Mentre la guerra in Ucraina raggiunge il centesimo giorno di scontri e dai nostri feed di Instagram scompare qualunque accenno alla recente sparatoria nella scuola elementare Robb di Uvalde in Texas, o alle sempre più restrittive leggi sull’aborto adottate negli Stati Uniti, c’è un argomento che nelle ultime settimane continua a dominare il dibattito pubblico, coinvolgendo milioni di persone: il processo tra Jhonny Depp e Amber Heard, iniziato lo scorso 12 aprile nel tribunale di Fairfax, in Virginia, e trasmesso per intero su alcuni canali YouTube ed emittenti americane.
Il confronto legale tra i due attori è cominciato per le accuse di diffamazione rivolte da Depp all’ex moglie, che nel 2018 aveva scritto sul Washington Post un articolo in cui si definiva “un personaggio pubblico simbolo di violenza domestica” e spiegava che la sua richiesta di una maggiore protezione per le donne vittime di violenza di genere si basava su una propria esperienza personale e sull’impatto che questa aveva avuto su di lei a livello psicologico e lavorativo. Nonostante non venga mai citato nel testo, Depp sostiene che la pubblicazione abbia rovinato la sua reputazione e la sua carriera e che, tra le due parti, fosse lui ad aver subito abusi.
Le vicende giudiziarie della coppia erano iniziate già nel 2016, quando Heard aveva chiesto il divorzio e un ordine restrittivo – poi annullato – nei confronti dell’ex marito. Da allora, sono state molte le vicende private emerse sui giornali e sui siti di gossip. Alcune sostenevano la tesi di Heard, secondo la quale Depp aveva una dipendenza da alcol e da stupefacenti che lo rendeva spesso violento; altre invece rimarcavano i comportamenti violenti di lei, le sue contraddizioni e la registrazione in cui gridava a Depp che in quanto uomo nessuno gli avrebbe creduto se avesse denunciato di essere vittima di abusi.
Molte delle prove portate in tribunale erano già state oggetto di un processo risalente al 2018, in cui Depp aveva denunciato per diffamazione l’azienda proprietaria del quotidiano The Sun per averlo definito “uno che picchia la moglie”, in cui erano emersi nuovi episodi di violenza e i messaggi violenti e deliranti di lui scritti agli amici – “affoghiamola prima di bruciarla!!! Dopo mi scoperò il suo cadavere bruciato per assicurarmi che sia morta”, poi ritrattato affermando si trattasse di una battuta dei Monty Python. Il caso si concluse nel 2020 con la vittoria del giornale, perché il giudice disse che più volte l’attore aveva messo Heard nelle condizioni di temere per la propria vita.
Nonostante il verdetto della giuria in Virginia sia arrivato solo mercoledì, ordinando a Heard di pagare 15 milioni di dollari di risarcimento a Depp, e a quest’ultimo di pagarne 2 all’ex-moglie per alcune dichiarazioni del suo avvocato che ne minimizzavano le denunce, per gli utenti dei social media era chiaro già da tempo da che parte stesse la colpa. Per mesi, infatti, si sono susseguiti meme, video e altri contenuti che ridicolizzavano la testimonianza di Heard, insultata con epiteti misogini e definita come “una bugiarda”, la cui voce è stata per esempio utilizzata da content creator per mettere in scena teatrini grotteschi finalizzati a deriderne le violenze subite, arrivando anche a ricavarne migliaia di dollari.
La sua colpa è stata quella di essere una vittima “imperfetta”. Il dolore vende, si sa, e in questi tempi diventa uno strumento come un altro per attirare l’attenzione, ricevere like, follower e click per aumentare il proprio successo. Ormai assuefatti al nostro ruolo di voyeur social, abbiamo trasformato il processo in una soap opera a puntate e non stupisce il numero di teorie del complotto alimentate su Heard – d’altronde ogni buona trama necessita di un antagonista. Così, se su TikTok l’hashtag #JusticeforJohnnyDepp conta quasi 20 miliardi di visualizzazioni, quello #JusticeforAmberHeard arriva ad “appena” 78 milioni.
Come ricostruisce l’Atlantic, ad attaccare Heard non sono stati solo coloro che hanno preso le parti di Depp, sicuramente più conosciuto e legato all’immaginario narrativo di molti, ma anche le persone che dicono di comportarsi così perché vedono nelle testimonianze di Heard delle menzogne che minano il #MeToo e tutto ciò che finora hanno costruito le “vere vittime di violenza”. A loro si aggiungono poi gruppi di anti-fans, che si costituiscono a partire dall’odio comune verso un determinato personaggio famoso e che vedono nella misoginia una componente per rafforzare la propria identità e il senso di appartenenza a un gruppo.
Ciò che a livello collettivo resta del processo legale è infatti la sua capacità di aver evidenziato e raccolto tutto ciò che di dannoso c’è nel nostro rapporto con i social e con l’informazione. Certo, l’influenza dei media sui casi legali non è una novità, ma come avvenuto per la guerra in Ucraina a fare la differenza nella copertura del processo tra Amber Heard e Johnny Depp sono state le nuove piattaforme digitali. Anche se non ce ne fregava niente ed eravamo impegnati a finire l’ultima stagione di Stranger Things, immancabilmente, il nostro spazio digitale veniva invaso da un contenuto che ci riportava al processo, spettacolarizzato il più possibile. L’amplificazione dovuta alle modalità con cui l’algoritmo delle piattaforme ci propone contenuti sempre più simili fra loro e affini a quelli che deduce essere i nostri interessi rischia di trascinarci poi in un vortice che modifica radicalmente la nostra percezione della realtà. Inoltre, come già molti sociologi avevano analizzato, molti post sono caratterizzati dal totale collasso del contesto: video e informazioni vengono condivisi negli spazi digitali in maniera frammentata e sempre più slegata dalla visione d’insieme o dall’elemento originario, scegliendo solo quelli che ci interessano e che confermano la nostra visione del mondo e i nostri pregiudizi.
Lo dimostra, per esempio, il fatto che nonostante il processo si basasse su una denuncia di diffamazioni, per molti e molte si è tramutato nella conferma di chi tra i due avesse subito abusi, come se non potessero essere entrambi, al contempo, sia vittime che autori, in modi diversi, di violenze fisiche e psicologiche. In questo senso, il processo ha assunto le dimensioni di una campagna politica: propaganda, monitoraggio delle immagini condivise, prove che acquisiscono valore solo sulla base della propria tifoseria. Un’occasione anche per screditare l’agenda democratica, come sostiene un’inchiesta che stima tra i 35mila e i 47mila dollari la cifra spesa dal giornale conservatore The Daily Wire per promuovere articoli – la maggior parte contro Amber Heard – su Facebook, per un totale di circa quattro milioni di impression.
Il rischio, come sottolineano diversi editoriali americani, è che l’esito del processo possa disincentivare le donne vittime di violenza a parlare, soprattutto in un contesto in cui la denuncia per diffamazione è diventata il principale strumento per dirimere casi per cui non sono presenti prove sufficienti. Molti stanno poi cercando di utilizzare la vittoria di Depp come un passo avanti nella battaglia per gli uomini vittime di abuso, che dovrebbero davvero iniziare a essere rappresentati degnamente, ma ciò che emerge in questa piatta visione della realtà è il nostro assurgere a decisori di quale violenza sia inaccettabile e quale giustificabile. Un tentativo di ribaltare la dicotomia maschio-carnefice vs donna-vittima che però non concede lo spazio necessario per capire a cosa siano dovuti questi ruoli. Siccome non si tratta di una gara a chi ha subito più abusi, né di puntare il dito – come avviene da parte dei Men’s Rights Activists – contro una presunta cattiveria femminile, ma di un problema reale, alla fine più che un passo avanti verso il riconoscimento delle dinamiche di potere insite nella violenza, se ne fanno due indietro.
Il processo Depp-Heard ci offre così uno sguardo potenziale sul futuro dell’ecosistema dei media, in cui i creatori di contenuti definiscono sempre più la narrazione non solo intorno al proprio campo d’azione, ma a qualunque grande notizia di cronaca o caso giudiziario, che in questo nuovo paradigma diventano un’opportunità per accumulare follower, denaro e successo, finendo per influenzare l’opinione pubblica, non sempre in maniera oculata. A uscirne davvero vincitori sono così le sole piattaforme social, mentre a noi non resta altro che sperare che tra una coreografia e una ricetta vegana troveremo finalmente anche un tutorial per tornare a essere consapevoli che tra credere a qualcosa e sapere qualcosa c’è molta differenza.