Joe Biden, a 100 giorni dall’insediamento spicca come un Presidente degli Stati Uniti competente e capace, estraneo ai protagonismi del predecessore Donald Trump e, più in generale, alle passerelle di una politica che, nell’era mediatica, sacrifica volentieri i contenuti alla visibilità. Senatore per 35 anni e poi vice presidente di Barack Obama per due mandati, dal 2009 al 2016, a 78 anni Biden è oggi tra gli uomini più potenti del mondo, senza doverlo ostentare in ogni suo tweet. Il nuovo presidente degli Stati Uniti si sta piuttosto caratterizzando come un amministratore efficiente, al lavoro per applicare subito e su vasta scala i programmi per l’emergenza sanitaria, a partire dalla vaccinazione di massa, e per ribaltare, sul piano interno e internazionale, le politiche divisive e sovraniste del suo predecessore. All’opposto di Trump, Biden è un commander in chief che padroneggia molti dossier e ascolta consiglieri e collaboratori sia su questi temi che su quelli in cui è meno a suo agio. Le sue nomine nell’Amministrazione e le prese di posizione su gravi istanze sociali come l’omicidio a sfondo razziale di George Floyd lo mostrano anche sensibile alla società multietnica che rappresenta. Come promesso dopo la sua vittoria elettorale, Biden cerca di essere davvero “il presidente di tutti gli americani”, e la sua preparazione e la sua autorevolezza sono un sollievo per il mondo che sta uscendo dalla pandemia.
Grazie a una logistica delle vaccinazioni intelligente e capillare, Biden ha impresso una svolta all’immunizzazione negli Stati Uniti. Se è vero infatti che il neo presidente ha goduto dei tempestivi e significativi investimenti pubblici di Trump indirizzati alle case farmaceutiche per lo sviluppo e l’approvvigionamento dei vaccini (un flusso di oltre 10 miliardi di dollari, nel 2020, a Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson, Astrazeneca, Novavax e altri gruppi), una volta assunto l’incarico Biden ha inviato ai singoli Stati il 57% in più di sieri a settimana. Anche le scorte delle farmacie sono state raddoppiate, allargando così la disponibilità di dosi a tutti i quartieri e anche alle aree più periferiche e rurali del Paese. I finanziamenti pubblici per i vaccini sono aumentati ancora, con un’iniezione a marzo di altri 10 miliardi di dollari. Il risultato è che quasi 150 milioni di statunitensi risultano già coperti con una dose (quasi 100 milioni anche con il richiamo), tra loro l’82% degli over 65. A oggi il 30% della popolazione è del tutto vaccinata, secondo il monitoraggio dei Centers for disease control and prevention (Cdc) del Dipartimento alla Salute, e quasi la metà (43%) è protetta dalla prima dose. Di conseguenza i contagi e le morti da Covid-19 negli Stati Uniti sono crollati: da febbraio l’Amministrazione sta evitando la terza ondata che invece attraversa l’Europa. Tanto che la promessa di Biden del raggiungimento dell’immunità di gregge per la festa nazionale dell’indipendenza del 4 luglio appare più che realistica.
Gli investimenti del 2021 della Casa Bianca contro il Covid-19 sono mirati “a espandere l’accesso ai vaccini alle comunità del Paese più duramente colpite e più ad alto rischio”, quelle “comunità di colore, delle aree rurali, delle popolazioni a basso reddito e di altre fasce meno abbienti” che piangono la maggioranza dei quasi 590mila morti statunitensi della pandemia. Tra febbraio e marzo “oltre il 65% delle dosi del Dipartimento alla Salute ai Community Health Centers”, i centri sanitari territoriali pubblici, è andato alle “persone di colore”, soprattutto nelle comunità afroamericane che i numeri del governo elaborati per etnie da Apm Research Lab ancora all’inizio dell’anno evidenziavano come seconde, dopo i nativi americani, per incidenza di vittime della pandemia.
Parte dei 10 miliardi aggiunti da Biden è destinata anche a rafforzare la medicina territoriale con “centinaia di cliniche mobili”, a “vaccinare i lavoratori delle categorie essenziali” e ad “aumentare la fiducia nei vaccini”: un ribaltamento di visione che pone adesso “l’equità al centro della risposta dell’Amministrazione statunitense contro il Covid-19”, e che di fondo è la premessa per la tenuta sanitaria e sociale del Paese. L’equità è anche lo strumento definitivo per mettere fine alla pandemia a livello globale, in cui l’inversione a U di Biden rispetto alle politiche di Trump anche in campo sanitario, che nella sostanza consiste nel rilancio dell’Obamacare, rappresenta la fine delle chiusure nazionaliste e protezioniste del tycoon. Biden si è espresso per “rafforzare la catena globale dei vaccini” nei Paesi poveri e in via di sviluppo dove, in mancanza di sostegni economici e logistici per le vaccinazioni, rischiano di svilupparsi nuove ondate della pandemia, come sta accadendo in India.
Al Consiglio europeo di marzo gli Stati Uniti si sono impegnati “a condividere i vaccini con l’Ue, non appena potranno”, dopo cioè essersi messi in sicurezza. Si confida nell’arrivo di milioni di dosi che tra qualche mese saranno di surplus oltreoceano, grazie ad accordi commerciali che, attraverso la condivisione dei brevetti, permettano alle aziende europee di produrre i sieri statunitensi. È un’apertura concreta che, dopo il rientro di Washington negli accordi sul clima di Parigi e con l’allineamento, annunciato da Biden agli obiettivi dell’Ue di abbattere più della metà delle emissioni Co2 entro il 2030 (più del target del 28% entro il 2025 posto da Obama quando era presidente), ristabilisce e rinsalda la fiducia tra gli alleati che era stata minata da Trump.
Gli Stati Uniti sono così tornati un punto di riferimento per l’Europa, e riprendere a esercitare una leadership all’estero è probabilmente meno complicato per Biden che non riconquistare la fiducia della gran parte degli statunitensi, stemperando i conflitti sociali interni esasperati da Trump. Nonostante i progressi contro il Covid-19, la popolazione resta infatti spaccata sulla nuova Amministrazione: solo il 52% degli intervistati nell‘ultimo sondaggio commissionato da Washington Post e Abc ne approva l’operato. E a tre mesi dall’assalto al Congresso da parte dei suprematisti armati supporter di Trump non poteva forse essere altrimenti.
La metà della squadra di governo di Biden è formata da esponenti di colore e di minoranze diverse dai Wasp che storicamente hanno dominato la politica statunitense: segretario alla Difesa è per esempio l’ex comandante Lloyd Austin mentre la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu è Linda Thomas-Greenfield, entrambi afroamericani. Deb Haaland è la prima nativa americana Segretaria degli Interni dell’Interno. Pete Buttigieg ai Trasporti è il primo ministro dichiaratamente gay negli Stati Uniti, mentre Rachel Levine, sottosegretaria alla Sanità, è transgender. Diversi incarichi sono andati anche ad attivisti per i diritti civili. Inoltre quasi la metà dei ruoli apicali è in mano a donne: dall’intelligence (Avril Haines) al Tesoro (Janet Yellen), alla vicepresidenza di Kamala Harris, sopra tutti. Il fatto stesso che il successore di Trump si definisca a capo “dell’Amministrazione Biden-Harris” parla da sé. Come prima donna, e prima donna di colore braccio destro del presidente, Kamala Harris rappresenta la sintesi della visione degli Stati Uniti che ha in mente Biden. Come ex procuratrice, Harris è anche ben consapevole del debito di giustizia dello Stato sulla questione razziale, una ferita aperta nella storia degli Stati Uniti che Trump ha aggravato riaccendendo gli animi degli estremisti di destra. La sentenza della corte di Minneapolis a carico di Derek Chauvin, agente di polizia responsabile dell’omicidio di George Floyd, si inserisce nella cornice della nuova stagione politica di Biden, che sul caso aveva auspicato un verdetto duro e che, nel discorso al Congresso in occasione dei suoi primi 100 giorni di mandato, ha ribadito l’urgenza di approvare al Senato la riforma della legge sulla polizia per estirpare un razzismo definito “sistemico e macchia nell’anima del nostro Paese”.
Si ricorda spesso, anche giustamente, come il nuovo presidente statunitense sia da sempre un democratico moderato, tutt’altro che di sinistra: la sua politica estera (ben più atlantista di quella isolazionista e filorussa di Trump) riflette questa impostazione tradizionale. Eppure Biden è lo stesso presidente che per spingere la ripresa post-Covid aumenterà l’aliquota sui redditi “all’1% più ricco e delle grandi corporation”, e che come ministro chiave del Lavoro ha scelto l’amico ed ex sindacalista Marty Walsh, cattolico di origini irlandesi come lui. Con Walsh, Biden si appresta a varare il più grande New Deal (circa 6mila miliardi di dollari in misure espansive per l’economia e per il sostegno di famiglie a basso e medio reddito) negli Stati Uniti dall’epoca del New Deal di Roosevelt, all’insegna di una svolta green e dell’equità. Presentandolo, ha dichiarato di “non avere nulla contro Wall Street”, ma che “questo Paese è stato costruito dal ceto medio, e i sindacati hanno costruito la classe media”. Le violenze contro i neri, i poveri e gli immigrati di certo non cesseranno in pochi mesi, né con Biden si estingueranno le cause che spingono i sostenitori di Black Lives Matter a manifestare: solo alla vigilia della sentenza su Floyd, a Minneapolis un altro afroamericano 20enne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla polizia. Ma gli Stati Uniti inclusivi e plurali riportati in auge da Biden e Harris smusseranno sicuramente le divisioni e le violenze, alimentando la giustizia sociale. Questa è una visione che ci piace e che, se realizzata, tornerebbe finalmente a essere un vero modello di democrazia da prendere come esempio nel resto nel mondo.