La crisi sanitaria dovuta alla COVID-19 ha influito su tanti aspetti della nostra società, compresa la celebrazione dei processi penali, andando a turbare con norme eccezionali l’equilibrio già precario della giustizia italiana. Un sistema che da decenni richiede riforme strutturali che vengono sempre rimandate in favore di deboli interventi normativi. Ultimi, in ordine cronologico, sono stati quelli a firma del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Negli ultimi due mesi anche l’ambito penale è stato inserito tra le misure d’emergenza del decreto “Cura Italia” del 17 marzo. Pur mossa dalla comprensibile necessità di non paralizzare l’attività processuale nonostante il lockdown, ha in molti casi offerto soluzioni confuse e persino dannose a deficit strutturali che la pandemia si è limitata a rendere evidenti e ad aggravare.
Tra i diversi provvedimenti c’è anche l’introduzione di uno strumento che, tranne rare eccezioni già contemplate in passato, è una novità nel mondo della giustizia penale: la celebrazione del processo da remoto. Una scelta che ha suscitato l’indignazione dell’Avvocatura, – a cominciare dai duri comunicati diffusi dall’Unione Camere penali italiane – dell’Associazione nazionale magistrati e che ha chiamato in causa anche l’Autorità Garante della Privacy. La successiva polemica ha costretto il ministro Bonafede, in sede di conversione del D.L. in legge, a tornare in parte sui suoi passi nelle 24 ore successive alla promulgazione del testo, affidandosi a un ulteriore decreto legge per emendare i punti controversi.
A partire dal “Cura Italia”, il Governo ha previsto prima la sospensione di tutte le attività giudiziarie nel settore penale fino al 15 aprile, termine poi prorogato all’11 maggio, con eccezione delle attività non rinviabili. Per queste sono state previste una serie di disposizioni per limitare assembramenti nella aule e nei palazzi di giustizia, tra cui il ricorso all’attività giudiziale in modalità telematica, anche in fasi cruciali del processo. Previsioni poi estese per le udienze da celebrarsi nel periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno, quindi esteso al 31 luglio, per buona parte delle attività processuali. L’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane, ha diffuso una lettera indirizzata al ministro Bonafede in cui esprime le sue perplessità sulle procedure adottate e la scarsa determinazione del suo dicastero nel realizzarle in maniera efficace: “Si tratta di misure destinate a stravolgere il processo e a violarne le regole basilari più sacre e secolari, cioè quelle della materiale presenza in aula dei giudici, dei pubblici ministeri e degli avvocati, della garanzia di segretezza delle camere di consiglio, della inviolabilità dei colloqui tra l’avvocato ed il proprio assistito”.
L’Associazione nazionale magistrati ha usato toni più blandi, ma ha comunque chiesto specifiche modifiche alle norme previste dal D.L. “Cura Italia”, come non affidare alla sola decisione delle parti la scelta di adottare la modalità da remoto, perché non solo non rispetta i principi e le garanzie costituzionali, ma impedisce “ogni razionale programmazione di tali attività […] con conseguente frustrazione non solo dell’efficienza dell’attività giudiziaria ma anche della tutela dei diritti dei cittadini”. Inoltre, come sottolineato da Giuliano Caputo, segretario nazionale dell’Anm, i magistrati sono anche costretti a garantire la gestione del collegamento. Tra le norme, vi è per esempio il divieto di registrare l’udienza, ma su internet circolano già video che sembrano dimostrare la violazione di questa disposizione. A questo si aggiunge la difficoltà di verificare che né i difensori né i loro assistiti abbiano condiviso il collegamento con persone non autorizzate ad assistere al processo.
Anche il Garante della Privacy è stato chiamato in causa per avere rassicurazioni sulla sicurezza delle piattaforme commerciali, gestite dal ministero, con cui vengono svolti i collegamenti. “La nota in questione [dell’Unione Camere penali italiane] si interroga sulle caratteristiche delle piattaforme indicate dalla DGSIA [Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati] ai predetti fini, nonché sull’opportunità della scelta di un fornitore del servizio in questione stabilito negli Stati Uniti e, come tale, soggetto tra l’altro all’applicazione delle norme del Cloud Act (che come noto attribuisce alle autorità statunitensi di contrasto un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni)”, ha scritto il Presidente dell’Autorità Garante della privacy Antonello Soro in una nota rivolta a Bonafede, la cui risposta non è stata resa pubblica.
Le perplessità di avvocati, magistrati e Autorità garante della privacy hanno portato il D.L. “Cura Italia”, convertito in legge il 30 aprile scorso, a essere di nuovo modificato meno di 24 ore dopo con un altro D.L. che ha solo variato in parte le disposizioni in tema di giustizia. Questi rattoppi non hanno però eliminato l’ampio potere discrezionale affidato ai capi degli uffici giudiziari, senza trovare una soluzione al caos dovuto all’assenza di un regolamento comune a livello nazionale. “Nella storia della Repubblica non è mai accaduto che una norma processuale introdotta con Legge di conversione contenente modifiche ad un precedente Decreto Legge sia stata a sua volta emendata, il giorno stesso della sua entrata in vigore, da un ulteriore Decreto Legge contenente modifiche delle modifiche”, ha denunciato l’Associazione nazionale magistrati (Anm). I giudici si sono detti “sconcertati” e hanno aggiunto che “Si tratta di un intervento incomprensibile nel suo impianto e nei suoi presupposti”.
L’opinione manifestata sia dall’Anm sia dall’avvocatura è che il processo penale telematico possa finire col diventare la norma anche quando sarà terminata la crisi sanitaria. Non è un’idea infondata: in Italia, in particolar modo il settore della giustizia, non è nuovo all’introduzione di disposizioni etichettate come emergenziali e poi diventate di sistema, a cominciare dalla Legge Reale del 1975, fino ad arrivare ai decreti sicurezza emanati negli ultimi anni. La preoccupazione su un ritorno alle normali attività processuali è anche dovuta alla cronica carenza di organico denunciata dalla magistratura e alle condizioni pessime in cui si trovano i palazzi di giustizia italiani. Come evidenziato dalla relazione del 2019 sull’amministrazione della giustizia presentata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, negli uffici vi è una carenza di personale pari al 22,82%: mancano 9.881 addetti per poter almeno garantire un corretto funzionamento del sistema. Nel 2018 l’Anm parlava “di strutture inadeguate, di uffici inospitali e insalubri, di luoghi di lavoro non rispondenti alla dignità di quanti vi operano o li frequentano come utenti”. Contribuisce anche il sovraffollamento dei tribunali a far guardare con timore alla prospettiva di tornare in aula, causato dal numero esorbitante di processi da celebrare, dovuto a sua volta al numero di ipotesi di reato, da più parti riconosciuto come la causa principale dell’ingolfamento dell’intero sistema giudiziario. Basta quindi un breve excursus tra le questioni più spinose già affrontate prima dell’avvento del Coronavirus per capire che oggi la macchina della giustizia non sta affrontando problemi nuovi, ma solo pagando il conto di quelli che la politica non ha risolto nel recente passato.
Se da un lato, la dematerializzazione degli atti del processo penale corrisponde sicuramente a un ammodernamento della macchina della giustizia, dall’altro la celebrazione del processo penale da remoto mina il dispositivo degli articoli 2, 3, 24 e 111 della Costituzione, – che garantisce “il giusto processo” e il rispetto del contraddittorio – nonché l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulle regole “dell’equo processo”. Il diritto penale, sostanziale e processuale, non è una materia che può essere ritoccata con piccoli interventi normativi che ignorano tanto la complessità del sistema quanto la gerarchia delle fonti. Ammodernamento non significa infatti sovvertimento delle regole fondamentali. La crisi che ha investito il nostro Paese non è di sicuro facile da gestire, ma questa non è una giustificazione per dimenticare i principi fondamentali su cui si basa la sua identità.