Il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, ha presentato in modo fuorviante la campagna italiana di vaccinazioni di circa 65mila dosi al giorno – 450mila settimanali, per il momento solo dalla Pfizer-BioNTech – come la chiave di volta per superare nel 2021 la pandemia. Arcuri richiama giustamente alla tabella di marcia alcune Regioni in colpevole ritardo sugli obiettivi del governo, prima fra tutte la Lombardia che – nonostante le migliaia di contagi, le decine di morti ancora quotidiane e con una curva epidemica in risalita – nella prima settimana di vaccinazioni ha iniettato appena il 3% delle oltre 80mila dosi consegnate. Solo Valle d’Aosta, Sardegna e Molise hanno una percentuale più bassa – il 2% o meno – pur con numeri al momento meno preoccupanti. Va da sé, quindi, che il commissario abbia tutte le ragioni per far pressione a livello locale sulla rapidità di somministrazione dei vaccini, in primis in Lombardia: la regione più ricca d’Italia, e quindi potenzialmente quella con più mezzi a disposizione, e ciononostante con il record di morti in Europa (oltre 25mila ufficiali da febbraio 2019). Eppure il discrimine del flop o del successo rispetto al Covid-19, posto da Arcuri sui 65mila vaccinati al giorno, è l’inesattezza più grande che si possa diffondere. Anche con 65mila vaccinati al giorno, infatti, l’obiettivo di Arcuri – ovvero di raggiungere l’immunità di gregge in autunno, con l’80% dei vaccinati – non sembra raggiungibile.
Sostenere il contrario, esaltando il fatto positivo che il nostro Paese spicchi al momento come secondo nell’Unione europea dopo la Germania per numero di dosi somministrate, rischia di illudere la popolazione che con il via libera alle vaccinazioni si possa riprendere al più presto la vita di prima. I numeri del piano settimanale sui vaccini del governo sono in realtà estremamente bassi in rapporto agli oltre 60 milioni di abitanti del Paese e stridono con la meta dell’immunità di gregge da raggiungere con il 70% della popolazione vaccinata o immune.
Come precisato in questi giorni anche da Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e membro del Comitato tecnico scientifico per la pandemia per una “risposta immunitaria completamente protettiva” al Covid-19, serve infatti sempre una seconda dose del vaccino, iniettata a 21 giorni di distanza dalla prima. Una sola non è sufficiente: sia per il vaccino Pfizer-Biontech, finora l’unico autorizzato dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema), sia per l’americano di Moderna in dirittura d’arrivo, sia per l’Astrazeneca sviluppato dall’Irbm di Pomezia con l’Università di Oxford e atteso per la fine di gennaio ma con problemi di autorizzazione, occorreranno due iniezioni a testa.
Senza dubbio i vaccini studiati e messi a disposizione in tempi record per l’emergenza dalla comunità scientifica internazionale rappresentano lo strumento più efficace per controllare la pandemia e la principale speranza per tornare alla normalità delle nostre abitudini. Ma con serietà e realismo il ministro italiano della Salute Roberto Speranza li ha definiti per adesso il “primo passo” di una “battaglia ancora lunga” contro il Covid-19, per la quale “serviranno ancora zone rosse”. Gli stessi medici e scienziati ammettono di non poter ancora dire quanto a lungo durerà la protezione dei vaccini e per quanto tempo i milioni di ex positivi al Covid-19 saranno al riparo da ricadute: è passato troppo poco tempo dall’inizio della pandemia, meno ancora dai test sui vaccini, per avere sufficienti dati empirici. Tra chi ha contratto il Covid-19, gli anticorpi sono spesso scomparsi alcuni mesi dopo l’infezione e quindi anche agli ex positivi è raccomandato il richiamo del vaccino. In base alle conoscenze sugli altri tipi di coronavirus, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) valuta che la protezione delle dosi di Pfizer-Biontech sia “di almeno 9-12 mesi”, ma questa è un’ipotesi.
Al di là degli anticorpi presenti o assenti nell’organismo, stando ai primi studi sul campo nella maggioranza dei casi analizzati, il nostro sistema immunitario sembra conservare anche per il Covid-19 una memoria di almeno 8 mesi, in grado di far riscattare le difese. Ma al momento non ci sono evidenze scientifiche sulla durata effettiva dell’immunizzazione. È insomma probabile che, per una vera immunità di gregge, non avendo a disposizione antivirali contro il Covid-19, si dovrà ripetere il vaccino una volta all’anno come per l’influenza, sempre con un richiamo. In Italia, il “Piano strategico di vaccinazione anti-Sars-Cov2/Covid-19” varato dal governo in dicembre prevede la distribuzione delle dosi prima agli operatori sanitari e agli ospiti delle Rsa, poi agli over 80 e successivamente ai circa 7 milioni di italiani con almeno una patologia cronica pregressa e agli over 70. Dal Cts si promette la vaccinazione “per tutta la popolazione attiva entro la fine dell’estate”, ma questo è tutto da vedere.
Nel resto dell’Unione europea d’altronde la situazione non va molto meglio: la stessa Biontech segnala come insufficienti la quantità di dosi acquistate e redistribuite da Bruxelles ai singoli Paesi, pur in forma proporzionale. Governi come quello tedesco sono entrati a gamba tesa nell’accordo, acquistando in proprio 30 milioni extra da Pfizer-Biontech, convinti che il pacchetto comunitario non basti. Sulla carta si programma anche in Italia di aumentare le iniezioni settimanali dei vaccini in primavera, ma le variabili sono tante: dai milioni di dosi ordinati e tuttavia per alcuni vaccini ancora da autorizzare, come Astrazeneca, “senza deroghe alla sicurezza” come precisa il piano del governo; alla volontarietà del vaccino per tutte le categorie; all’organizzazione diversa da regione a regione, spesso lacunosa e in ritardo come nel caso citato della Lombardia.
Quanto sta accadendo nel Regno Unito – con quasi 60 mila contagi al giorno a causa della nuova variante nonostante l’approvazione anticipata dei vaccini Pfizer-BioNTech e Astrazeneca a inizio dicembre e oltre un milione di cittadini già vaccinati – è probabilmente lo specchio di una terza ondata alle porte anche nel continente. Oltremanica sono infatti costretti a un terzo lockdown totale e anche la Francia riprende ad aumentare le restrizioni, così come Paesi efficienti e virtuosi nella gestione della pandemia come la Germania e l’Austria estendono i lockdown fino alla fine di gennaio. Di fronte a questo scenario negativo è sconcertante che la Lombardia – destinataria della quota settimanale maggiore di dosi dal governo, proprio a causa della la gravità della sua situazione – sia in coda all’elenco delle regioni nell’attuazione del piano vaccinale. Le affermazioni dell’assessore alla Sanità lombarda Giulio Gallera (Forza Italia) di non “far rientrare in servizio dalle ferie medici e infermieri per un vaccino nei giorni di festa” appare come un oltraggio alle migliaia di sanitari contagiati in questi mesi negli ospedali lombardi focolai di infezione, come ad Alzano Lombardo.
La responsabilità delle continue politiche sanitarie sbagliate nella regione più abitata e produttiva d’Italia non si esaurisce in ogni caso nell’inadeguatezza di Gallera, recidivo da mesi sulle minimizzazioni rispetto al Covid e finalmente in odore di sfiducia, ma purtroppo è una costante delle scelte sulla pandemia del Pirellone e anche di parte delle amministrazioni locali, determinate dalle ragioni economiche. Come già per il flop della ripartenza di settembre, in Lombardia l’Ordine dei medici e degli odontoiatri denuncia il timore che, per far partire gli 80mila vaccini a settimana, “al di là delle ferie manchi il personale” e occorra “assolutamente reclutare medici e infermieri” per una campagna “che non può permettersi ritardi”. Dal governo, Arcuri pressa i territori per l’elenco dei centri di vaccinazione, “ancora incompleto”, accusa, a causa di “Regioni come la Lombardia che stanno facendo male”, perché “non in grado”. I governatori ribattono di non poter partire a causa della carenza di siringhe e di personale sanitario, che è stato reclutato attraverso un nuovo bando nazionale per 15mila tra medici e infermieri, organizzato però solo a dicembre, quando ormai era troppo tardi per poter riuscire a iniziare il piano vaccinale già da gennaio a pieno regime. Siamo di nuovo allo scaricabarile dell’autunno tra centro e periferia, che in Campania provocava le vergognose code negli ospedali e decine di morti nelle case, senza ossigeno né possibilità di essere ricoverati in tempo.
Dopo la gestione scandalosa della prima e della seconda ondata del Covid-19 e con 10 milioni di cittadini lombardi ancora in attesa delle dosi mancanti del vaccino antinfluenzale, la Lombardia si sta facendo trovare ancora una volta impreparata alla vigilia di una possibile terza ondata. Persino a Bergamo, emblema del disastro italiano, non si è pronti per la campagna a tappeto: il sindaco Giorgio Gori (Pd) lamenta che “per vaccinare entro settembre il 70% dei lombardi, vale a dire 7 milioni di persone”, servono “30mila vaccinazioni al giorno (escludendo le domeniche), al netto dei richiami”. La Lombardia però ne ha previste 10mila. Calcoli elementari che però né il commissario del governo, né il Pirellone, né i tanti telegiornali ci tengono a mettere sotto gli occhi delle persone. È molto più facile, per tutti, incensarsi di un’efficienza inesistente sui vaccini, appoggiandosi sui dati europei e provvisori di Capodanno descrivendo le vaccinazioni come il rimedio immediato per uscire dal tunnel. Nulla, in realtà, è più ingannevole e rischioso: anche sui vaccini, la Lombardia rischia di fare scuola per altre regioni che hanno mezzi e personale sanitario ancora più scarsi, soprattutto nel Meridione. Così c’è il rischio che si replichi l’unico vero, triste primato dell’Italia: il Paese con più morti per Covid-19 (già circa 76mila) dell’Unione europea.