Durante le elezioni presidenziali del 2016, Barack Obama invitava a votare per la candidata democratica Hillary Clinton perché “era in gioco la democrazia”. Passando il testimone al vincitore Donald Trump, ricordò poi in un discorso come la democrazia statunitense fosse “più grande di una sola persona” e disse ai suoi cittadini che avrebbero dovuto “contrastare l’avanzata di un nazionalismo rozzo, un’identità etnica, un tribalismo costruito attorno a un noi e a un loro”. Su questo linguaggio divisivo Trump ha fondato l’inaspettato successo della sua campagna elettorale e le sue successive politiche di governo degli ultimi quattro anni, fomentando anche gli scontri razziali che nel 2020 hanno riportato al centro delle cronache il movimento Black Live Matters (Blm), in un periodo aggravato anche dalla gestione fallimentare della pandemia in gran parte degli Stati Uniti. Difendere la democrazia è oggi la sfida delle migliaia di manifestanti mobilitati ogni notte a Portland, nell’Oregon, per ottenere giustizia per tutti gli afroamericani uccisi e feriti impunemente da agenti di polizia come George Floyd, e per non far rieleggere il 3 novembre prossimo Trump. Un presidente che ha deciso di gestire le proteste esasperandone ancora di più i toni, mostrando il suo volto autoritario contro chi lo contesta.
Le campagne per la Casa Bianca sono il momento ideale per fabbricare nemici attraverso la contrapposizione tra il “noi” e il “loro”. “Loro”, oltre agli afroamericani, per Trump sono adesso gli “orribili anarchici” di Portland e, come ha twittato, “la sinistra radicale che controlla totalmente Joe Biden e che distruggerà il Paese”. Alcuni filmati girati a Portland in queste settimane mostrano dimostranti portati via con la forza da agenti a volto coperto con maschere antigas, vestiti con tute mimetiche militari ma identificati solo da una generica scritta “police”; i dimostranti in diverse occasioni sono stati arrestati in modo arbitrario, rinchiusi per alcune ore in furgoni privi di contrassegni delle forze dell’ordine e poi rilasciati senza nessuna spiegazione. Azioni comuni in regimi come l’Egitto, la Siria, e in Paesi retti da leader autoritari come la Russia o la Turchia. Contro questi Stati di polizia, pur con grandi limiti, gli Stati Uniti si sono sempre presentati come il portabandiera dei valori democratici nel mondo. Ora è il loro presidente a prendere a modello autocrati come Vladimir Putin o Recep Tayyip Erdogan, con la battaglia per la democrazia che si è spostata negli stessi confini del Paese.
Sul New York Times Michelle Goldberg scrive che ancora “nel 2017 l’idea di agenti non identificati in tuta mimetica, mandati in strada ad acciuffare persone di sinistra senza mandato”, appariva una “fantasticheria”, eppure “è quello che sta succedendo oggi. (…) A Portland vediamo cos’è un’occupazione”. Un documento del Dipartimento per Sicurezza Interna statunitense, del quale il Nyt ha ottenuto una copia, rivela che le unità dislocate a Portland non sono paramilitari, ma agenti inviati dal governo federale che includono “ufficiali delle Unità tattiche per il pattugliamento dei confini (Bortac)”: si tratta delle forze speciali dell’Agenzia americana per la Difesa delle Frontiere e delle Dogane (Cbp), concepite per rispondere a “minacce terroristiche” anche interne e solitamente impiegate in raid anti-droga, ma schierate anche per le calamità naturali e per sedare – con metodi violenti – sommosse a sfondo razziale. La Cbp è di per sé “un’agenzia molto problematica in termini di rispetto dei diritti umani e della legge”, denuncia il deputato democratico Joaquin Castro, “e i suoi vertici sono fanaticamente devoti a Trump”.
Per lo storico Timothy Snyder, autore del saggio Sulla Tirannia, l’uso che si fa a Portland dei reparti Bortac è paramilitare, perché “lo Stato è autorizzato all’uso della forza, ma deve farlo nel rispetto delle regole”. Dalle immagini di Portland questo non sembra affatto garantito: il procuratore generale dell’Oregon Ellen Rosenblum ha intentato una causa all’amministrazione Trump “per violazione dei diritti civili”, pretendendo l’imposizione di regole d’ingaggio delle unità speciali “alla guida di veicoli privi di contrassegni, impiegati per detenere dimostranti”. Un episodio documentato il 15 luglio 2020 riguarda il 29enne di Portland Mark Pettibone, trascinato in un minivan da un agente non identificato, rinchiuso per un’ora e mezza in una cella del palazzo di giustizia locale e infine rilasciato senza essere informato su chi lo avesse messo in stato di fermo e perché. Queste operazioni a Portland si sommano alla durezza con cui le forze di sicurezza respingono e attaccano i dimostranti da due mesi in molte città degli Stati Uniti.
Un esempio di quest’uso sproporzionato della forza è il proiettile di gomma che l’11 luglio 2020 ha perforato la fronte del 26enne Donavan La Bella, trasportato privo di sensi in uno degli ospedali di Portland, dove è stato necessario impiantargli una placca di titanio nel cranio per salvarlo. “Dai primi di luglio”, ricostruisce il New Yorker, “dozzine di agenti di diverse agenzie federali, guidate dal Dipartimento per la Sicurezza interna, sono intervenuti nelle proteste”. All’inizio “sparando gas lacrimogeni contro i dimostranti, che a quanto affermato sarebbero avanzati troppo verso il tribunale”; poi, nel quarto fine settimana del mese, “sferrando un assalto notturno ai manifestanti con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti”. Per la governatrice democratica dell’Oregon Kate Brown quanto accade nella città “non ha nulla a che fare con la sicurezza pubblica e non servirà a risolvere il problema”. La speaker democratica della Camera Nancy Pelosi le fa eco affermando che “Trump e le sue truppe d’assalto a Portland, in risposta a dei graffiti, vanno fermate”.
La presa di distanze dalle repressioni di piazza non coinvolge solo i democratici, ma è trasversale ai partiti e nella società civile: senatori repubblicani come Rand Paul, figure istituzionali come la procuratrice generale dell’Oregon Ellen Rosenblum, diversi generali ed esponenti della Difesa, incluso l’ex capo del Pentagono James Mattis, e altri militari già ai vertici dell’apparato di Sicurezza nell’amministrazione Trump si dissociano dall’uso arbitrario della forza minacciato continuamente e autorizzato sempre più spesso dalla Casa Bianca. A cento giorni dalle Presidenziali, Trump ha bisogno di alzare il livello dello scontro per alimentare la sua tipica narrazione politica basata sul me (e noi) contro il loro di turno. Secondo gli ultimi sondaggi del 26 luglio lo sfidante Joe Biden mantiene una forbice di vantaggio che oscilla tra i 4 e i 12 punti percentuali, come mostra il monitoraggio di Real Clear Politics che accorpa i risultati nei diversi Stati; Biden è tuttavia in calo rispetto ai 15 punti di distacco raggiunti a metà luglio, mentre il 10% degli elettori si dice ancora indeciso su chi votare a novembre.
Da altre rilevazioni svolte tra giugno e luglio emerge che in media sei statunitensi su dieci interpellati appoggiano le istanze del movimento Black Lives Matters, criticando la reazione della Casa Bianca; due su tre restano però contrari ai tagli chiesti dai dimostranti al budget e al personale della polizia. In questo bacino Trump e il suo staff intravedono una breccia decisiva per aumentare il suo indice di gradimento: dopo Portland, ha annunciato “un’ondata di agenti federali” anche a Chicago e “in altre città afflitte dal crimine violento”, dando il via libera dell’Operazione Legend contro le gang metropolitane. La progressiva militarizzazione dei centri urbani rientra nel pacchetto “legge e ordine” che, insieme alla promessa di una rapida ripresa economica dalla crisi dovuta alla pandemia, è il pilastro del suo programma per la rielezione. In questo modo Trump cerca di cavalcare le proteste, ravvivando di proposito lo scontro tra i governatori (quasi sempre democratici) “incapaci di gestirle” e il governo federale. Gli “anarchici fuori controllo di Portland” sono diventati il bersaglio ideale di questa operazione mediatica e di eliminazione delle opposizioni. Una scelta che ha un potenziale esplosivo a causa della peculiarità dell’Oregon.
Meno del 2% della popolazione dello Stato, secondo il censimento del 2019, è composto da neri. L’Oregon ha ancora una tradizione di razzismo radicato: un secolo fa contava il maggior numero di iscritti al Ku Klux Klan per abitanti, e gli ultimi articoli discriminatori sugli afroamericani sono stati aboliti dalla sua Costituzione solo nel 2002. Questo passato si scontra con la sua principale città, Portland, che sente molto l’influenza culturale della vicina Seattle ed è diventata negli ultimi anni un magnete per i movimenti di sinistra e le battaglie sui diritti civili. Anche contro Trump: i primi gruppi di Portland’s Resistance (Pr) sono nati proprio nel 2016 “in risposta alla sua elezione” e per “accendere un faro sul crescente nazionalismo bianco, i crimini d’odio e le diseguaglianze sociali”. Questi gruppi si confrontano spesso in città con l’estrema destra dell’hinterland; democratici come la politica locale Cynthia Castro pensano sia “molto probabile” che nelle proteste gli estremisti di destra possano camuffarsi da agenti con tute mimetiche generiche, mischiandosi tra le forze federali: paramilitari che aiuterebbero la Casa Bianca a reprimere, come nelle peggiori dittature, gli elementi di disturbo.
Si discute molto, in questa estate, sulla stampa statunitense del “fascismo di Trump” e della sua sua deriva “dittatoriale”. Dopo l’omicidio di George Floyd il 25 maggio scorso anche diversi agenti di polizia hanno mostrato il loro sostegno a Blm; in un altro video da Portland, diventato virale, il veterano della marina Christopher David va incontro ad alcuni poliziotti intimando loro di “rispettare il giuramento sulla Costituzione”, ricevendo in risposta diverse manganellate. Mentre i dimostranti, di ogni generazione e credo politico, aumentano ogni notte nella città dell’Oregon e in molte altre in tutti gli Stati Uniti, l’Economist ricorda il “potenziale elettrico” di Portland, diventata la “frontiera” dove Trump ha spostato la guerra ai nemici interni.
L’autoritarismo del Presidente degli Stati Uniti è una spia della sua debolezza, ma la battaglia per l’identità democratica del Paese e dei diritti di tutti i suoi cittadini, nella quotidianità e non solo nella Costituzione, è ancora in bilico. Come dimostrano i sondaggi, un secondo mandato di Donald Trump è ancora possibile, aizzando l’odio e manipolando gli elettori più confusi. Quello che succederà a Portland nelle prossime settimane sarà decisivo nel decidere i risultati del prossimo 3 novembre.