Come ogni giugno, anche quest’anno, accanto ai classici inviti di chi invoca “Pride sobri”, dobbiamo sorbirci la cantilena di chi vuole organizzare “Pride etero”. Sebbene non mi sia chiarissimo quale rivendicazione di orgoglio possa animare uomini bianchi che indossano scarpe da ginnastica, portano cappellini MAGA e hanno un personaggio degli anime come immagine profilo su Facebook, quest’anno un tenace gruppo di “attivisti” dell’eterosessualità, Super Happy Fun America, è riuscito nell’intento di organizzare la sua parata a Boston (città storica dell’attivismo LGBTQ+) e il leader dell’alt-right Milo Yiannopoulos, seppur apertamente gay, è stato nominato cerimoniere del Pride etero.
Se quella di Super Happy Fun America è chiaramente un’operazione di trolling ben riuscita (basta guardare il sito web), lo stesso non si può dire di tutte quelle persone che faticano a comprendere che cosa sia il “Pride”, ne ignorano la genesi o lo vivono come un affronto al proprio “stile di vita”. “Perché non esistono Pride etero?” è una domanda che nasce da un enorme malinteso: pensare che quell’orgoglio rivendicato dalla comunità LGBTQ+ corrisponda all’orgoglio come viene inteso nell’accezione comune. Perché io, da etero, non posso essere fiero di quello che sono?
Per la Treccani, l’orgoglio è una “stima eccessiva di sé; [un] esagerato sentimento della propria dignità, dei proprî meriti, della propria posizione o condizione sociale, per cui ci si considera superiori agli altri”. Secondo chi critica i Pride, le persone queer si sentono speciali in quanto tali e hanno bisogno di una “carnevalata” come quella che si svolge a giugno in molte città del mondo per gridarlo ai quattro venti. Molte persone etero si sentono escluse o addirittura discriminate: dov’è la mia fetta di torta? Dove sono i miei carri e le mie bandiere? La risposta è molto semplice: sono lì 365 giorni all’anno. Come ripetono i membri della comunità LGBTQ+, la “Straight Parade” è tutti i giorni.
Il 27 giugno 1970, il Gay Liberation Front organizzò una marcia nota come Christopher Street Liberation Day per commemorare il primo anniversario dei moti di Stonewall. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1969, infatti, la polizia aveva fatto irruzione nel locale gay Stonewall Inn, nel Greenwich Village di New York. Lì, alcune drag queen e donne trans risposero al raid lanciando oggetti alla polizia (il dibattito su chi abbia lanciato, per prima, che cosa è molto affascinante, anche se i meme sul leggendario mattone scagliato da Marsha P. Johnson si sprecano), dando vita al movimento di liberazione omosessuale. Il Christopher Street Liberation Day fu una delle prima occasioni di ritrovo della comunità LGBTQ+ alla luce del sole: come raccontato dal pioniere della lotta omosessuale Mark Segal al New York Times, “Prima di Stonewall, c’erano organizzazioni che permettevano l’ingresso solo alle persone bianche ben vestite per ‘rappresentare’ la comunità”. I moti di New York rappresentarono una cesura, la possibilità di uscire dal “closet”.
Il Christopher Street Liberation Day fu organizzato nel novembre del 1969 dalla Eastern Regional Conference of Homophile Organizations (Echo), un’organizzazione omosessuale nata nel 1963 per facilitare la mediazione tra i gruppi di attivisti e le istituzioni. La Echo organizzava già un meeting annuale, ma dopo i fatti dello Stonewall Inn decise di fare le cose in grande. “Proponiamo che si tenga una manifestazione annuale nell’ultimo sabato di giugno a New York per commemorare le dimostrazioni spontanee del 1969 a Christopher Street […]” si legge nel comunicato. “Non andrà posto alcun limite di età o di vestiario. Proponiamo inoltre di contattare altre organizzazioni omofile nel Paese per suggerire loro di tenere altre dimostrazioni nello stesso giorno. Abbiamo intenzione di fare una dimostrazione di supporto a livello nazionale”. La manifestazione del 18 marzo 1970, finanziata con le vendite della prima libreria gay Oscar Wilde Bookshop, partì dallo Stonewall Inn e arrivò fino a Central Park. Dagli anni Ottanta in poi, con la progressiva decriminalizzazione dell’omosessualità, dalla “Liberation” si passò al “Pride”.
Nonostante spesso si dimentichi questo dettaglio, i moti di Stonewall sono stati iniziati dalle persone che non solo erano discriminate in quanto gay dal resto della società, ma anche all’interno della comunità queer stessa, in quanto trans, drag queen e cross-dresser. Furono loro – che vivevano ai margini della società, nascosti, dimenticati, con il loro aspetto anomalo e appariscente – a scagliare il primo mitico mattone affermando così il diritto alla loro esistenza. E i primi Pride, da quello di Cristopher Street a quelli di Chicago, Los Angeles e San Francisco nel 1970, nacquero proprio per celebrare quel momento in cui per la prima volta nella storia recente la comunità LGBTQ+, anche nelle sue espressioni più “devianti” dalla norma e più scioccanti, sancì il suo diritto a vivere nella legalità e senza persecuzioni.
È la storia dei Pride che ci insegna che le parate non hanno un valore di egoistica affermazione di sé (anche se spesso, complice una bella dose di rainbow washing, c’è il rischio che assumano questo volto), ma sono una manifestazione dell’orgoglio della comunità LGBTQ+ nel suo insieme. Per lo stesso motivo è anche necessaria la “carnevalata” ed è impossibile pensare a un Pride sobrio, che negherebbe l’essenza stessa dell’evento e della sua storia. Con il Pride si ricorda il diritto delle persone queer a rappresentare un Altro possibile, un’alternativa alla norma, e il diritto a non essere perseguitati, incarcerati o puniti per questa devianza che in fondo non fa del male a nessuno. L’orgoglio del Pride non riguarda se stessi, non è quell’”esagerato sentimento della propria dignità e dei proprî meriti” che cita la Treccani, ma è la fierezza di appartenere a una comunità un tempo derelitta che si è tenacemente fatta strada nella società conquistando quel diritto all’esistenza che non è una carità concessa dall’alto, ma una lotta partita dal basso.
Se le persone etero non hanno bisogno di un Pride è perché non hanno mai dovuto affrontare ciò che ha passato la comunità gay e trans. La visibilità delle persone etero e cisgender è data per scontata tutti i giorni dell’anno, e nessuna persona etero e cisgender è discriminata dalla legge in quanto tale o attaccata perché è mano nella mano con il proprio partner, mentre gli attacchi omotransfobici sono all’ordine del giorno. La comunità LGBTQ+ non vieta alle persone etero di essere fiere o contente della propria sessualità, che possono vivere apertamente e con l’appoggio di tutta la cultura occidentale da 2000 anni a questa parte, mentre in molte parti del mondo accade il contrario: 70 Stati membri delle Nazioni Unite ancora oggi criminalizzano le relazioni tra persone dello stesso sesso, in 26 di essi le pene superano i 10 anni di carcere e in 6 è prevista la pena di morte. Così, un giorno all’anno nel mese di giugno, le persone queer marciano per le strade per affermare un diritto all’esistenza che anche nei Paesi “civilizzati” non è affatto garantito come dimostrano stragi omofobe come quella di Orlando. A quanto mi risulta, nessun crimine d’odio è mai stato commesso in nessun luogo del mondo sulla base dell’orientamento eterosessuale.
Ognuno può sentirsi orgoglioso della sua soggettività, ma il Pride non ha questo scopo e non è un momento di autocompiacimento. Per questo sbaglia chi chiede un Pride etero perché vuole gridare al mondo di essere fiero di esserlo (o, come fa ironicamente notare il Guardian, del suo fare le code in fila davanti all’Apple Store). Senza contare, poi, che non vi sarebbe alcuna storia da celebrare, nessun diritto negato da rivendicare, nessun diritto conquistato da proteggere. Per secoli, le persone gay, lesbiche, bisessuali, trans hanno dovuto negare o reprimere il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, sentendo su di sé il peso della vergogna. Per un giorno all’anno sono liberi di festeggiare, commemorare e vivere se stessi e la propria comunità. E accanto a loro possiamo partecipare anche noi, persone etero, come alleati.
Non abbiamo bisogno di un Pride etero. C’è già il Pride.