Il 16 luglio la Camera dei Deputati ha approvato in prima istanza la nuova legge “per la promozione e il sostegno alla lettura”. Il testo è il frutto del lavoro bipartisan della Commissione Cultura, che ha visto alleate alcune deputate di formazioni politiche diverse, con Pd e M5S in testa. Le associazioni di categoria che hanno promosso questa legge – gli editori indipendenti dell’Adei e le due principali associazioni di librai – hanno celebrato la votazione sui social definendola “una giornata storica per il mondo del libro in Italia”, nonostante il percorso del testo di legge sia lontano dalla conclusione: nei prossimi mesi dovrà passare al Senato per poi tornare alla Camera. Se nelle fasi di discussione la maggior parte dei parlamentari ha disertato l’aula, la votazione del 16 luglio ha visto una nutrita partecipazione con 406 favorevoli, oltre alle 61 astensioni di Forza Italia.
Tutti gli intervenuti a Montecitorio hanno sottolineato l’importanza della lettura: come ha ricordato Flavia Piccoli Nardelli del Pd, prima firmataria della legge, “non sono solo i meno abbienti quelli che leggono poco: leggono poco anche i professionisti, i capitani d’azienda, le persone che non hanno problemi economici”. All’elenco si è dimenticata di aggiungere i politici, dato che i parlamentari delle ultime due legislature sono i meno istruiti della storia di questo Paese. Se il primo Parlamento nel 1948 era formato per il 91% da laureati, il dato è sceso al 70% dell’attuale legislatura e al 68% di quella precedente. È vero che il titolo di studio non definisce necessariamente la cultura e la preparazione di una persona, ma i continui e ripetuti errori marchiani sì. Gli strafalcioni grammaticali, di storia e adesso anche di biologia dei politici italiani sono ormai diventati quasi un genere letterario a sé. Prima delle elezioni europee si sono rivelate imbarazzanti le conoscenze di geografia europea di alcuni politici tra i più noti d’Italia, come Giorgia Meloni, Carlo Calenda o Alessandra Moretti. Questo declino della preparazione culturale non fa altro che riflettere quello della cultura in atto nel complesso della società italiana. Può una politica di ignoranti salvarci dall’ignoranza?
A differenza dei politici, il mondo dell’editoria non ha offerto un appoggio unilaterale alla nuova legge, spaccandosi in due fronti contrapposti. Da una parte si trovano i piccoli editori, favorevoli al testo di legge che modifica il sistema di sconti che a loro avviso avrebbe favorito Amazon nel diventare il loro principale concorrente. Dall’altra si schiera l’Associazione italiana editori, che raggruppa le più grandi sigle dell’editoria italiana. Fino a oggi, la legge Levi del 2011 – così chiamata dal nome del primo firmatario Ricardo Franco Levi, che oggi presiede proprio l’Aie – ha permesso alle librerie di applicare uno sconto massimo sui libri del 15%, lasciando ampio margine agli editori sulle promozioni stagionali per i loro cataloghi. In questo modo, come hanno sempre sostenuto i piccoli librai, le grandi catene nazionali e le librerie online come Amazon hanno offerto sconti durante tutto l’anno, facendo concorrenza sleale a chi invece non se lo può permettere, perché lo sconto va a intaccare proprio lo scarso margine di vendita che va al libraio.
La nuova legge, per gli editori indipendenti, “finalmente fa giocare tutti alla pari e premia la concorrenza basata sulla competenza e non sul potere o sul monopolio”. Secondo l’Aie, invece, “queste nuove norme si tradurranno in un aggravio di spesa per le famiglie e i consumatori, in un indebolimento della domanda, in una riduzione degli acquisti, in un danno per il mercato”. Ciascuna sigla si concentra soprattutto sui propri interessi particolari, ma nessuno si interroga per trovare una soluzione al fatto che sempre più italiani trascorrono la loro vita senza mai prendere in mano un libro. I lettori diminuiscono anno dopo anno e, se i lettori occasionali sono appena il 41% della popolazione, quelli che leggono abitualmente almeno un libro al mese sono appena il 14% del totale. L’allontanamento dalla lettura è trasversale alle generazioni e, nonostante in media le donne e gli abitanti del Nord Italia leggano più di uomini e abitanti del Sud, il fenomeno riguarda ormai la popolazione italiana nel suo insieme.
Tra i fattori determinanti di questi dati si trova senza dubbio la diffusione delle tecnologie digitali, realtà quotidiana per il 70% della popolazione, con percentuali ancora più alte fra gli under 30. Ma il vero limite alla diffusione della lettura è sempre più spesso la difficoltà nel reperire i libri. I fenomeni speculativi come quelli legati al turismo di massa stanno desertificando il tessuto urbano, creando quartieri e periferie dove è sempre più difficile che una biblioteca o una libreria riesca a sopravvivere.
Negli ultimi 8 anni in Italia hanno chiuso più di duemila librerie e oggi gli italiani che non hanno una libreria sotto casa sono oltre 13 milioni. Il prezzo degli affitti ha comportato, nella sola Roma, la chiusura di oltre 200 esercizi in 10 anni, in larga parte a conduzione familiare. Anche le biblioteche sono sempre meno e assenti dai luoghi strategici della cultura come la scuola. Per il saggista e filosofo Gino Roncaglia, se le biblioteche destinassero fondi all’acquisto di fumetti e graphic novel, romanzi di fantascienza e di intrattenimento, ma anche saggi giornalistici, quotidiani e riviste, potrebbero attirare più facilmente l’interesse dei giovani lettori. Inoltre, i fondi e le ore che oggi vengono impiegati nell’insegnamento della religione dovrebbero essere dedicati alla lettura libera nelle classi, innescando un meccanismo virtuoso che potrebbe rendere le scuole biblioteche pubbliche pomeridiane, centri di aggregazione culturale per accogliere sia gli studenti che gli studiosi adulti.
È proprio la mancanza di luoghi adatti a penalizzare la diffusione dei libri e a trasformare l’Italia in un Paese di ignoranti, che esprime una classe politica al suo livello. Anche se l’Italia è caratterizzata da un ricco programma di festival culturali, fiere dei libri, appuntamenti con autori e autrici, la socialità quotidiana degli abitanti delle città e dei borghi italiani è ancora incentrata sull’offerta gastronomica (abbiamo 42mila sagre l’anno).
La legge sul libro in discussione è definita dai promotori “una legge organica per il libro e la lettura”, ma in realtà non contiene soluzioni organiche che possano incidere sul tessuto culturale del Paese. Le poche misure sono quasi tutte finalizzate a incentivare, più che la lettura, l’acquisto dei libri e in particolare presso le librerie indipendenti, nel tentativo di contrastare la concorrenza di Amazon, che ha appena inaugurato il servizio Amazon Business per vendere libri ai librai stessi. La copertura economica delle iniziative di promozione effettiva della lettura è minima: i fondi principali consistono in un finanziamento di 3,5 milioni di euro al Cepell, il Centro per il libro e la lettura che ogni anno promuove iniziative che coinvolgono scuole, librerie e scrittori in eventi come Il maggio dei libri, un finanziamento del valore di un milione di euro alla card della lettura per combattere “la povertà educativa” e 500mila euro all’annuale istituzione della “Capitale italiana del libro”. In tutto le coperture economiche della legge vanno dai 5 ai 15 milioni di euro. Pochi spiccioli se messi a confronto con Paesi come il Regno Unito, dove la lettura viene incentivata con investimenti di miliardi di sterline, o la Spagna, che nel 2019 ha previsto finanziamenti per 157 milioni di euro. L’esiguità dei finanziamenti salta ancora di più agli occhi se si pensa che il solo autore di bestseller statunitense James Patterson dona, ogni anno, oltre un milione di dollari alle biblioteche scolastiche, una cifra pari a quella investita per lo stesso scopo dal Cepell.
Se il consenso politico attorno a questa legge è stato così unanime è perché, probabilmente, questa non scalfisce alcun equilibrio di potere (se non all’interno delle associazioni di categoria) né economico: la normativa non prevede una strategia strutturata frutto della collaborazione tra il mondo della scuola e dell’Università e i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Interno. Anche se la nostra classe politica sembra averlo dimenticato da tempo, l’ordine pubblico nel lungo periodo si rafforza con la cultura dei cittadini. Il Decreto Sicurezza di Salvini va nella direzione opposta con misure restrittive delle libertà personali che diventano un attacco diretto alla cultura come strumento di integrazione tra le persone, straniere e non. La scuola è infatti il principale strumento di integrazione che ogni individuo, a prescindere dalla nazionalità, ha a disposizione per sentirsi parte della società in cui vive. Chiudere, per fare un esempio, gli Sprar ha significato chiudere scuole per l’insegnamento dell’italiano ai rifugiati e richiedenti asilo. Privare migliaia di giovani stranieri dell’accesso alla cultura, lasciando nello stesso momento senza lavoro molti insegnanti italiani, ha l’effetto di creare muri tra le persone e allontanare dalla lettura sia chi studia che chi insegna. Alla base di scelte simili c’è la stessa filosofia che guida i sindaci di molte città a scoraggiare l’incontro libero fra le persone, in nome di una politica del territorio sempre più finalizzata al controllo istituzionale e al consumo, proprio come accaduto a Roma con la chiusura della Casa internazionale delle donne.
Questo aspetto non è tenuto in considerazione nelle politiche sull’editoria, neanche dalle associazioni che si sono battute per questa nuova legge. Siamo ancora fermi alla convinzione che la diffusione della cultura coincida con gli scaffali delle case pieni di libri, anche se non sono mai stati aperti per consultarli. Ma la loro vendita non è più sinonimo del fatto che si diffondano le parole che custodiscono. Se le persone vengono private della possibilità di incontrarsi e discutere tra loro, i libri rimarranno fermi nelle librerie e nelle biblioteche e la cultura sarà condannata in un limbo sempre più distante dalla vita quotidiana della maggior parte di noi.