Le forze di polizia USA sono piene di suprematisti ed estremisti di destra. Uccidono innocenti per razzismo.
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Non è passato molto tempo da quando la brutalità del razzismo endemico nella polizia statunitense si è manifestata contro persone come George Floyd e Breonna Taylor. I tre mesi di proteste e ribellioni che sono seguiti a questi avvenimenti non hanno però fermato la violenza della polizia che, a Kenosha, nel Wisconsin, ha colpito Jacob Blake con sette colpi di pistola alla schiena. Blake non è morto, ma quei colpi lo hanno portato alla paralisi

Quindi, di nuovo, le persone si sono riversate nelle strade per protestare contro l’ennesima ingiustizia e ribadire che le vite delle persone nere contano. Le manifestazioni, però, sono state interrotte da un altro avvenimento. Kyle Rittenhouse, un diciassettenne suprematista bianco dell’Illinois, ha raggiunto Kenosha, in Wisconsin, con un’arma semiautomatica e si è unito a un gruppo di vigilantes suprematisti che si occupavano di “aiutare la polizia” nel contrasto alle proteste per Blake. La sera del 28 agosto, Rittenhouse ha ucciso due manifestanti per poi scappare verso la polizia che, di tutta risposta, è rimasta indifferente, pur trovandosi di fronte a un giovane che camminava indisturbato con un’arma da guerra. Ma questo non è un caso: Rittenhouse, prima dell’omicidio, è stato visto parlare con gli agenti di polizia che, tra le altre cose, parlando con i vigilantes sembrano incoraggiarli e apprezzare il loro supporto. Il giorno dopo Rittenhouse è stato arrestato per omicidio di primo grado, ma questo episodio non ha fatto altro che animare le proteste e l’opinione pubblica ancora di più per due motivi. Il primo è perché tra alt-right, gruppi neonazisti e polizia c’è una relazione ampiamente analizzata dall’FBI, come è stato riportato dal rapporto del Brennan Center for Justice. Nel rapporto emerge come ogni riforma inerente al sistema di polizia, effettuata tramite un inasprimento di leggi (il cosiddetto law enforcement), tuteli e protegga quest’ultima a discapito dei cittadini, specie se non bianchi. A ciò si aggiunge – ed è questo uno dei problemi più difficili da estirpare – una grande presenza di poliziotti affiliati a gruppi di neonazisti e al Ku Klux Klan. Nel 2017, viene spiegato nel rapporto, l’FBI ha infatti affermato che il terrorismo della supremazia bianca è una minaccia letale che persiste almeno dal 2000.

La marcia “Unite the Right”, Charlottesville, Virginia, 2017

Alabama, California, Connecticut, Florida, Illinois, Louisiana, Michigan, Nebraska, Oklahoma, Oregon, Texas, Virginia, Washington, West Virginia, sono solo alcuni degli stati in cui infiltrati suprematisti sono stati scoperti all’interno del sistema di polizia. Nel 2019, in un’indagine sulla dogana statunitense per il controllo delle frontiere, il Border Patrol, ha rivelato che 62 agenti, tra cui il responsabile, facevano parte di un gruppo Facebook segreto in cui ci si scambiava materiale misogino e razzista. In tutti questi anni gli agenti del Border Patrol si sono resi responsabili di attività illegali e violenze, ma non è stato preso ancora nessun provvedimento. Nel rapporto si sottolinea come il Dipartimento di Giustizia statunitense non dia priorità alle indagini inerenti al suprematismo e al terrorismo bianco, oltre che ai crimini a esso connessi: il 96% delle indagini dell’FBI sulle violazioni dei diritti civili messe in atto dalla polizia dal 1995 al 2015 sono state accantonate, declinando oltre 12.700 denunce. Proprio a causa di questa noncuranza, mancano ancora molti dati inerenti al comportamento razzista della polizia.

ll rapporto evidenzia come l’FBI abbia iniziato ad analizzare la brutalità della polizia solo grazie al movimento Black Lives Matter e alle varie associazioni che hanno protestato, e continuano a farlo, per ottenere un’analisi rigorosa e la criminalizzazione dei poliziotti coinvolti in atti di violenza nei confronti di persone nere. Questa negligenza del Dipartimento di Giustizia, sempre secondo il rapporto, è la conseguenza del fatto che per incriminare i membri delle forze dell’ordine, non basta dire che l’uso eccessivo della forza abbia avuto come conseguenza la privazione dei diritti civili delle vittime. Secondo la legge che riguarda la privazione dei diritti civili da parte delle forze dell’ordine (18 U.S. Code § 242. Deprivation of rights under color of law), i procuratori federali devono provare non solo l’utilizzo eccessivo della forza, ma che in quell’azione vi è anche l’intenzione di violare i diritti costituzionali delle vittime. “Provare l’intenzione” è praticamente impossibile e risulta così molto difficile incriminare le forze dell’ordine, anche se è evidente che questa privazione di diritti avviene ogni volta che un poliziotto diventa il giudice e l’assassino di una persona afroamericana. Le violenze della polizia continuano quindi a essere perpetrate nella certezza che raramente a esse seguiranno conseguenze di tipo penale, ed è grave e contro ogni diritto umano basilare che un intero sistema sia basato sull’omertà e su un razzismo evidente che non vede le persone che fanno parte di minoranze etniche come soggetti con dei diritti. 

Jennifer Carlson, professoressa di Sociologia dell’Università dell’Arizona, studiando il ruolo delle armi nella brutalità della polizia, ha spiegato nel suo libro Policing the Second Amendment come quest’ultima adotti un comportamento diverso con i cittadini. Ad esempio, se i cittadini neri possiedono armi, questi ultimi vengono considerati come una minaccia e membri di gang; al contrario, se si tratta di cittadini bianchi, vengono visti come patrioti e protettori dei cittadini. Questa questione riguarda quindi una realtà molto ampia e diffusa, legata alla difesa di uno status quo basato sul suprematismo bianco dell’intera società statunitense – protetto e difeso dalla polizia stessa che, a questo punto, non sembra diversa dalle milizie o dai vigilantes neonazisti che vi sono infiltrati, come due facce della stessa medaglia.

In secondo luogo, si parla di terrorismo solo quando si tratta di persone di etnia o di religione differente, mai per chi è bianco, anche se si comporta in modo apertamente razzista. In questo caso, il privilegio bianco di Kyle Rittenhouse è stato reso evidente proprio dalla noncuranza della polizia che non fa domande, né ferma un ragazzo che se ne va in giro con l’AR-15 che poco prima ha utilizzato per uccidere due manifestanti. In un articolo del Guardian, in cui vengono riportate le parole di Jacob Blake Sr, padre di Jacob Blake (Jr), si parla proprio della differenza del sistema poliziesco applicato ai cittadini statunitensi: uno viene definito come white system, il secondo come black system ed è proprio all’interno di quest’ultimo che viene esercitato il massimo della violenza – come ad esempio sette colpi di pistola sparati alla schiena.

La polizia, specie con i cittadini e le cittadine neri, si fa giudice e boia, condannandoli a morte in modo automatico, a causa di profonde discriminazioni e pregiudizi, come è stato ampiamente dimostrato anche dal rapporto Police Violence Against Afro-descendants in the United States della Commissione Interamericana per i Diritti Umani. Rittenhouse, invece, dopo aver ucciso due persone è riuscito persino a tornarsene in Illinois, da dove era venuto non per “proteggere le case dai saccheggi” o dal “vandalismo” dei manifestanti ma, come ha affermato il conduttore televisivo e giornalista Trevor Noah, “per sperare di uccidere qualcuno”. Noah prosegue dicendo che quello che è avvenuto con Rittenhouse è ancora più illuminante per capire la società strutturalmente razzista statunitense: Kyle Rittenhouse, così come Dylann Roof – sostenitore del KKK, che nel 2015 ha ucciso nove persone nere in una chiesa – sono stati trattati come esseri umani, con il diritto di essere giudicati davanti alla legge in seguito a un’indagine; Jacob Blake – così come George Floyd, Trayvon Martin o Breonna Taylor – no. Il colore della pelle è già una minaccia sufficiente a sancire la colpevolezza dell’individuo, che lo disumanizza.

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui le proteste, di pari passo alle disuguaglianze sociali che affliggono le minoranze etniche, non si arrestano. Le manifestazioni assumono forme diverse e possono essere pacifiche o meno pacifiche, e queste ultime vengono regolarmente dipinte dalle testate giornalistiche come atti di terrorismo o delinquenza. Questa convinzione si è ulteriormente radicalizzata con la morte di un militante di estrema destra a Portland. Cosa che è stata assunta come pretesto per dire che sia il movimento BLM che i neonazisti sono due facce della stessa  medaglia.

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Dylann Roof

Questo è l’atteggiamento di chi pensa di  trovarsi in una posizione ragionevole e super partes, senza rendersi conto che è proprio questo atteggiamento che si pone, al contrario, dalla parte di chi opprime. Non si possono mettere sullo stesso piano persone che sullo stesso piano non sono: da una parte c’è chi lotta giornalmente contro un sistema strutturalmente razzista e classista, dall’altra chi lotta affinché questo sistema venga mantenuto. Se si arriva alla “protesta violenta” è perché non c’è mai stata alcuna alternativa, né una risposta efficace e coerente alle richieste di chi protesta da anni per le stesse, enormi, ingiustizie. Come ha spiegato il giornalista e sociologo del Guardian Gary Younge: “Quali sono state le risposte alle proteste pacifiche? […] Non penso che scrivere a ‘tal persona del congresso’ sistemerà le cose, quindi questa violenza [delle proteste] è la risposta alla violenza [del sistema stesso]”. Senza parlare poi di chi tira fuori la “non violenza” di Martin Luther King a proprio piacimento per criticare le proteste dei movimenti antirazzisti, dimenticando che King affermava come il “moderato bianco che è più devoto all’ordine che alla giustizia” fosse un ostacolo per la realizzazione di quella società in cui il razzismo strutturale fosse totalmente distrutto. Gli slogan “abolish the police” (abolite la polizia) o “defund the police” (togliete i finanziamenti alla polizia) o ancora “no justice no peace” (niente giustizia, niente pace) sono chiari e vogliono mettere in evidenza un problema che viene ignorato da troppo tempo.

Letetra Widman, sorella di Jacob Blake, durante una conferenza ha affermato di non voler alcuna compassione, ma di voler vedere invece un cambiamento radicale. Questo è ciò che viene chiesto da chi rischia quotidianamente la vita e subisce fin dalla nascita questo razzismo strutturale, e da tutti coloro che si sono uniti e che si uniscono, indipendentemente dalla loro etnia, alle proteste di questi mesi, e che urlano con tutta la forza che hanno in corpo che fin quando non ci sarà una trasformazione radicale della società non vi sarà né giustizia, né pace.

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