Chiunque abbia deciso di studiare Giurisprudenza avendo in programma di diventare avvocato ha dovuto prendere in considerazione il cosiddetto “periodo di praticantato”, necessario per sostenere l’Esame di Stato.
Il praticantato è una sorta di lungo tirocinio post-laurea con ha due fondamentali caratteristiche: la prima è che ha una durata di un anno e mezzo, una longevità non comune a tutti i tirocini formativi o agli stage; la seconda è che i praticanti avvocati si trovano costretti a elargire questo anno e mezzo di lavoro – quasi sempre completamente gratuito – a una categoria professionale notoriamente benestante.
Una praticante in un noto studio d’avvocatura di diritto dell’informazione mi confidò, in bilico fra lo schifo e l’ammirazione, che il suo dominus (nella liturgia forense, l’avvocato esperto che prende il praticante sotto la sua ala per insegnargli il mestiere) veniva pagato 400 euro a incontro, mentre lei non vedeva un euro da un anno e mezzo. La sfumatura drammatica era data dal fatto che questa persona non era una semplice segretaria con qualche mansione compilatoria dal retrogusto avvocatesco: oltre alle file in posta, alle telefonate all’Hera o ai corrieri espresso, alla preparazione di caffè e alle immancabili fotocopie, tra i suoi compiti rientravano anche la stesura di atti – che aveva imparato a redigere da sola grazie al buon cuore dell’altro praticante più “anziano” – e la compilazione di delicati questionari di sintesi delle pratiche, di cui era tenuta ad assumersi la piena responsabilità. Lavorava dalla mattina presto fino a tarda notte, molto spesso anche il fine settimana e in giorni festivi come il primo maggio o il 25 aprile, nonostante gli accordi presi. Riceveva spesso telefonate dal suo dominus dopo le dieci di sera, in cui veniva informata che il mattino dopo avrebbe dovuto prendere questo o quel treno per raggiungere oscuri archivi in giro per l’Italia, alla ricerca di importantissimi documenti che era suo prezioso compito consegnargli. Era tenuta a essere la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene, e a soddisfare immediatamente qualsiasi richiesta, compreso il trasloco di mobili, libri e quadri quando lo studio ha cambiato sede. D’altronde, perché pagare un traslocatore quando hai un praticante? Il risultato è stato che ha letteralmente dovuto pregare i suoi datori di lavoro per raggiungere il numero delle famose udienze, necessario per finire ufficialmente la pratica, dato che un praticante avvocato deve portare a casa venti udienze a semestre, e cioè sessanta udienze in un anno e mezzo, almeno secondo la legge n.247 del 31 dicembre 2012, e il conseguente decreto ministeriale n. 70 del 17 marzo 2016.
Il periodo di praticantato è una lunga fase di nota frustrazione, spacciata come necessaria per accedere a una professione che si immagina essere remunerativa e gratificante, una volta intrapresa, ma che nel frattempo sembra più che altro beneficenza, generosamente elargita a una categoria professionale che ha decisamente meno bisogno di aiuto: fare volontariato presso uno studio di avvocati non è esattamente come dare una mano al reparto di oncologia pediatrica.
Secondo la legge professionale forense del 2012 e il decreto ministeriale del 2016 n.70 del 17 marzo 2016, “Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio.” Con rimborso spese si intendono biglietti del treno, dell’autobus, dei ritiri postali, del costo delle tasse sugli atti pagate a nome dello studio. Non copre, quindi, il costo del lavoro del praticante, non garantisce nemmeno la metà di un reddito minimo necessario a sopravvivere. E questo nonostante il Codice deontologico forense preveda, seppur genericamente, che, dopo il primo semestre, ai praticanti debba essere riconosciuto un “compenso adeguato” –ovviamente, il mero rimborso delle spese vive non retribuisce in alcun modo il costo del lavoro del praticante. I pochi fortunati, che dopo sei o sette mesi di lavoro cominciano a essere retribuiti a percentuale sui clienti seguiti, in genere sono quelli che per puro caso sono finiti nelle mani di un dominus di buon cuore e che hanno avuto la possibilità di “fare una pratica vera”. La maggioranza, invece, che svolge principalmente attività di segreteria, non solo non riceve la retribuzione che spetta per legge a chi svolge un lavoro subordinato, ma non apprende nemmeno un mestiere. Per entrare ufficialmente a far parte dell’albo dei praticanti, l’aspirante è inoltre tenuto a pagare di tasca propria l’iscrizione al prestigioso registro pubblico. A prima vista, la spesa può non apparire eccessivamente onerosa, ma è il caso di ricordare che 16 euro di marca da bollo, 81 di iscrizione, 101 di contributo pratica e 15 di diritti di notifica non sono poi così irrilevanti, soprattutto se a doverli versare è qualcuno che non può contare su una sua propria fonte di reddito. E per ritirare l’attestato di compiuta pratica, ecco che se vanno altri 25 euro.
La realtà è che a causa del suo titolo quasi sempre completamente gratuito, unito all’impegno che quasi sempre comporta e che non consente di lavorare altrimenti, il periodo di praticantato non è accessibile a tutti. Se dopo la laurea in Giurisprudenza si desidera intraprendere il lungo cammino che si tende a supporre possa portare all’avvocatura, è necessario disporre delle risorse economiche necessarie a sopravvivere per almeno un anno e mezzo senza lavorare – anno e mezzo che solo per pochi, fortunati, praticanti tiene conto del tempo necessario a studiare per superare l’esame. Solo a pochi, fortunati, praticanti sono infatti consentiti ritagli dal tempo lavorativo per preparare l’Esame di Stato. Un esame più che provante, articolato in tre prove e per il cui esito bisogna aspettare mesi e mesi. I malcapitati ex praticanti che non superano lo scritto la prima volta e non possono dunque accedere all’orale si trovano a dover ricominciare da capo l’intera trafila, in un meccanismo a metà strada fra l’Inferno dantesco e una lunghissima fila alle poste in equilibrio su un precipizio. Se fosse necessario sottolinearlo, per avere maggiori possibilità di passare l’esame e non avere la sensazione di avere sprecato due anni della propria vita, è necessario studiare il più possibile. Considerando che non di rado il praticante continua a lavorare (gratis o semi-gratis) presso lo studio del dominus anche dopo l’anno e mezzo obbligatorio, è difficile che si trovi un’occupazione con cui iniziare finalmente a mantenersi prima dell’esito finale dell’esame di Stato.
Per poter accedere a determinate professioni è indispensabile avere una famiglia alle spalle pronta a coprire i costi. In altre parole, per entrare nel mondo dell’avvocatura e sperare di compensare con un buono stipendio anni di studio e sacrifici, è necessario avere una famiglia che faccia parte di una fascia di reddito medio-alto, in un cortocircuito che ha poco a che vedere col merito e che lascia ben poco spazio a chi non fa parte dalla nascita dello splendente universo del terziario avanzato ben pagato.
Chi non proviene da una famiglia benestante difficilmente potrà portare a termine con successo e in tempi brevi il periodo di praticantato, preparare l’Esame di Stato e sostenerlo prima che siano passati anni dalla laurea, finendo per essere inevitabilmente penalizzato dal già estremamente competitivo e complesso mercato di questo lavoro. Essere tenuto da uno studio di avvocati è molto difficile, soprattutto considerando che anche un periodo di praticantato trascorso senza mai fare errori o provare a contrattare un compenso non è una garanzia di una collaborazione stabile e retribuita. Lo squilibrato, quando non proprio inesistente, rapporto di forze con il dominus incoraggia i praticanti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, pur di accrescere la speranza di essere inseriti nell’organico. I laureati in Giurisprudenza provenienti da fasce di reddito più basso, che non possono accettare di lavorare gratis, sono destinati a rimanere indietro, mentre chi può vantare una famiglia ben radicata finisce per avere la possibilità, grazie a una sorta di diritto di nascita, di piantare ancora più saldamente radici nell’universo elitario delle professioni ben retribuite. Il lavoro nobilita l’uomo, ma solo se retribuito.