Quando si parla di pedofilia all’interno della Chiesa solitamente ci si indigna per i grandi scandali di copertura da parte della Santa Sede, ma raramente si pone l’attenzione su quello che fa – o meglio, non fa – lo Stato italiano nei confronti di chi perpetra tali crimini. Secondo i dati raccolti da Rete L’Abuso, l’Associazione sopravvissuti agli abusi sessuali del clero e osservatorio permanente, dagli anni Novanta a oggi sono 150 i preti processati per reati sessuali a danno di minori, con una durata media della condanna di circa 4 anni. Le stime dalla Chiesa sulla percentuale di pedofili vanno invece dal 2% del totale del clero, dichiarato da Bergoglio a Repubblica – in un’intervista ora cancellata dal sito – al 4-6% secondo il membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori, Hans Zollner. Contando che i sacerdoti nel nostro Paese sono 32.036, si tratterebbe di almeno 640 persone. Anche rifacendosi alla stima “ottimistica” del papa, come fanno notare gli autori del libro Giustizia divina Emanuela Provera e Federico Tulli, si tratta di una percentuale altissima rispetto al tasso di condannati per abusi sessuali nei confronti di minori tra i laici, 0,0025%. I due giornalisti hanno anche provato a verificare quanti dei preti condannati siano effettivamente in carcere: su 125 penitenziari che hanno risposto (sui 191 presenti sul territorio italiano nel 2017) sono solo 5 i sacerdoti detenuti per reati connessi alla pedofilia.
C’è quindi una situazione di grave omertà nella Chiesa, che preferisce gestire internamente i casi anziché consegnare anche coloro che ritiene colpevoli all’autorità giudiziaria. Non è raro infatti che gli abusi, che si consumano quasi sempre ai danni di famiglie molto legate alla realtà parrocchiale, non vengano denunciati alla polizia, ma soltanto al vescovo o ad altre autorità ecclesiastiche. Nella maggior parte dei casi infatti un genitore che sospetta delle violenze sui propri figli preferisce confidarsi con altri fedeli o altri sacerdoti prima di sporgere denuncia. Questo fa sì che molto spesso l’unico processo che si svolge sia quello canonico.
Per il diritto canonico, un sacerdote che commette violenza contro un minore viola il canone 277 sul celibato ecclesiastico e perciò, secondo il canone 1395, viene “punito con la sospensione, alla quale si possono aggiungere gradualmente altre pene, se persista il delitto dopo l’ammonizione, fino alla dimissione dallo stato clericale” e se il delitto avviene con un minore di 16 anni viene “punito con giuste pene”. La violenza sessuale è considerata un peccato e non un reato: ciò significa che il sacerdote deve rispondere a Dio e non alla giustizia terrena. Il procedimento canonico viene avviato dalla Curia qualora vi siano “seri indizi” di “colpe gravi” e, se queste vengono accertate, la Congregazione per la dottrina della fede dà decreto di rimozione della persona accusata, oppure la invita a rinunciare all’incarico entro 15 giorni. Come spiegano Provera e Tulli, il procedimento canonico ha una serie di problemi che lo rendono un sistema vòlto a tutelare più la Chiesa che le vittime. Ad esempio, al procedimento non sono ammessi avvocati o testimoni ed è la vittima a dover dimostrare il delitto subìto. In più gli atti sono coperti da segreto pontificio, per cui è raro che le autorità ecclesiastiche collaborino con la giustizia italiana, anche dopo un’eventuale condanna.
Il problema è proprio la natura della condanna inflitta dalla Congregazione per la dottrina della fede, che spesso fa sì che il prete condannato riesca a sfuggire alla magistratura anche dopo una denuncia all’autorità giudiziaria italiana. Il sacerdote viene infatti rimosso dal suo incarico e, in base alla gravità dei fatti commessi o ad altri precedenti, viene semplicemente riassegnato a un’altra diocesi oppure informalmente indirizzato verso una comunità di “assistenza per ecclesiastici in difficoltà”, come l’Oasi di Elim a Roma o il progetto dei “Ministri della misericordia”, centri che danno sostegno per diversi problemi, dalle dipendenze alle crisi vocazionali. Sono moltissimi i casi di sacerdoti – ma anche di suore – di cui si sono perse le tracce dopo sentenze di condanna da parte del tribunale ecclesiastico. Non è nemmeno raro che dopo tutti i vari trasferimenti, spesso fatti nel modo più discreto possibile, i reati contestati cadano in prescrizione per l’ordinamento italiano. Come racconta Giustizia divina, succede spesso che le vittime decidano di denunciare gli abusi anche alle autorità italiane a distanza di anni proprio nel momento in cui si accorgono che i propri abusatori continuano a fare i preti altrove, ma i termini per la denuncia sono ormai trascorsi. Senza contare poi che i trasferimenti continui non risolvono il problema, ma anzi possono favorire la reiterazione del reato, mettendo il sacerdote a contatto con altri minori.
Ma perché la Chiesa non collabora con la giustizia? La Cei ha disposto che i vescovi, poiché non sono pubblici ufficiali, non abbiano il dovere di denunciare i casi di cui vengono a conoscenza. Questa idea era stata ribadita nel 2014 dall’allora presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco, che aveva giustificato l’idea che non vi fosse obbligo di denuncia per non “mancare gravemente di rispetto alla privacy, alla discrezione alla riservatezza e anche ai drammi di vittime che non vogliano essere messe in piazza”. Nel 2019 sono state approvate le nuove “Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili”, che comportano l’obbligo di segnalazione alle autorità ecclesiastiche, ma non a quelle civili, verso le quali le segnalazioni sono soltanto “incoraggiate”.
Nonostante la buona volontà e la politica di “tolleranza zero” invocata da Bergoglio, tra la Chiesa – attenta a difendere la propria immagine e i propri interessi – e la magistratura italiana non può e non potrà mai esserci una vera collaborazione. La causa risiede nei Patti Lateranensi del 1929, ratificati nel Concordato del 1984: secondo l’articolo 4, “I vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero”. In pratica, non sono tenuti a collaborare con la giustizia. Nella circolare alle Conferenze episcopali per la preparazione delle linee guida da adottare nei casi di abuso su minore, il Vaticano ha ribadito che “va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale”. Il riferimento al “foro interno sacramentale”, cioè alla confessione, riguarda il divieto di un sacerdote di divulgare un peccato o l’identità del peccatore che si è confessato. Ciò significa che se un prete viene a conoscenza di un abuso durante una confessione è invitato a tenere per sé questa notizia, pena la scomunica. Anche il motu proprio di papa Bergoglio del marzo 2019 che istituisce l’obbligo per i membri della Curia di informare il tribunale vaticano di eventuali abusi prevede la clausola del sigillo sacramentale. Il concordato stabilisce inoltre che un prete che abbia commesso un delitto perseguibile sia per la legge italiana che per il diritto canonico possa rifugiarsi negli immobili della Chiesa protetti dall’extraterritorialità, dove le forze dell’ordine non possono entrare. Bernard Francis Law, l’arcivescovo di Boston noto per aver coperto decine di abusi scoperti dalla famosa inchiesta del Boston Globe vincitrice del Premio Pulitzer e raccontata nel film Il caso Spotlight, nel 2002 fu trasferito per volere di Wojtyla nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, che gode dell’extraterritorialità. Law è morto a Roma nel 2017, all’età di 86 anni, senza subire alcun processo per il suo coinvolgimento nella copertura degli abusi su almeno 552 minori.
Negli ultimi anni, sembra che la Chiesa si stia sforzando più che in passato per contenere il fenomeno della pedofilia, soprattutto a partire dall’elezione di Bergoglio. Nel 2014 è stata istituita la Pontificia commissione per la tutela dei minori, mentre nel 2016 il papa ha firmato il provvedimento “Come una madre amorevole” per la “protezione dei bambini e degli adulti vulnerabili”, ribadita anche con il motu proprio del 2019. Ma tutto questo non è abbastanza se lo scopo di queste iniziative è risolvere dall’interno il problema sottraendo alla giustizia italiana chi compie violenze su minori. La responsabilità di questa situazione è anche dello Stato, e a riconoscerlo è l’Onu che, nell’ultima relazione del Comitato per i diritti dell’infanzia, ha espresso preoccupazione “per i numerosi casi di bambini vittime di abusi sessuali da parte di personale religioso della Chiesa Cattolica nel territorio dello Stato Membro e per il basso numero di indagini criminali e azioni penali da parte della magistratura italiana”. Tra le raccomandazioni delle Nazioni Unite c’è proprio il superamento dei Patti Lateranensi e l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sul tema.
Uno Stato che tollera questo tipo di interferenze nell’amministrazione della giustizia, specialmente riguardo a fatti così gravi che coinvolgono minori, non può certo definirsi laico.