Su Pornhub vengono pubblicati video senza consenso e con minori. Come e peggio del revenge porn. - THE VISION

Un recente articolo del New York Times a firma di Nicholas Kristof ha riaperto il dibattito sul tema dei siti di pornografia online. Il pezzo accusa PornHub – che, come YouTube, consente agli utenti di caricare i propri contenuti – di essere infestato da video di stupri e di monetizzare violenze sui minori, revenge porn e spy cam (telecamere nascoste in docce e spogliatoi), oltre a contenuti razzisti, misogini e violenti. Se è vero che dei 100mila video che vengono caricati quando si digitano parole chiave che si riferiscono alla minore età non rappresentano vere violenze su minori, molti altri lo fanno: in alcuni casi si è riusciti a risalire agli assalitori, mentre PornHub sfugge alla responsabilità di diffondere quei video e trarvi profitto. Il sito – ufficialmente a seguito di una revisione interna in corso da mesi, ma di fatto proprio dopo l’uscita dell’articolo di Kristof, che ha anche fatto aumentare le pressioni sui partner commerciali di PornHub, come Visa e Mastercard – ha annunciato nuove politiche per vigilare sui contenuti non consensuali. Ma il problema è complesso e, soprattutto, estremamente vasto.

Stando alla dichiarazione dell’azienda, la piattaforma non accetterà più contenuti caricati da utenti non identificati, nel 2021 pubblicherà il suo primo rapporto sulla trasparenza e si impegnerà a moderare i contenuti tramite un nuovo “Red Team” che passerà in rassegna quelli già caricati in cerca di eventuali violazioni, bloccandone il download. Kristof ha commentato su Twitter i cambiamenti annunciati: “Molto dipende da quanto responsabilmente PornHub li implementerà e non si è guadagnato affatto la mia fiducia, ma questi passi sembrano significativi”. Se dovessero essere applicati con serietà, i provvedimenti descritti avranno un grande impatto, ma per ora suonano ipocrite affermazioni quali “In PornHub niente è più importante della sicurezza della nostra comunità […] per questo ci siamo sempre impegnati per eliminare contenuti illegali, compresi materiali non consensuali e di abuso di minori”.

Valori come inclusività, privacy e libertà d’espressione, infatti, finora non sono stati affatto messi in pratica da PornHub, che pure si è creata un’immagine moderna e inclusiva anche attraverso donazioni a organizzazioni impegnate contro le discriminazioni razziali. Dietro a questa facciata positiva, tra i 6 milioni abbondanti di video caricati ogni anno sul sito ce ne sono diversi che rappresentano abusi su minori, violenza non consensuale o materiale caricato senza l’approvazione dei diretti interessati; come racconta la testimonianza raccolta da Kristof da parte di una giovane la cui vita è stata stravolta dai video intimi da lei inviati al ragazzo per cui aveva una cotta da adolescente, diffusi online a sua insaputa. Il copione non è nuovo: il ragazzo riceve del materiale personale e lo pubblica online o lo gira, nelle emblematiche “chat del calcetto” (e loro varianti), ad amici, i quali a loro volta li caricano sulle piattaforme. E continuano a farlo: il problema non è risolto e continua a realizzare il suo strascico di conseguenze.

Purtroppo non sempre c’è la garanzia che tutto si svolga alla luce del sole e nel pieno rispetto dei diritti di tutti i coinvolti, nemmeno nel caso di video professionali girati da produttori e performer stipendiati; i problemi vanno dalle paghe infime alla somministrazione di droghe e farmaci per aumentare le prestazioni, alla diffusione di video senza la notifica e il consenso dei diretti interessati. Successe all’attrice e regista francese Ovidie, che decise di denunciare il marcio che si nasconde dietro alcuni video proprio dopo aver scoperto che alcuni filmati pornografici da lei girati erano stati ceduti a siti terzi, senza che lei ne fosse stata avvertita. Rimanendo, per di più, tagliata fuori dai guadagni. Così nel 2017 nacque il documentario Pornocracy, che indaga gli aspetti più cupi di un’industria quasi interamente monopolizzata dal gigante MindGeek, una società privata – la cui storia è stata ben sintetizzata dal Post qualche anno fa – con sede legale in Lussemburgo (scelta probabilmente influenzata dall’entità delle tasse) che raccoglie più di 100 tra siti, marchi e case di produzione; tra questi i più noti sono PornHub, YouPorn, Thumbzilla, Brazzers e GayTube, i cui meccanismi sono tutti simili.

Secondo Ovidie il settore ha iniziato a diventare quello che oggi conosciamo nel 2006, con il lancio di YouPorn: con il tracollo dell’industria dei dvd le paghe delle attrici crollarono dai circa 3mila ai 600 dollari a scena. La diffusione incontrollata e i salari sempre più bassi portarono a spostare l’asticella sempre più in alto, per emergere nella competizione e riuscirsi a ritagliare la propria nicchia di mercato: così si sono diffusi contenuti non di rado violenti e umilianti per la parte femminile, anche nei termini utilizzati nei titoli e nelle descrizioni dei filmati. Verbi come “punire”, “distruggere” e “sfondare” non sono infrequenti e la normalizzazione di espressioni quali rape (stupro) può dirsi ampiamente avvenuta.

A livello di pratiche sessuali rappresentate e di condizioni di lavoro dei (e soprattutto delle) performer, il cambiamento non è stato repentino: un generale degrado di questi aspetti emergeva già all’inizio degli anni Duemila grazie a un reportage realizzato dallo scrittore Martin Amis sull’industria statunitense dei film porno. Le novità più crude hanno trovato poi spazio per diffondersi con il boom delle piattaforme di tipo “tube”, nelle quali oggi l’88% dei video contiene sequenze di soffocamento, strozzamento e sculacciate. Questo non implica condannare queste pratiche – laddove ci sono consenso e piacere di tutti i coinvolti ogni fantasia può essere messa in pratica in sicurezza – ma se questo approccio nelle piattaforme del porno mainstream è praticamente l’unico – e lascia ben poco spazio ad altre espressioni di erotismo – ci si dovrebbe porre quantomeno qualche domanda.

Martin Amis

Ovidie rileva un ulteriore aspetto: “Le attrici di oggi sono cresciute col porno, ne hanno subito l’influenza e così oggi accettano pratiche che la maggior parte dei produttori non avrebbe mai osato proporre prima”. Una di loro aveva raccontato ad Amis: “Prima del video mi avevano detto – e l’avevano detto con grande orgoglio, bada bene – che in questa serie la maggior parte delle ragazze si mette a piangere perché gli fanno molto male. Io non riuscivo neppure a respirare. Mi hanno picchiata, soffocata. […] A un certo punto nel film si sente la mia voce che dice: ‘Spegni quella cazzo di videocamera’, ma loro sono andati avanti”. E così questi video possono passare tra le maglie delle verifiche – che negli ultimi anni MindGeek avrebbe intensificato, ma senza dichiarare quanti sono i suoi moderatori (secondo un testimone appena 80 in tutto il mondo). Evidentemente un numero non sufficiente, a giudicare dai fatti, a rimuovere tutti i contenuti che rientrano nella lista dei non autorizzati. Come ha sintetizzato un ex dipendente: “L’obiettivo di un moderatore dei contenuti è di far passare il più possibile”, senza andare troppo per il sottile sulla natura del materiale, che non di rado è pubblicato contro la volontà degli interessati: secondo uno studio del 2016, infatti, negli Stati Uniti una persona su 25 ha una sua immagine o un video privato pubblicato in rete senza il suo consenso. Già nel recente passato PornHub aveva provato a fronteggiare il problema – ad esempio attraverso moduli con cui gli utenti possono chiedere la rimozione dei contenuti – ma senza troppa convinzione. Il cambiamento annunciato dopo la pubblicazione dell’articolo di Kristof è decisamente più radicale e potrebbe avere un grosso impatto se dovesse tradursi in pratica: è necessario impedire la diffusione di materiali che testimoniano abusi su minori, casi di revenge porn e altri reati, di cui vanno individuati i responsabili da un lato e su cui vanno chiarite, dall’altro, le responsabilità penali e legali della piattaforma che quei video ospita e da cui guadagna.

Fino a oggi, infatti, per i siti porno non era particolarmente rischioso ospitare contenuti illegali, grazie alle stesse protezioni dei social, garantite negli Stati Uniti dalla Sezione 230 del Communications Decency Act, secondo cui le piattaforme online non hanno responsabilità sui contenuti caricati dai loro utenti. Agli inizi dell’era di Internet, questo fu un importante strumento di liberalizzazione e di incentivo alla crescita e agli investimenti sulle realtà online, ma oggi questa libertà non può scontrarsi con la necessaria moderazione dei contenuti, che devono essere verificati in termini di legalità: per questo, ad esempio, alcuni social hanno cominciato a bloccare fake news e contenuti che inneggiano all’anoressia, che pure trovano altri modi per diffondersi. Se, ad esempio, PornHub non poteva essere ritenuto responsabile di aver pubblicato video della serie prodotta da GirlsDoPorn – impresa legale, che però si scoprì proporre contenuti pubblicati senza il consenso delle donne coinvolte – lo era però di non aver rimosso immediatamente i contenuti appena il problema era emerso. Quando il tribunale chiarì la situazione PornHub oscurò il canale di GirlsDoPorn sulla propria piattaforma, eppure non tutti i video furono rimossi.

Il cambiamento, ora, potrebbe essere molto più incisivo e inaugurare un dibattito che, una volta risolti i nodi delle responsabilità relative al controllo dei contenuti, sarebbe auspicabile riguardasse anche le problematicità dell’offerta di porno in senso più ampio. Le compagnie di produzione professionali – che richiedono prove della maggiore età, autorizzazioni e firme per il consenso, hanno responsabilità verso la salute (fisica e psicologica) dei performer e fanno firmare contratti specifici – al momento non sono in grado di competere con giganti come PornHub e XVideos, su cui si trovano tanti contenuti che non rispettano in alcun modo questi vincoli lavorativi. Le regole da rispettare – dal contratto alla liberatoria per la diffusione e vendita dei materiali, dal divieto di coinvolgere minorenni alla prescrizione di regolari esami medici – hanno un costo, anche in termini di burocrazia; di conseguenza, bisogna avere un margine di guadagno, che prima dell’avvento dei siti sul modello di YouPorn era diretto e stabile, ma si è ridotto con il moltiplicarsi delle piattaforme ad accesso libero.

Ora i siti competono tra loro a colpi di banner e pubblicità per attrarre gli utenti verso i contenuti premium, dal download illimitato alle livecam fino alle esclusive sui nuovi materiali. Di fatto, come sottolinea una performer, quando gli utenti guardano contenuti sui siti di tipo “tube” condivisi da utenti non identificati, il performer non guadagna niente, a guadagnare è la compagnia che sta dietro tutti questi siti: molto spesso MindGeek, avendo il monopolio dei siti aggregatori di contenuti, costringe nella pratica i membri dell’industria alla condizione paradossale di lavorare per la stessa società che trae profitto dalla pirateria del loro lavoro. Come spiega il giornalista e scrittore David Auerbach, il predominio di MindGeek dovrebbe essere preso come esempio dei pericoli dell’accorpamento di produzione e distribuzione nelle mani di un singolo proprietario.

Uno studio ha valutato PornHub come la terza azienda tech del Ventunesimo secolo per impatto sulla società: se la sua influenza sul nostro modo di vivere la sessualità e i rapporti tra i sessi è proporzionata anche solo a un briciolo della sua pervasività, c’è da chiedersi cosa racconti della nostra società e degli individui che siamo. Per il momento, è necessario che anche MindGeek risponda alla legge: l’opinione pubblica deve informata sugli interessi che si nascondono dietro lo schermo, per poter pretendere da questi giganti dell’online la necessaria trasparenza.

Che sia la pornografia online a influenzare la nostra società o che ne sia lo specchio, dobbiamo parlarne e metterlo in discussione, superando tabù anacronistici, perché è in quello spazio che possono realizzarsi i peggiori risultati dell’incontro tra una mancanza di educazione all’uso di internet e l’assenza dell’educazione a una sessualità consapevole, rispettosa e consensuale. Come stiamo lentamente imparando a informarci sull’impatto di quel che mettiamo nel piatto e a chiederci cosa si nasconde dietro una t-shirt venduta a pochi euro, è ora di imparare a fare lo stesso anche con quel che guardiamo e di diffondere questa consapevolezza.

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