Perché essere donna deve costare di più che essere uomo?
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Si stima che una donna, in media, spenda in assorbenti circa 126 euro all’anno. Di questi, 23 sono solo di Iva. La cosiddetta tampon tax è stata al centro di recenti e accesi dibattiti: per la legge italiana gli assorbenti non sono un bene di prima necessità, e quindi sono tassati al 22%. Allo stesso tempo le scommesse e il gioco del lotto sono esenti da Iva. Se sembra una cifra irrisoria, bisogna considerare che una donna avrà a che fare il ciclo dai tre ai cinque giorni al mese per circa quarant’anni della sua vita, escludendo gravidanze e situazioni particolari. E sopratutto che la tampon tax non è l’unico “sovrapprezzo” che le donne devono pagare proprio in quanto donne.

Prima di tutto la salute. Una ragazza inizia ad avere regolarmente bisogno di una cura medico-specialistica per il proprio corpo da quando ha il menarca, ossia la prima mestruazione. I medici consigliano una visita ginecologica all’anno, molto di più in presenza di situazioni “anomale” (come l’ovaio policistico, le cistiti frequenti, il ciclo irregolare e molte altre cause). Queste visite possono costare da un minino di 50 fino a un massimo di 120 euro, tralasciando poi eventuali maternità e cure specifiche, ormonali o meno. C’è poi la pillola anticoncezionale – e tutte le varie alternative – che non è solo prescritta in caso di problemi di salute ma è anche e soprattutto una costante nella vita della maggior parte delle donne che sono in una relazione stabile e vogliono prevenire la gravidanza.

Nonostante secondo uno stereotipo ampiamente condiviso la donna sia in grado di sopportare il dolore fisico meglio dell’uomo, bisogna poi considerare la spesa per gli antidolorifici necessari a superare i giorni di ciclo più intensi. Molte donne, infatti, possono soffrire di crampi, mal di schiena e mal di testa: in alcuni casi il dolore è così forte da essere invalidante. Eppure, visto che il cosiddetto congedo mestruale ancora non esiste, spesso il certificato medico necessario per i giorni di malattia cita altre cause, come la lomboscialgia, l’indisposizone o l’influenza. Senza considerare poi i casi di endometriosi, una patologia che richiede spese ingenti alle pazienti anche perché spesso necessita anni di ricerca medica per essere diagnosticata. 

Non si tratta solo della salute. Le donne spendono di più anche per l’abbigliamento e per i prodotti per la cura del corpo; non per sfizio, ma per imposizione del mercato e a causa delle costrizioni sociali a cui sono legate. Anche volendo ammettere che si tratti di acquisti dettati da velleità, a parità di materiali e costi di produzione, proprio non si spiega come mai i prodotti maschili debbano costare meno. Nel 2015 il New York Department of Consumer Affairs ha pubblicato un report in cui confrontava il prezzo di 800 prodotti di oltre 90 brand. Hanno così dimostrato che l’abbigliamento per ragazze costa il 7% in più rispetto a quello per ragazzi, quello da donna adulta l’8% in più, i giocattoli per bambine il 7%, e i prodotti per la persona raggiungono una maggiorazione del 13%. 

Nessuna differenza tecnica o d’uso: stesse lame, stessa plastica, solo colore diverso. Pascale Boistard, ministra delle Pari Opportunità francese, a inizio 2017 aveva evidenziato in un tweet come le confezioni di rasoi Monoprix, una nota catena di supermercati, pensate per le consumatrici costassero quasi dieci centesimi in più di quelle per uomini, nonostante contenessero la metà dei rasoi. Pochi centesimi, sì, ma che sommati tra loro generano spese maggiori per le donne a fronte, va ricordato, di stipendi più bassi rispetto ai colleghi.                                            

Questa logica di mercato vale per qualsiasi prodotto targettizzabile: shampoo, dentifrici, detergenti, profumi. Un giro di affari praticamente infinito, che si autoalimenta e che non sembra voler finire. Il portale internazionale di comparazione prezzi Idealo, in un recente report sull’e-commerce italiano ha dimostrato che neanche il mercato online si salva dalla cosiddetta pink tax. I prodotti per le donne infatti subiscono una variazione media di prezzo del 49,6%, contro il 33,5% registrato per i prodotti maschili. Per le scarpe da tennis femminili, ad esempio, si è registrata una variazione di prezzi fino a oltre il 100%, mentre per quelle da uomo la fluttuazione arriva al 46%.                                            

Non è un caso poi che il divario maggiore di prezzo si raggiunga proprio sui prodotti per la cura della persona, dimensione nella quale la donna è più soggetta a costrizioni sociali. Quello di curarsi di più, apparire bella e in ordine, lavorare di più sulla propria immagine e sul proprio corpo sono tutti dogmi che la società impone alle donne. Quindi, per avere una pelle più morbida, più profumata, per essere più “femminile”, le consumatrici si sentono in dovere di acquistare un determinato deodorante invece che un altro, per rispondere a particolari caratteristiche estetiche imposte, su cui il mercato fa leva per vendere di più e a un prezzo maggiorato. 

Oltre a creme per viso e maschere per i capelli, sono da considerare anche il costo del make up, del parrucchiere e dell’estetista. Tutte spese che una donna affronta per rispecchiare un’immagine socialmente imposta. Se gli uomini, capelli ingrigiti inclusi, “migliorano con l’età”, per le donne scegliere di non tingere i capelli bianchi è considerato sinonimo di sciatteria. E così, alle varie spese, si aggiunge quella del parrucchiere, che spesso per le donne raggiunge cifre doppie o triple rispetto ai maschi.

Anche il trucco è oggetto di continui double standard. Se da un lato l’immagine “acqua e sapone” piace e rassicura, a una ragazza che non si trucca è molto facile che venga chiesto il perché della scelta. Coprire le imperfezioni della pelle e mascherare i difetti del viso sembrano ormai tappe obbligate per aderire ad un ideale di bellezza socialmente ordinato. E così, per anni, specialmente l’advertising ha sfruttato le debolezze sia delle donne adulte che delle ragazze più giovani, per alimentare un mercato fatto di stereotipi e discriminazioni di genere. 

Su questo punto ha cercato di far ragionare l’iniziativa #adpology, lanciata da un gruppo di creativi britannici in occasione della Giornata internazionale della donna, lo scorso anno. Hanno realizzato un video ironico ed efficace, per chiedere scusa alle consumatrici per tutte le volte in cui uno spot ha dato voce ad uno stereotipo e rafforzato il bodyshaming e l’insicurezza femminile, per aver fatto loro credere che solo certi corpi fossero pronti per la spiaggia, per aver scelto donne di 35 anni per interpretare delle over 50, per aver fatto loro credere di non essere abbastanza.           

Non si tratta di un’iniziativa isolata. In questi ultimi anni le aziende sembrano essere diventate più attente a questo tipo di comunicazione e molte di loro stanno investendo in una strategia pubblicitaria che negli Stati Uniti viene chiama “femvertising”. Diversi settori hanno iniziato ad abbracciare questa nuova comunicazione commerciale, dalla cosmetica ai prodotti per la cura per il corpo, dove lo scopo sembra essere la promozione di ideali più vicini alla “normalità” delle consumatrici e dei consumatori. Una forma di pubblicità su cui però è legittimo avere dubbi e riserve, dal momento che, seppure con un fine nobile, si tratta pur sempre di comunicazione commerciale, quindi volta alla vendita e al profitto.

Specialmente nel caso di una casa cosmetica o un marchio di moda, è contraddittorio che si invitino le donne a sentirsi bene e belle con se stesse mentre le si spinge ad acquistare prodotti per sembrare più giovani o  seducenti. Questo perché il fine ultimo di un’azienda è produrre degli utili, per cui è contraddittorio lasciare loro il compito di sensibilizzare l’opinione pubblica o rompere stereotipi di genere che paradossalmente la pubblicità stessa, negli anni, non ha fatto altro che consolidare e sfruttare a proprio vantaggio. Dietro queste campagne può anche esserci una reale volontà di migliorare la società, ma il timore che sia solo una strategia innovativa di posizionamento sul mercato rimane. La critica sociale e culturale portata avanti da grandi marchi o multinazionali porta con sé una miriadi di riserve, perché il fine ultimo del mercato non è trasformare le donne in consumatrici libere e consapevoli, ma generare profitto. 

Si corre così il rischio di minimizzare una battaglia culturale e sociale, e quindi politica, complessa che non può essere ridotta ad uno slogan accattivante o ad un invito a sentirsi bene con se stessi. La disugualianza di genere è un problema reale che necessita di un cambiamento anche culturale che le istituzioni, ad esempio, e i mezzi di comunicazione dovrebbero affrontare nelle sue diverse stratificazioni e implicazioni.

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