In questi giorni si sta consumando uno scontro cruciale all’interno della maggioranza e non solo. L’oggetto della contesa è la riforma della prescrizione voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che l’ha inserita nel decreto rinominato lo “Spazzacorrotti”.
La legge prevede il blocco della prescrizione dopo le sentenze di primo grado: ciò significa che nessun reato potrà essere prescritto una volta superato il primo dei tre step del giudizio, a prescindere dall’esito. La ratio della riforma è molto chiara: evitare che gli imputati utilizzino la prescrizione come uno strumento per schivare le sentenze di condanna, un esito non raro nel nostro Paese. Il problema sottinteso della norma lo è altrettanto: rende indeterminati i termini dei processi, che potenzialmente possono diventare infiniti. Questo approccio rischia di entrare in contraddizione con quanto stabilito sia dalla Costituzione italiana, all’articolo 111, che dalla Convenzione europea dei diritti umani. Entrambe, infatti, sanciscono che debba essere il principio della ragionevole durata a guidare il legislatore quando mette mano al tema della giustizia.
Questo presupposto serve a evitare che un cittadino resti sul banco degli imputati per un periodo indefinito, con tutto ciò che ne consegue. Oltre al singolo individuo coinvolto nel procedimento, inoltre, tutela la collettività, perché dovrebbe “liberare” il sistema giudiziario da procedimenti che non hanno più senso di esistere e che ingolfano la macchina giudiziaria, impedendole di concentrarsi su casi più rilevanti, urgenti o quantomeno che abbiano la speranza di arrivare a conclusione. Questo aspetto risulta particolarmente importante per noi, perché in Italia l’azione penale è obbligatoria, il che significa che un pm deve sempre richiedere che la persona a cui è attribuito un reato venga sottoposta a giudizio – a meno che l’ipotesi non risulti infondata durante le indagini preliminari. Non è scontato: in altri Paesi, come ad esempio l’Olanda, l’autorità può decidere se perseguire il reato in base a principi di opportunità più o meno discrezionali.
Detto questo, il nobile scopo con cui la politica italiana ha messo mano al tema della prescrizione non è sempre stato aiutare la magistratura. Un esempio su tutti: il 5 dicembre 2005 entrava in vigore la ex-Cirielli, chiamata così proprio perché rinnegata dal suo stesso primo firmatario, Edmondo Cirielli, oggi esponente di Fratelli d’Italia, allora in quota Pdl. Approvata in epoca di leggi ad personam, la norma prevedeva, tra le altre cose, che i tempi della prescrizione per i reati puniti con 10 o più anni di reclusione fossero accorciati, equiparati al massimo imponibile per il reato in questione. Tradotto, significa che se la bancarotta fraudolenta, punita con una pena dai 3 ai 10 anni di carcere, prima si sarebbe prescritta in un massimo di 22 anni e sei mesi, dopo la ex-Cirielli questi tempi si sono ridotti a 12 anni e sei mesi. Una volta trascorso questo periodo, a prescindere dall’esito dei gradi di giudizio eventualmente conclusi, il reato è considerato estinto. Da questo ragionamento venivano esclusi alcuni reati più gravi, come ad esempio quelli che prevedono la pena equiparabile all’ergastolo, ma anche i delitti puniti con pene più contenute ma ritenuti di allarme sociale, per i quali la ex-Cirielli ha aumentato i termini della prescrizione.
Queste caratteristiche rendevano l’Italia, prima della riforma Bonafede, uno dei Paesi europei con i termini di prescrizione più corti, specialmente per i reati gravi degli imputati eccellenti, i cosiddetti “colletti bianchi”: politici, grandi imprenditori e uomini e donne d’affari. Con il senno di poi è chiaro che la normativa sia stata sfruttata proprio nei tipici reati di corruzione o legati al mondo dell’alta impresa: secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Giustizia, infatti, il 12,5% delle prescrizioni nel 2014 ha riguardato reati contro la pubblica amministrazione (concussione, peculato, abuso d’ufficio, ecc.) e il 13,2% quelli societari. Dunque, la battaglia dei M5S contro l’impunità non è priva di fondamenta, anzi. Nel 2016 il Consiglio d’Europa aveva invitato l’Italia a riformare l’istituto della prescrizione entro la fine dell’anno, proprio per incrementare gli sforzi contro la corruzione, ma nel 2017 aveva stabilito che i progressi in questo campo erano stati “limitati”. Tuttavia la riforma Bonafede, se non affiancata da misure che rendano più rapidi i processi e le indagini, rischia di traghettarci da un eccesso a un altro. Inoltre, andrebbe a influire su una percentuale minima dei processi: sempre secondo il Ministero della Giustizia il 75% dei casi che arriva a processo si prescrive durante il primo grado e buona parte di essi – quasi 49mila nel 2018 – si sono estinti per prescrizione già in fase di indagine.
I paragoni con altri sistemi giudiziari sono complessi, ma guardare all’estero ci consente di osservare un dato particolare del nostro: nonostante da noi la prescrizione “arrivi prima” rispetto ai nostri vicini europei, i processi in Italia durano di più. Molto di più. Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani, per completare tre gradi di giudizio in Italia ci vogliono in media 8 anni per un processo civile, 3 anni e 9 mesi per uno penale e più di 5 anni per ottenere una sentenza amministrativa: numeri tre o quattro volte superiori rispetto alla media europea. Quanto questo abbia a che fare con la prescrizione è presto detto.
Secondo il magistrato Piercamillo Davigo, sentito dal Fatto quotidiano, “I processi in Italia durano tanto perché ce ne sono troppi”. E questo non perché siamo più litigiosi di altri, ma perché, come spiega lui stesso, “Ci sono troppi appelli e ricorsi in Cassazione, fatti in attesa che arrivi la prescrizione”. Inoltre, sottolinea il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, “Alcuni comportamenti che ridurrebbero la durata dei dibattimenti non sono attuati, perché per gli imputati e i loro avvocati è più conveniente puntare sulla prescrizione del reato”. Quindi, il tema delle tempistiche è sì legato a quello della prescrizione, ma in modo molto diverso rispetto a quanto previsto dalla teoria: in Italia, anche quando si supera la fase di indagine e il caso arriva in tribunale, spesso allungare il processo il più possibile conviene un po’ a tutti perché è molto probabile che, tra un rinvio e un altro, si raggiunga il termine della prescrizione.
Il vero nodo cruciale, quindi, secondo Davigo non deve essere il blocco della prescrizione, ma le tempistiche di decorrenza. Da noi, infatti, il conteggio parte da quando il fatto è avvenuto, non dal momento in cui il Pm ha ricevuto la notizia di reato. “Così,” spiega il magistrato, “le Procure della Repubblica scoprono molti casi che sono successi magari 4 o 5 anni prima, che si prescrivono in 7 anni e mezzo e con solo 2 anni e mezzo per fare le indagini e celebrare tre gradi di giudizio. Impossibile. Sarebbe lavoro inutile, così le Procure li lasciano prescrivere per dedicarsi a inchieste più utili”.
La situazione nei tribunali e nelle procure d’Italia, dove il personale è insufficiente da anni, è talmente problematica che il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri è arrivato a dire che il blocco della prescrizione potrebbe essere una forma di ricatto per la politica, affinché sia costretta a fare le reali riforme che servono per velocizzare i processi. “È bene che questa riforma parta,” ha dichiarato al Fatto quotidiano, “perché c’è tutto il tempo poi per fare modifiche fondamentali per velocizzare le fasi delle indagini preliminari e quella del dibattimento. Nessuno si domanda perché fascicoli rimangono fermi negli armadi dei pm e dei giudici per quattro, cinque anni e anche più, ma questa è la mamma di tutte le domande”.
Di queste modifiche si stanno occupando – o dovrebbero occuparsi – le forze parlamentari, che invece sembrano concentrate su piccoli dispetti e dinamiche di potere. Il Pd lo scorso dicembre aveva presentato una proposta di legge che avrebbe introdotto dei limiti oltre i quali la prescrizione sarebbe stata riattivata: 30 mesi dopo la sentenza di primo grado e 1 anno dopo quella di appello. C’è poi il lodo Conte-bis, una proposta del deputato Leu Federico Conte, che vorrebbe introdurre una distinzione tra sentenza di assoluzione e sentenza di condanna: la prescrizione si interromperebbe solo nel secondo caso, e se il condannato venisse assolto in appello potrebbe recuperare gli anni di prescrizione che nel frattempo sono rimasti bloccati per la condanna in primo grado. Questa, seppur limata rispetto alla prima, suscita ancora delle perplessità, perché prevedere un trattamento impari tra imputati, che dovrebbero invece essere considerati non colpevoli fino alla condanna definitiva, potrebbe essere incostituzionale. Forza Italia e Lega vorrebbero semplicemente abrogare la riforma, mentre Italia Viva ha una posizione al limite della schizofrenia: Lucia Annibali, esponente del partito dell’ex premier Matteo Renzi, ha presentato due emendamenti in cui chiede la sospensione della riforma Bonafede e il rientro in vigore temporaneo di quella vecchia, firmata dall’ex guardasigilli del governo Renzi Andrea Orlando. Un’eventualità rigettata da M5S, Pd e Leu, ma valutata con piacere da destra e centro-destra. Allo stesso tempo, però, Matteo Renzi ha dichiarato che avrebbe votato a favore del Conte-bis, se questo fosse arrivato in parlamento, salvo poi sfiduciare il ministro della Giustizia Bonafede.
Quindi il M5S non vuole rinunciare a una riforma-bandiera, Italia Viva minaccia il governo per ricordare agli ex-compagni di partito che conta ancora qualcosa, il Partito democratico risponde a tono; Berlusconi blatera di giustizialismo e Salvini forse non ha capito di cosa stanno parlando, ma in ogni caso ne approfitta per attaccare il governo. Sembra quasi che una riforma tanto importante e necessaria, che dovrebbe riguardare tutto il sistema giudiziario e quindi l’essenza della nostra stessa democrazia, sia ridotta all’ennesima coccarda da applicare al bavero della giacca, un nome su una legge, un gioco di potere. Mentre “Nessuno”, riprendendo la citazione di Gratteri, sembra domandarsi davvero “perché fascicoli rimangono fermi negli armadi dei pm e dei giudici per quattro, cinque anni e anche più”.