Non c’è nessuna dittatura del politicamente corretto. C’è poca satira intelligente, e troppa idiozia.

Giusto qualche settimana fa ci siamo ritrovati di fronte a uno di quegli scenari che anche con un incredibile sforzo non sarebbe facile immaginarsi, ossia un dibattito a proposito del colore della pelle del nostro ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio. Non credo che se anche solo dieci anni fa qualcuno con la macchina del tempo ci avesse detto che nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia, con una crisi economica alle porte, un cambiamento climatico in atto l’argomento di conversazione – anche d’oltreoceano – per diversi giorni sarebbe stato un ministro che condivide dei fotomontaggi del suo volto molto abbronzato come fosse una sorta di blackface ci avremmo creduto, ma tant’è. Per quanto grottesco e ridicolo possa essere il fatto che una figura pubblica e istituzionale reputi una buona idea utilizzare i propri canali social ufficiali per diffondere dei simpatici meme a sfondo razzista – non dimentichiamo Giorgia Meloni che approva e strumentalizza “Io sono Giorgia” – non arriva comunque alla bassezza umoristica, se così la possiamo definire, di chi continua a farlo all’indomani di un omicidio gravissimo e disumano che coinvolge proprio un ragazzo di colore. Le più belle frasi di Osho, pagina “satirica” che conta oltre un milione di like su Facebook, ha infatti usato il volto di Di Maio abbronzato per foto-montarlo sul corpo della donna di origini congolesi che ha aggredito Matteo Salvini a Pontassieve strattonandolo, e così sbottonandogli la camicia e strappandogli il rosario. All’indomani di una vicenda terrificante come quella dell’uccisione di Willy Monteiro Duarte, in cui è sicuramente presente anche una forte connotazione razzista, una pagina con un seguito enorme pensa che scherzare ancora sull’abbronzatura di Luigi Di Maio sia non solo divertente, ma anche segno di grande acume umoristico. Come se non bastasse, lo stesso giorno in un altro meme ha anche postato una foto di Salvini che accarezza una bambina di colore con la didascalia “Morde?”.

Matteo Salvini

Le più belle frasi di Osho, così come molte altre realtà di intrattenimento online, televisivo e cartaceo, sono un chiaro esempio di quella linea contemporanea di pensiero che si fregia di andare contro il mostro del politicamente corretto, ossia tutto quel filone di buonisti, perbenisti e censori che si indignano di fronte a una battuta: “E fattela una risata!”. Un’espressione, “politicamente corretto”, che negli anni ha distorto il suo significato, diventando oggi il centro di un dibattito articolato che comprende non pochi fraintendimenti. Fino a un certo momento, infatti, con politicamente corretto si intendeva un modo bigotto, conservatore e sostanzialmente democristiano di intendere il discorso pubblico; Pippo Baudo era politicamente corretto, per intenderci. Con l’arrivo dei social e di internet il mondo è cambiato e con lui anche la percezione delle minoranze, delle categorie che fino a questo momento erano rimaste escluse dalla narrazione dominante per non dire umiliate, come nel caso del genere femminile utilizzato in televisione come mero accessorio da Drive In. Tutto ciò ha portato a un inevitabile spostamento di significato rispetto a ciò che un tempo voleva dire censurare e ciò che oggi invece significa mediare, trattare con più attenzione, includere. Ma la complessità del discorso sul politicamente corretto è particolarmente insidiosa perché si nutre al contempo delle sue debolezze e i confini non sono mai così netti, anzi, sono spesso molto sfumati, al punto da far sentire ognuno di noi in accordo o in disaccordo con l’opinione non tanto in base al proprio schieramento ma semmai in base all’oggetto in discussione. Per fare un esempio: conosco molte persone – me compresa – che si ritengono femministe e progressiste, che credono che la questione che riguarda Woody Allen sia stata spesso semplificata con superficialità, ma ciò non vuol dire che gettino il Me Too in toto nel cassonetto dell’indifferenziata.

Pippo Baudo

Si tratta di un argomento scivoloso e pieno di insidie, dal momento che – come tutti gli argomenti complessi che non si possono riassumere in un solo concetto – ci mette di fronte alla più classica delle armi a doppio taglio. Distinguere tra bigottismo e rispetto per una categoria che in un certo momento storico non è stata tenuta in conto è fondamentale, così come vietare qualsiasi forma di scherzo su un tema delicato può rivelarsi anche controproducente; solo che, se una sana dose di autoironia consente a tutti di vivere meglio e di comprendersi meglio, celare la propria incapacità di fare buona satira dietro a un umorismo di pessima qualità che sfrutta cliché e altre bassezze è solo scadente. In altre parole, chi si occupa di comicità – categoria più colpita dalla vexata quaestio “Non si può più dire nulla” – dovrebbe tenere ben chiaro in mente che una scrittura ben fatta, articolata e ponderata si basa non tanto sullo snocciolare insulti a caso, ma sul sollevare una riflessione profonda anche su temi difficili attraverso il divertimento.

Quando Elio Vittorini scrisse Conversazione in Sicilia, per esempio, la censura fascista era il pane quotidiano degli intellettuali dissidenti, e fu proprio la sua enorme capacità creativa a mettersi in gioco per fare sì che quel romanzo diventasse un capolavoro: gli “astratti furori” non sono altro che il frutto della mente di uno scrittore che se trova un ostacolo davanti si ingegna per aggirarlo. Il politicamente corretto che viene tirato in ballo oggi non è né una dittatura né un regime che impone una censura ma semplicemente, in alcuni casi, una richiesta di sforzo per chiunque voglia creare qualcosa che vada oltre agli schemi basilari della comunicazione. Si tratta in sostanza di dire: i tempi stanno cambiando, alziamo l’asticella.

Elio Vittorini parla con Arnoldo Mondadori, 1957

Dall’altro lato però, è vero che in molte occasioni questo atteggiamento di condanna e indignazione non rispecchia una banale esigenza di sforzo da parte degli altri per oltrepassare luoghi comuni e modi di intendere il prossimo obsoleti e inutilmente offensivi, ma una sorta di tattica di attacco. Per intenderci, ciò che viene definito cancel culture e di cui si è parlato molto nell’ultimo anno, anche per via della lettera firmata da molti intellettuali e scrittori anche di grande rilievo e spessore, è una pratica che, sarebbe controproducente negarlo, esiste ed esiste specificatamente su internet. Se la lettera degli intellettuali, le lamentele di personaggi dello spettacolo, scrittori, registi dimostrano una certa superficialità di interpretazione delle nuove istanze proposte dalla contemporaneità, traducendo tutto con un banale “Non si può più dire nulla” – cosa non vera, dal momento che nella maggior parte dei casi chi è in una posizione di potere, nonostante le controversie, rimane in una posizione di potere è purtroppo può dire tutto ciò che gli passa per la testa senza alcun pudore – dall’altro lato esiste una cultura della cancellazione che ha dei modi di azione precisi e determinati. Per capire di cosa si parla ci sono diversi esempi di messa in atto della cancel culture – che ripeto, non è “la dittatura del politicamente corretto” di cui si lamenta prima di tutto la destra, in un Paese in cui Vittorio Sgarbi va ancora in Tv – uno su tutti è quello raccontato in modo esemplare da Natalie Wynn sul suo canale YouTube ContraPoints.

Vittorio Sgarbi

La storia di Natalie Wynn, parte attiva di ciò che viene definito “BreadTube”, area di divulgazione progressista e socialista di YouTube, è interessante perché dimostra qual è in effetti il punto centrale di questa ossessione per ciò che si può e non si può dire. Wynn è infatti una donna transgender che si occupa di moltissimi temi sul suo canale e in un video di quasi un’ora sul concetto di opulenza nella cultura americana ha coinvolto, per ospitare una voce fuori dal coro, un personaggio che nella comunità transgender americana viene considerato controverso per una serie di ragioni. Questa sua scelta le è costata un tornado di cancelling, appunto, ossia un’operazione mirata da parte degli utenti di Twitter, che fanno parte peraltro della sua stessa comunità, area atta a eliminare la sua presenza dal web perché ritenuta indegna, un cattivo esempio, una “nemica”. Come evidenzia Wynn, il processo di cancellamento di qualcuno su internet avviene attraverso diverse fasi: presunzione di colpa, astrazione, essenzialismo, pseudo-moralismo o pseudo-intellettualismo, nessun perdono, proprietà transitiva della cancellazione, dualismo. Nonostante la comunità di riferimento di una donna trans sia a tutti gli effetti una minoranza discriminata, nel momento in cui si percepisce una crepa sulla presunta “moralità” da rispettare, la soluzione diventa la vendetta immediata piuttosto che il ragionamento. Perché tutto questo? Perché fondamentalmente a noi esseri umani vedere una testa mozzata sulla ghigliottina piace. E qua arriviamo al punto centrale della questione.

So bene quanto sia perverso cercare di scoprire qualcosa in più sulla vita privata di assassini conclamati come i fratelli Bianchi, ma sarei ipocrita se dicessi di essere immune a questo tipo di curiosità. Guardando il profilo Instagram di uno dei due assassini di Colleferro, stracolmo di fotografie che ostentavano soldi, potere e cattivo gusto in un codice estetico a metà tra il camorrista e il tronista di Uomini e Donne, non sono rimasta colpita tanto dalle immagini – che erano esattamente ciò che mi aspettavo – ma dalla quantità di commenti sotto a ogni foto che inneggiavano alla morte, al cancro, alla sciagura per l’intera famiglia, alla violenza in carcere e anche, molto di frequente, alla sua omosessualità o al fatto che fosse “zingaro”. La mole di insulti e maledizioni lanciate sotto forma di commento sono un manifesto di ciò che vuol dire il presente: se prima il commento a qualcosa, l’opinione personale rimanevano entità orali e fugaci, chiacchiere da bar, oggi tutto ciò resta scritto e leggere questo fiume di odio fa in effetti una certa impressione, nonostante il personaggio lo richiami.

Natalie Wynn

Se avessi scritto un articolo controverso su un giornale cartaceo nel 2000 le opinioni di chi lo leggeva sarebbero rimaste confinate al luogo in cui venivano espresse, che fosse stato un bar o un salotto televisivo. I social media invece hanno consentito a tutti di mettere nero su bianco il proprio pensiero, che si tratti di una critica costruttiva, un consiglio, un cuoricino di approvazione, un insulto o una maledizione: questo frastuono perenne di polemiche quotidiane, alcune giuste, altre superficiali e inutili, altre violente, altre ancora necessarie è un rumore di sottofondo che ci fa sentire quella spiacevole sensazione del “Non si può più dire nulla”; il punto, semmai, è che si dice troppo. E la cosa più fastidiosa è che, come per tutto, anche le lotte più nobili, che partono anche solo da un semplice hashtag diventano uno strumento di vendita, una scusa per consumare qualcosa, uno svilimento totale di dibattiti che nascono e si espandono grazie ai social e che si trasformano in sterili campagne di marketing per brand che cavalcano le onde dell’indignazione o dell’approvazione, basti pensare a Giulia De Lellis che fino a pochi anni fa andava in Tv a dire che le donne in sovrappeso sono brutte e ora sfila a Venezia in qualità di ambasciatrice di “skin positivity”, qualsiasi cosa significhi.

Non sono io a dover dire cosa offende e cosa diverte una persona, né lo si può decretare dall’alto come fosse un principio induttivo. Negare il fatto che internet abbia amplificato un senso di “chi va là” per qualsiasi argomento vuol dire avere lo sguardo oscurato, allo stesso tempo però usare questa scusa per delegittimare un progresso comunicativo volto anche a prendere atto dei tempi che cambiano è, oltre che scorretto, sterile. Non c’è nessuna dittatura del politicamente corretto in corso e ricordiamo che nel Paese in cui di solito nascono queste polemiche prima di arrivare da noi, gli Stati Uniti, se da un lato si portano avanti iniziative di inclusività per i criteri di valutazione degli Oscar, dall’altro la maggioranza della popolazione vota Donald Trump.

Proprio in questi giorni a Lodi si è tenuto un “Festival del sovranismo” promosso da Fratelli d’Italia in cui sul tema del politicamente corretto, tra i tanti nomi dell’evento tra cui Daniela Santanché e Ignazio La Russa, è intervenuto anche Marco Gervasoni, un professore universitario che usa il suo account Twitter per battute brillanti in cui dà dell’uomo >a Elly Schlein, parla di  affondare la nave Sea Watch – “Sea Watch bum bum” – allontanato, a detta sua proprio per questo, dalla Luiss, e, ancora, dice che Ilaria Cucchi ha usato politicamente l’uccisione di suo fratello e critica Liliana Segre. Insieme a lui, sempre sul tema, si sono espressi anche un ex segretario di Forza Nuova e un editore della casa editrice di Casa Pound; guarda caso a lamentarsi del politicamente corretto sono esponenti di destra a un festival del sovranismo, che rivendicano il proprio diritto a usare i social come un confessionale per battute da spogliatoio nel migliore dei casi o come dispensatore di messaggi razzisti, omofobi, misogini e così via. Piuttosto che lagnarsi di ciò che non si può dire allora, forse sarebbe il caso di impegnarsi a dire meglio le cose, perché c’è sempre una nuova strada da percorrere, sia nella satira che in qualsiasi altro campo, tenendo sempre conto che tra una sfilza di tweet contro di te e una censura c’è una bella differenza.

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