Considerare i poveri pigri e poco intelligenti è un pregiudizio di molti. Margaret Tatcher definì la povertà come un difetto del carattere. Purtroppo, di questi tempi, è opinione più diffusa di quanto si possa pensare, che i poveri siano in qualche modo responsabili della propria condizione, che se la siano meritata, ed è per questo naturale che paghino il prezzo di scelte scellerate e accettino le conseguenze di azioni sbagliate. Spesso li guardiamo con sguardo paternalistico o di superiorità: ci sarà in fondo un motivo per cui sono poveri e non ricchi. Ma questo è un semplice meccanismo mentale che le persone attuano per sentirsi al sicuro, per legittimare la loro posizione e mettersi almeno a parole al riparo dal caso e dalla paura, per quanto lontana, di dover vivere nelle stesse condizioni. Per il filosofo olandese Rutger Bregman la povertà, infatti, non ha nulla a che fare con le doti e le abilità degli individui, ma si tratta semplicemente di una mancanza di denaro; la personalità non c’entra nulla e per risolverla basterebbe il reddito universale di base, garantire una soglia minima di benessere per tutti, un’idea radicale che ha molti padri nobili a partire da Thomas More, ma che non ha mai trovato applicazione su larga scala.
Nel libro Utopie realiste, Bregman racconta un esperimento avviato in Canada negli anni Settanta che garantiva un reddito dignitoso a tutti gli abitanti della città di Dauphin. In soli quattro anni la città risorse: il rendimento scolastico migliorò, il numero di violenze domestiche diminuì, così come il tasso di ospedalizzazione e i problemi di salute mentale. L’aspetto più interessante è che, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non ci fu una diminuzione delle ore lavorate: la gente aveva sempre la voglia e l’entusiasmo di mettersi in gioco. Dopo quello studio se ne fecero altri ed emersero risultati simili in tutto il mondo, con cali della criminalità, della mortalità infantile, della malnutrizione, delle gravidanze di minori, dell’abbandono scolastico, e con riscontri positivi anche sulla crescita economica e l’uguaglianza di genere. Uno studio condotto in Liberia, ad esempio, ha previsto l’elargizione di 200 dollari ai più poveri, tra cui alcolisti, tossici e piccoli criminali. Queste persone ai margini della società spesero i soldi ricevuti in generi alimentari, vestiti, medicine e micro attività. Il contante gratuito funzionò e fu un successo, e il radicato pregiudizio verso i poveri si rivelò infondato. Nella relazione finale di un esperimento in Namibia, un vescovo offrì una volta un’illuminante spiegazione attraverso il paragone con un passo biblico, Esodo 16: “Il popolo di Israele nel suo lungo viaggio per sfuggire alla schiavitù ricevette la manna dal cielo. Però essa non lo rese pigro, gli permise invece di proseguire il cammino”.
Persino l’Economist ha concluso che “il modo più efficiente di spendere soldi per i senzatetto potrebbe essere darglieli e basta”, e la rivista medica Lancet ha affermato che quando i poveri ricevono soldi senza nulla in cambio tendono a lavorare di più.
Uscire invece dalle spire della povertà senza avere denaro a sufficienza è quasi impossibile, perché la condizione stessa di povertà consuma e inibisce la capacità di pensare a lungo termine. George Orwell, che l’aveva conosciuta, ne tracciò una descrizione in Down and Out in Paris and London, parlandone come di una condizione che annulla il futuro. Quando sei povero passi intere giornate a letto e pensi solo a come mangiare domani.
Un esperimento condotto dal professor Eldar Shafir della Princeton University chiarisce bene perché i poveri facciano spesso scelte poco vincenti. Shafir ha studiato i comportamenti di alcuni coltivatori indiani che ricevono il salario in un unico trasferimento una volta l’anno, e sono quindi per una parte dell’anno ricchi e per l’altra poveri. I risultati mostrano che il QI di queste persone è diminuito di 14 punti quando erano più povere. Se pensiamo che 14 punti di quoziente intellettivo sono paragonabili agli effetti di una notte insonne, comprendiamo bene quali problematici risvolti possano avere sui processi decisionali. Shafir parla della povertà in termini di “mentalità della scarsità”, una scarsità che consuma e inibisce la capacità di concentrazione: chi è povero non pensa a lungo termine perché troppo preoccupato a sbarcare il lunario. Questa è la ragione per cui molti programmi di contrasto alla povertà non portano a risultati significativi (e anche investire in formazione si rivela quasi inutile): non si va alla radice del problema. Fornire un aiuto una tantum è solo un palliativo, per cambiare davvero lo stato delle cose bisogna togliere gli indigenti dalla condizione stessa di povertà.
Viviamo in un’epoca in cui la politica è interessata principalmente a combattere i sintomi della povertà, piuttosto che curarne le ragioni profonde. In Italia oltre una persona su quattro è a rischio povertà, la povertà assoluta è aumentata del 182% in dieci anni, e i poveri sono oltre cinque milioni. Nonostante i numeri allarmanti, il nostro Paese non solo non si dà come obiettivo quello di risolvere il problema in modo definitivo, ma decide di derubare gli ultimi anche della dignità: i poveri sono diventati qualcosa da eliminare. Sono stati prima disumanizzati e poi trasformati dai politici – sia di destra che di sinistra – in un problema di decoro urbano. Già nel 2017 l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti ha avviato un processo di stigmatizzazione della povertà, punendo gli ultimi con sanzioni che avevano dell’incredibile, in nome del cosiddetto “decoro” e di una presunta sicurezza. Il suo decreto ha conferito poteri ai sindaci – ribattezzati per l’occasione “sindaci sceriffi” – con misure che limitavano la libertà di movimento. Il daspo urbano consentiva l’allontanamento da stazioni, aeroporti, strade o zone turistiche di chi ne disturbava la fruizione, quindi senzatetto, migranti e mendicanti. I sindaci hanno emanato ordinanze derivate dal decreto Minniti, come quelle “anti clochard” o quelle che vietavano di dare da mangiare e portare il latte a poveri e stranieri.
La solidarietà si è fatta reato e la caccia al povero è stata inaugurata. L’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini cavalca l’onda del predecessore arrivando a prevedere nel suo decreto il daspo esteso ai presidi sanitari – a cui molti medici si sono ribellati – e il reato di accattonaggio. Il daspo viene ora disposto anche nei luoghi in cui si svolgono “mercati, fiere e pubblici spettacoli”. Se l’accattonaggio diventa “molesto”, viene punito con l’arresto da 3 a 6 mesi e una multa di qualche migliaia di euro. Si reintroduce così un reato che risale alle Leggi di Pubblica Sicurezza di età fascista, quelle che inserivano i mendicanti tra le persone pericolose. Si criminalizzano povertà e carità. Un recente rapporto della Caritas individua tra i principali fattori che alimentano la povertà proprio le politiche securitarie, la criminalizzazione dei poveri e una socialità a pagamento, quell’idea per cui la misura dell’inclusione sociale è legata al denaro di cui si dispone.
Nella Capitale, mentre l’amministrazione decide di posticipare il piano freddo e sgomberare molti stabili occupati lasciando centinaia di persone in mezzo alla strada, c’è stato il primo morto di freddo. Morire di freddo dovrebbe essere inaccettabile al giorno d’oggi, in Occidente, eppure succede ancora. Sembra di vivere in un romanzo dell’età vittoriana in mezzo ai poveri di Londra, ma è la fotografia dell’Italia del 2018 alla vigilia di Natale. A Roma il centro Baobab per migranti transitanti – un luogo dove da anni la solidarietà dei cittadini sopperisce al vuoto amministrativo – è stato circondato da una recinzione che sembra proprio un muro, una sorta di lager contemporaneo per nascondere gli ospiti alla vista di passanti impressionabili. Ora ci campeggia una scritta che restituisce un po’ di speranza: “Ogni muro che costruisco per chiudere fuori il mondo è anche un muro costruito per chiudere dentro me, e trovandomi confinato nel modo più orribile scopro di essere diventato sia guardiano che prigioniero”. Non contenti del muro, allora, il Baobab l’hanno sgomberato per la ventiduesima volta un mese fa lasciando 41 persone in strada, e poi di nuovo qualche giorno fa, vietando la distribuzione della colazione ai migranti e sequestrando le coperte con cui i ragazzi si riparavano dal freddo. “Piccolo e misero è l’uomo che si esalta davanti ad una ruspa che distrugge il letto di un povero,” è stato il commento dei volontari.
Lo scorso 10 dicembre, nel giorno del 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è stata sgomberata a Roma l’ex Fabbrica della Penicillina, uno stabile abbandonato in cui fino a poco tempo fa vivevano circa 500 persone senza acqua corrente, elettricità e riscaldamento, in mezzo a un rudere insediato da immondizia e amianto. Un luogo che sembra l’inferno. All’evento ha fatto la comparsa anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, contestato dai residenti della zona, che ha allestito un imponente dispiegamento di forze dell’ordine, nonostante lo stabile fosse ormai quasi vuoto perché l’operazione era stata già annunciata e ampiamente sponsorizzata. Salvini ci ha messo il cappello assicurando più sicurezza, e non ha perso l’occasione per vantarsi di aver ripristinato ordine e legalità. Si è trattato in realtà di una vetrina, l’ennesima, che non assicura soluzioni alternative e dove a pagare le conseguenze sono solo persone già condannate alla marginalità, che si vorrebbe far sprofondare ancora di più letteralmente nelle fogne, dove molti già vivono. Chiunque capirebbe che spostare delle persone da un palazzo fantasma alla strada non garantisce maggiore sicurezza, semmai aumenta le tensioni. Lì dentro c’erano i poveri, stranieri e italiani.
Fomentare a livello sociale l’odio contro gli ultimi della nostra società è una strategia per ribaltare la direzione del conflitto sociale, orientandolo non verso i più forti ma verso i più deboli, non contro chi sta in alto ma verso chi sta ancora più in basso. Questo è purtroppo il terreno su cui i nostri governanti riescono unicamente e unanimemente a rappresentare gli umori degli elettori. E allora non stupisce che il 52° rapporto del Censis di qualche giorno fa sulla situazione sociale del nostro Paese dipinga un’Italia incattivita, rancorosa e cinica, che talvolta “assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio”. La nostra società è imbevuta dello stesso cinismo del signor Scrooge, il protagonista del Canto di Natale di Dickens, che ai “Dio ti benedica” risponde con le randellate, e scansa i mendicanti; dove un impiegato non si può permettere un cappotto; i bambini incarnano le metafore dell’ignoranza e della miseria; i poveri non hanno nulla di nobile, e ora come allora non sono belli, non sono decorosi e le loro scarpe non sono impermeabili all’acqua; le strade in cui abitano sono ugualmente sporche e le case miserabili; dove però la solidarietà si accende con poco e i pranzi si offrono generosamente ai più poveri perché ne hanno più bisogno.
Sembra che tutto sia tornato a circa due secoli fa, fino a darci l’impressione che sia sempre rimasto intatto. Eppure non è così, tempo fa sembrava che dei grandi cambiamenti ci fossero stati. Gli ultimi delle nostre città sembrano personaggi dickensiani, ma se quelli offrivano una speranza di cambiamento, un piccolo miracolo di redenzione che caricava il Natale di significato, oggi viviamo una sorta di eutanasia sociale che legittima l’indifferenza: una visione del mondo sempre più nichilista che ha anestetizzato le coscienze al bisogno degli altri, alle morti di freddo, alle misure disumane e all’umanità.