Lo scorso novembre un soldato dell’esercito israeliano, Yoav Atzmoni, ha postato su Instagram una foto in cui reggeva una bandiera arcobaleno con la scritta “In the name of love” sulle macerie di Gaza. Nella caption, Arzmoni aveva scritto: “Nonostante il dolore della guerra, l’IDF è l’unico esercito in Medio Oriente che difende i valori democratici. È l’unico esercito che consente alle persone gay la libertà di essere chi sono. E quindi credo pienamente nella rettitudine della nostra causa”. La foto è tornata a circolare durante il Pride Month, quando alcune organizzazioni hanno deciso di dare spazio alla Palestina nelle proprie parate con lo slogan: “No Pride in Genocide”, attirandosi le critiche dei sostenitori di Israele, che da anni usano la questione LGBTQ+ per legittimare le politiche di occupazione.
L’operazione di rainbow washing di Israele è cominciata più di vent’anni fa, quando il governo contattò una delle più famose agenzie pubblicitarie americane, Young and Rubicam, per una consulenza di rebranding. L’obiettivo era quello di rendere l’immagine di Israele all’estero meno legata alla religione e all’esercito e più cool e moderna. Oltre a una collaborazione con la rivista per uomini Maxim per un servizio fotografico con le “soldatesse più sexy del mondo” dell’IDF, “in grado di smontare una mitragliatrice in pochi secondi”, nel 2010 il ministero degli Esteri israeliano investì 88 milioni di dollari per lanciare una campagna pubblicitaria in Europa che presentasse Tel Aviv come una destinazione appetibile per il turismo gay e Israele come un Paese LGBTQ+ friendly. Secondo le stime, “Brand Israel” sarebbe costata intorno ai 200 milioni di dollari.
Anche l’IDF ha partecipato al rainbow washing, vantandosi più volte di essere uno degli eserciti più inclusivi al mondo. In effetti, l’IDF ha eliminato il divieto alla coscrizione di persone gay nel 1992, diciotto anni prima degli Stati Uniti, e consente anche alle persone trans di prestare servizio garantendo loro assistenza medica. Tuttavia, la cultura dell’esercito continua a essere ancora fortemente omofoba e il 40% dei soldati appartenenti alla comunità LGBTQ+ dichiara di aver subito abusi verbali a causa del proprio orientamento sessuale, mentre il 20% addirittura avrebbe subito violenze sessuali. Nel 2012 fece discutere una foto postata sui canali ufficiali dell’esercito che ritraeva due soldati che si tenevano per mano, che però secondo il Times of Israel era stata messa in posa e non ritraeva davvero due soldati gay.
“Brand Israel” ha comunque ottenuto i risultati sperati: oggi la convinzione che Israele sia una sorta di oasi per la comunità LGBTQ+ è molto diffusa. Ma a dispetto della facciata sostenuta all’estero, l’omofobia è rampante nel Paese e tra i suoi rappresentanti: secondo il deputato ultraortodosso Yitzhak Pindrus “l’omosessualità è una minaccia più pericolosa di Hamas per Israele”; uno degli alleati di Netanyahu, il capo del partito di estrema destra Noam Avi Maoz definito dal Times of Israel un “estremista omofobo”, sostiene che i gay siano peggio dei nazisti. Nel 2015, un uomo israeliano ha compiuto un attentato durante il Pride di Gerusalemme, accoltellando sei persone e uccidendone una, dopo che nel 2005 era stato condannato per lo stesso motivo e anche in anni più recenti la marcia dell’orgoglio si svolge in un clima di tensione e minacce contro la comunità LGBTQ+. L’omosessualità è quindi legale in Israele, a differenza che in Palestina, ma questo non significa che sia socialmente accettata.
Il rainbow washing di Israele non è fine a se stesso, né serve soltanto ad attirare le simpatie dei Paesi occidentali, ma come sostiene la professoressa di Gender Studies Jasbir Puar è una forma di “omonazionalismo”, dove l’inclusione di gay, lesbiche e persone trans viene usata come barometro per la legittimità delle proprie politiche. L’identità nazionale di Israele viene costruita anche per opposizione al popolo palestinese, che viene dipinto come interamente e irrimediabilmente omofobo, cancellando l’esistenza stessa di una sua propria comunità LGBTQ+. “Sventolare la prima bandiera del Pride a Gaza”, come si è vantato di fare il ministero degli Esteri israeliano su X a novembre dello scorso anno, è solo un pretesto per giustificare una continua violenza contro i palestinesi, anche contro le stesse persone queer che si dichiara di star “liberando”. Inoltre, è stato riferito come Israele avrebbe sorvegliato e minacciato di fare outing ai palestinesi gay che vivono nella West Bank, per indurli a lavorare come informatori.
Prima del rainbow washing, la più importante operazione di branding dell’IDF ha però riguardato le donne, che hanno l’obbligo di servire almeno due anni nell’esercito israeliano dal 1949. Sebbene l’esercito abbia per lungo tempo relegato le soldatesse in ruoli secondari, negli ultimi anni ha enfatizzato la loro presenza come dimostrazione di pari opportunità nel Paese. Anzi, le recenti aperture ad armi tradizionalmente maschili, come la fanteria e la marina, e la nomina di alcune donne a comandanti sono state presentate come grandi passi avanti nella causa femminile. Come ha spiegato la femminista israeliana Jessie Montell in un articolo, le femministe hanno rivendicato il ruolo delle donne all’interno dell’esercito fino alla prima intifada, quando molte hanno aperto gli occhi sulla propria complicità nel dominio del popolo palestinese, preferendo prestare il servizio civile o addirittura scegliendo la renitenza alla leva (che può comportare fino a tre anni di carcere).
L’IDF continua però a presentare l’esperienza delle donne nell’esercito come “empowering” o a descrivere le soldatesse come una sorta di eroine invincibili nel nome del girl power. L’8 marzo 2024, nella Giornata della donna, l’esercito ha pubblicato sui social un video che ritraeva una soldatessa che illustrava la causa di Israele come una causa in cui si “combatte per le donne”. Oltre che per le israeliane ancora ostaggio di Hamas e per quelle che hanno subito violenze il 7 ottobre, la guerra è stata giustificata anche come atto di liberazione per le palestinesi stesse. Il sito ufficiale dell’IDF ha persino una pagina dedicata a illustrare lo “status delle donne a Gaza”. Secondo l’ultimo report delle Nazioni Unite, il 52% delle vittime dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza però sono donne, e stando alle stime di alcune Ong la percentuale arriverebbe addirittura al 70%. Oltre mezzo milione di donne, che spesso si privano del cibo per darlo ai propri figli, inoltre è a rischio carestia secondo UN Women. Quelle incinte e senza alcun accesso all’assistenza medica sarebbero invece circa 60mila.
Tuttavia, il comportamento sul campo dell’esercito “più morale della storia” – storica definizione dell’IDF che è stata ricordata anche dall’ormai ex ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz per difendere Israele dalla condanna della Corte penale internazionale – tradisce l’immagine di parità e rispetto che le autorità israeliane vorrebbero trasmettere. I soldati non si fanno scrupolo a postare su Internet video indossando gli indumenti intimi femminili presi dalle case palestinesi che hanno appena bombardato, scherzando sul fatto di aver trovato “una bellissima moglie”. In un altro video virale, un soldato cerca di infilare in bocca a un altro soldato un paio di mutande da donna. Secondo un report dell’organizzazione indipendente per i diritti umani Euro-Med Human Rights Monitor, diverse prigioniere della striscia di Gaza arrestate dall’esercito hanno subito torture e abusi di natura sessuale, una prassi che sarebbe usata come vera e propria arma di guerra dagli eserciti. Video postati sui social dai soldati stessi mostrano donne a cui è stato tolto il velo forzatamente. Questi video umilianti possono essere considerati una violazione dei diritti umani e, secondo la BBC, l’IDF sarebbe a conoscenza del comportamento dei soldati ma avrebbe semplicemente chiesto loro di essere più cauti in ciò che mettono online. D’altronde, i soldati sembrano essere abituati da tempo all’esercizio arbitrario della violenza nei confronti dei civili palestinesi, tanto che l’esercito condurrebbe finti raid e arresti contro i civili proprio per addestrare le sue truppe, utilizzandoli come se fossero una sorta di comparse e contribuendo in questo modo alla loro deumanizzazione.
L’IDF è stato inoltre accusato dalle Nazioni Unite di aver commesso violenze sessuali ed contro donne in Cisgiordania, in un report che indagava anche le violenze commesse dai militanti di Hamas su quelle israeliane il 7 ottobre. I commissari delle Nazioni Unite, che non hanno potuto accedere direttamente a Gaza per ragioni di sicurezza, hanno trovato prove di “trattamenti inumani e degradanti” ai danni di donne e uomini che includono varie forme di abuso sessuale, tra cui perquisizioni corporali invasive, percosse nei genitali, minacce di stupro dirette o ai danni di parenti. “Altre preoccupazioni sollevate riguardano la circolazione di foto di donne detenute sui telefoni personali di soldati e investigatori e la privazione di prodotti per le mestruazioni”, si legge nel report. In generale, sono ormai numerose le testimonianze sul trattamento di tortura dei prigionieri palestinesi, spesso detenuti senza alcun capo d’accusa.
A meno di un mese dall’attacco del 7 ottobre, il governo aveva già speso 8,5 milioni di dollari in campagne social pro-Israele e, secondo un’indagine del New York Times, almeno 2 milioni di dollari sarebbero stati investiti per creare profili fake di cittadini americani su X per convincere alcuni deputati a sostenere la guerra. Ma nonostante la propaganda, Israele e l’IDF fanno sempre più fatica a nascondere l’ipocrisia delle loro operazioni di rainbow e pinkwashing: se fino a poco tempo fa riuscivano a celare i loro reali obiettivi sotto la coltre dei lustrini del Pride o con i video di bellissime e coraggiose soldatesse, oggi la narrazione di Israele come unico protettore dei diritti civili e della dignità umana in quell’area del mondo comincia a mostrare tutte le sue crepe. E sono i soldati stessi, con il loro comportamento disumano, orgogliosamente mostrato sui social, a testimoniare quanto sono profonde.