalta i record che, unita al contesto sociale e accademico e alle difficoltà oggettive che millennial e gen Z incontrano nell’affermarsi, contribuiscono a creare un profondo senso d’inferiorità e un’enorme paura di fallire, anche se è noto peraltro che spesso la nostra riuscita dipenda dalla base di privilegio da cui partiamo.

Davanti a questo scenario, cercare di evitare il problema alla radice semplicemente rimandando il momento in cui lo compiremo può sembrare una scappatoia, solo che non lo è. Bisogna innanzitutto imparare a gestire le emozioni senza rimandare a domani, alla settimana, al mese o all’anno prossimo le cose che dobbiamo fare. Alcuni compiti non sono esclusivamente minacce e possibilità di fallimento, ma occasioni. Per superare la procrastinazione, possiamo pensare ai motivi per cui un tale compito è importante, mettendolo in prospettiva, senza focalizzarsi sulle emozioni negative che suscita in noi. E poi dobbiamo imparare a perdonare noi stessi, le nostre mancanze, i nostri errori, i nostri eventuali fallimenti e anche la nostra stessa tentazione a rimandare a causa di tutto questo. Non possiamo essere costantemente performanti, anche non esserlo va bene e anche il mondo che ci circonda dovrebbe riconoscerlo, invece di sfruttarci fino all’esaurimento. Ogni tanto dobbiamo sforzarci di ricordarlo, perché siamo immersi in una società che ci spinge alla competitività e che ha la produttività come valore. Più della performance e dello stipendio, dovrebbe contare il benessere mentale: è ora di prendersene cura.  

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