Nei suoi ultimi giorni da presidente della Bce nel settembre 2019, Mario Draghi affermava con decisione che era indispensabile accelerare il processo di creazione di un’unione fiscale a livello comunitario, per permettere all’Unione europea di competere con le altre grandi potenze mondiali. Questo progetto sembra ancora più urgente dopo la pubblicazione delle ultime stime della Commissione sui danni economici del Coronavirus. Il prodotto interno lordo della zona Euro si ridurrà del 7,7% nel 2020, e in Italia del 9,5%.
Per rispondere alla crisi Bruxelles sta implementando una serie di strumenti di politica economica che vanno dal fondo Sure per finanziare la cassa integrazione degli Stati Membri, ai finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti, fino a una nuova linea di credito inserita tra le misure del Mes per finanziare le spese sanitarie dirette e indirette dei Paesi membri. Le trattative hanno richiesto tempi lunghi, confronti accesi e anche compromessi al ribasso. Il Recovery Fund con cui la Commissione europea punterebbe a raccogliere risorse sui mercati, utilizzando come garanzia il bilancio europeo, deve essere ancora definito e non vedrà la luce in tempi brevi
Nel frattempo è la Banca centrale europea che fa il possibile per sostenere l’economia dell’Eurozona. Dopo l’indecisione iniziale, Christine Lagarde ha varato il Pandemic Emergency Purchase Program, con cui la Bce acquisterà titoli pubblici e privati per 750 miliardi di euro almeno per tutto il 2020. Come con il programma di quantitative easing lanciato da Mario Draghi nel 2015, gli Stati dell’euro si trovano ancora una volta a basare la loro tenuta economica su misure straordinarie.
L’inadeguatezza della politica economica e la perenne eccezione in cui è costretta la politica monetaria dell’Unione europea costano miliardi di euro l’anno a tutti i suoi cittadini. Le società italiane Fiat Chrysler (Fca), Mediaset e Luxottica producono beni e servizi molto diversi tra loro, ma hanno in comune il Paese europeo dove hanno deciso di stabilire la loro sede legale, i Paesi Bassi. Questo vale per decine di altre multinazionali che operano nel mercato comunitario, permettendo ad Amsterdam di assorbire ogni anno 72 miliardi di euro che non vengono tassati nello Stato europeo dove viene generato il profitto. L’Olanda, insieme all’Irlanda, è uno dei Paesi membri con la legislazione fiscale più favorevole per le holding societarie. Anche se le leggi in materia di governance societaria sono molto efficienti e i tempi dei processi civili più brevi della media europea, il trattamento fiscale di favore sembra comunque rivestire un ruolo di primo piano nella decisione delle società di spostare la propria sede legale nei Paesi Bassi.
La crisi che ci aspetta nei prossimi anni non può più permettere un meccanismo simile. Non si possono sostenere senza critiche le ragioni di un’Europa in cui gli egoismi nazionali finiscono sempre per prevalere sulle ragioni di una vera integrazione comunitaria. È urgente dare vita a una capacità fiscale europea in grado di bilanciare l’asimmetria tra politica monetaria e politica economica. Per farlo gli Stati membri devono rinunciare a una parte del loro controllo fiscale per darlo all’Unione europea, permettendole di riscuotere tasse a livello comunitario e di generare una vera spesa pubblica. La creazione di un potere fiscale è il vero punto di svolta per la creazione di un’unione federale in Europa.
La capacità fiscale è infatti lo strumento principale che hanno i popoli per autodeterminarsi. Da un punto di vista storico, tutte le rivoluzioni moderne sono state alimentate dalla domanda su chi avesse il diritto e l’autorità di riscuotere le tasse. Gli Stati Uniti d’America, per esempio, si sono trasformati da una confederazione di Stati a uno Stato federale con la Costituzione in vigore dal 1789, con la quale venne stabilito il potere del Congresso di imporre tasse, e che dunque la federazione non dipendesse dai singoli Stati per il suo finanziamento.
L’ideale di una federazione europea in grado di consentire ai cittadini di vivere liberi da condizionamenti esterni, economici e politici, passa anche dall’adozione di misure in grado di rafforzare la politica fiscale dell’Unione. Attualmente il bilancio dell’Ue ammonta all’1% del suo prodotto interno lordo e quanto incassato non basta per sostenere una vera spesa pubblica. Qualcosa è però già cambiato con il Recovery Fund, finanziato proprio con un aumento dei versamenti al bilancio di Bruxelles da parte dei singoli Paesi membri.
Lo shock economico che stiamo subendo investe tutte le economie europee e non dipende dalla solidità delle finanze pubbliche dei singoli Stati. Gli economisti lo definiscono “shock simmetrico”, ma i suoi effetti rischiano di essere profondamente asimmetrici. I Paesi con un debito pubblico relativamente basso, come la Germania o l’Olanda, possono infatti sfruttare la sospensione del Patto di Stabilità per rilanciare le loro economie, senza preoccuparsi troppo delle ripercussioni sui mercati internazionali. Questo non vale per Stati come Italia, Grecia, Spagna o Francia, costretti a muoversi con molta più cautela e a convincere gli investitori che le future misure di emergenza non comprometteranno la sostenibilità delle finanze pubbliche.
Per garantire una ripresa più equa serve armonizzare le politiche fiscali dei diversi Stati membri. Si tratta di una misura diversa dalla creazione di un’unica capacità fiscale europea, ma potrebbe comunque portare a risultati incoraggianti, a partire proprio dalle imposte dovute dalle grandi società. Paesi Bassi, Irlanda, Lussemburgo e Malta applicano infatti delle aliquote molto basse per attrarre investimenti esteri, danneggiando gli altri Stati europei e il loro gettito fiscale. Nel concreto, mentre in Italia l’imposta sul reddito delle società si attesta al 24%, in Irlanda le multinazionali sono tenute a versare un’aliquota del 12,5%. L’Olanda, pur mantenendo un’imposizione fiscale formalmente pari al 25%, utilizza altri strumenti, come gli accordi individuali con il fisco, per attirare le grandi multinazionali. Il risultato più evidente è che, per esempio, se si prendono i dati relativi ai bilanci del 2018 di Amazon, Twitter, Google, Airbnb e Tripadvisor, il conto complessivo di quanto versato al fisco italiano non arriva a 15 milioni di euro.
Il dopo Coronavirus è il momento di riformare l’Europa, per attuare politiche in grado di proteggere i suoi cittadini e interessi nel mondo. Già ora le grandi potenze internazionali stanno mettendo in campo tutto il loro soft power per attirare i singoli Stati europei all’interno delle loro sfere di influenza. Come europei abbiamo il dovere e la necessità di dotarci di nuovi strumenti comunitari in grado di superare gli egoismi dei singoli Stati membri. Non possiamo più permetterci la subordinazione dell’Unione europea alla volontà politica dei Paesi più forti e la debolezza che ne deriva.
In gioco c’è la tenuta non solo economica ma anche sociale di una democrazia che riunisce sotto i suoi ideali quasi 450 milioni di cittadini. I sovranisti e la miopia dei governi di molti Stati europei cercheranno di sabotare questo progetto con ogni mezzo, ma dobbiamo avere chiaro che non possiamo più permetterci compromessi. O facciamo l’Europa o tutti noi finiremo per soccombere sotto il peso di tanti piccoli egoismi nazionali.