Pensavamo di star pian piano uscendo da questi anni di apnea, un passo alla volta, e poi un giorno ci svegliamo e l’allarme si sposta all’improvviso dal bollettino Covid ai bombardamenti in Ucraina, e ci mettiamo un attimo a capire, ancora storditi da tutte le discussioni sui vaccini e sui morti, gli applausi ai medici e poi gli insulti, alcuni ancora con il cordoglio nel cuore, altri devastati dai radicali cambi relazionali, lavorativi ed economici. E mentre ancora si stava a discutere sul bonus psicologo e sul green pass rafforzato si inizia a leggere dell’invasione, Putin e i carri armati, attacca non attacca, le opinioni, Putin pazzo, la Nato però, Biden però, eh ma Trump, eccetera, eccetera, eccetera. E poi le bombe, ma no, ma tanto non tocca i civili, vuole solo spaventare e invece ecco i primi morti, gli ospedali e le scuole colpite, è vero o non è vero, le foto con i bambini e i cani, i profughi, le sanzioni, il nucleare. Il nucleare? Ma sul serio? Oddio, ma allora? Ma se l’Europa si espone così non c’è il rischio che la guerra arrivi anche da noi? La guerra? Ma davvero? Con la Russia e la Nato di mezzo? Ma quindi è guerra mondiale. I titoli di giornale altisonanti e non sempre corretti, le notizie lampo su Instagram, i mille podcast, e in tutto questo il dovere e a volte la necessità di continuare a portare avanti la propria vita.
“Pronto, ciao, come stai? Sei riuscito a fare quella cosa che ti avevo chiesto?”. “Si sono passato ora, tutto ok, scusa il ritardo ma in questi giorni va così. E voi?”. “Noi bene cioè un po’ stanchi, sono mesi che siamo stanchi, sai tutto questo non è facile, lo senti nel quotidiano, è difficile fare le cose, è tutto un po’ deprimente e la guerra non aiuta, pensavamo di riprenderci e invece, andiamo avanti, che altro possiamo fare?”. O ancora, a lezione di yoga: “Ciao ragazze, benvenute, come state?”. Le risposte delle praticanti: “Provo a stare nel momento”; “Io sono in ansia da quando è scoppiata la guerra, non dormo o dormo male”; “Io non ne parlo ad alta voce, mi fa paura solo il dirlo”; “Quando mi sveglio come prima cosa guardo le notizie, non riesco a crederci, la crisi climatica, la pandemia, ora la paura di una terza guerra mondiale, mi sembra impossibile tornare ad avere una vita normale”. “E tu, Silvia, come stai?”, la domanda immancabile del mercoledì della mia psicologa. Io? Già come sto io? Male, sto male. Spaventata, addolorata, disgustata. Lo chiedo agli altri per cercare di riconoscere quel disagio e quella preoccupazione che trovo dentro di me nella speranza di potergli dare voce insieme e sentirmi meno fragile, meno sola. A lezione mi pongo la domanda in silenzio, a volte sto zitta e facciamo finta di niente perché le persone vengono a praticare yoga anche per trovare un’ ora di serenità, altre volte alziamo insieme il tappeto e mostriamo la nostra polvere nascosta per smettere di fare finta che tutto sia ok, perché tanto è difficile tenerla lì sotto oramai, esce da tutti gli angoli.
Sono tra quelle persone che, dalla notizia dello scoppio della guerra, fanno fatica a continuare a fare le cose che facevano prima come se non fosse successo nulla. Ma forse mi succedeva già da prima a dire il vero, da dopo il primo lockdown, da questo ritorno forzato a un ritmo che ora pare sempre più insostenibile, mi sento frullata e di base ho un senso di oppressione al petto che molte volte mi rende difficile fare qualsiasi cosa, perchè è sempre più difficile immaginarsi un futuro sereno. Non riesco a distrarmi, non voglio distrarmi. Voglio preparami al peggio, è sempre stato il mio meccanismo di difesa. Lo so, forse non il migliore ma quello che ho imparato. Leggo, ascolto, mi informo, ripasso la storia, tutto nella speranza di rassicurarmi, di trovare una lettura razionale in grado di placare anche un minimo quella paura atavica della distruzione in casa, una sensazione che mi è stata trasferita credo, io del resto la guerra mica l’ho vissuta sulla mia pelle, ma so che mia nonna ha ancora paura dei tuoni perché le ricordano i bombardamenti e quella paura l’ho vista. E poi, seppur non l’abbia mai vissuta la guerra l’ho sentita raccontare, l’ho guardata nelle fotografie, nei video, tante, forse troppe, volte. E ricordo una volta da bambina il terrore davanti alla tv, era la guerra del Golfo. Ero ancora troppo piccola per capire, ma non per sentire, e comunque nessuno mi spiegava. E poi l’orrore dei Balcani, anche lì, nessuno mi ha mai spiegato quello che vedevo. Sì, be’, i miei genitori, un po’, per come sapevano farlo anche loro, ma a scuola mai una parola, oppure non ricordo.
Del resto, a scuola, la guerra si trasforma spesso in una serie di date e di giustificazioni politiche, così si cresce prendendone distacco. A malapena ho studiato la seconda guerra mondiale, era la fine dell’anno scolastico, di corsa, quando sui banchi pensavamo all’estate dopo gli esami. Mai una parola su ciò che era accaduto dopo il famoso 1945, su ciò che si vedeva in tv e che quindi era reale ai nostri occhi. Così accade che per la maggioranza di coloro che le ferite della guerra non le hanno viste da vicino la sensazione è quella che la guerra la facciano sempre gli altri, alle volte anche i vicini, però non qui sotto casa, oppure i nonni, i bisnonni, o i nonni degli amici, ma sempre nel passato più o meno remoto, il passato dei libri e dei vecchi filmati storici.
Nel delirio dei social di questi giorni dove tutti si accaniscono contro tutti – tanto per cambiare – ho letto più volte chi definiva ipocrite le persone che si sbilanciavano nel manifestare il loro malessere, chiedendo con veemenza, “Dove eravate durante la guerra in [aggiungere nazione o geopolitica a preferenza]?”, postando bollettini di guerra dei vari conflitti giornalieri e chiosando poi con giudizi e affermazioni taglienti “ora che le persone vi somigliano vi svegliate“ oppure “Il vostro non è dolore, è paura”. La paura, dici poco. E così, non riconoscendo la loro stessa paura in quelle parole continuano a fomentare un altro conflitto diffuso, quello mediatico, quello della presa di posizione netta e reattiva, quello del con me o contro di me, sempre più violento e che da anni sta fomentando rabbia e frustrazione, incrinando relazioni, diffondendo odio e aumentando le divisioni.
Siamo esseri umani, limitati e spinti dal senso di sopravvivenza, non è un segreto. Penso che riconoscere oggi una minaccia molto simile alle guerre mondiali dove si percepisce la possibilità di un coinvolgimento diretto svegli per forza di cose un senso di pericolo domestico mai davvero sentito prima, se non per certi aspetti all’inizio della pandemia di Covid, non significa che prima non provassimo orrore o disgusto o paura nei confronti di un mondo assurdo, ma prima empatizzavamo per qualche minuto, qualche ora, qualche giorno, ma era pur sempre una partecipazione lontana, è vero. Del resto, l’essere umano funziona così, dopo un po’ deve dimenticarsi del dolore degli altri per andare avanti, e sentirsi in colpa o insultare gli altri per questo è ridicolo oltre che controproducente. E poi, questa, come tutte le guerre moderne, e ancor più delle altre, oltre a essere una guerra fisica è una guerra mediatica, che ci piomba addosso dopo – durante – una pandemia, che a sua volta è stata ed è una guerra mediatica – anche se improvvisamente sembra essere passata in sordina.
Siamo completamente immersi e bombardati da notizie catastrofiche che trovare un senso al futuro sta diventando sempre più difficile, tanto che per alcuni l’unico futuro sensato sembra essere quello di imbracciare un fucile. Cerco tra le notizie un appiglio per capirci qualcosa, ma più cerco e meno trovo. Ma allora cosa faccio? Smetto di guardare? E se non guardo che persona sono? Eh, però lo sai che se osservi continuamente è peggio, e allora cosa cerchi di fare? La donazione: check, fatto, i beni primari, check, fatto, parole di conforto e supporto diretto a persone coinvolte, check, fatto, ma poi ti rendi conto che finisce lì e tu puoi solo aspettare. Sì, ecco, magari se puoi riesci a dare effettivamente un tetto a chi ne ha bisogno, ma comunque la tua azione è minima rispetto a tutto ciò che sta succedendo e il dolore, la paura, il senso di incertezza rimangono. Rimaniamo faccia a faccia con l’impotenza e lì ci accorgiamo davvero che l’ondata New Age – ma non solo – ci ha piantato nel cervello a causa di vari fraintendimenti il seme di quella pianta infestante dai meravigliosi fiori tossici che ci fa credere di avere il controllo del nostro benessere e della nostra pace interiore, ma quella pianta cresce fino a che fuori non c’è una tempesta troppo più grande della tua volontà, e allora nessuna frase motivazionale regge. Negare che gli eventi esterni possano influenzare il clima delle nostre emozioni e dei nostri pensieri è chiudere gli occhi davanti al fatto che siamo tutti uniti, che siamo animali e che la vita è relazione e che, ci piaccia o no, a un certo punto dobbiamo inevitabilmente fare i conti con ciò che accade fuori dalla nostra casa interiore.
Non so quale sia la soluzione a tutto questo scompenso, e se ci sia. Non so come possiamo accettare di vivere in tempi bui e continuare ad andare avanti, ma di sicuro non siamo isole, viviamo in un insieme, che nonostante la globalizzazione stentiamo a riconoscere. Questa incapacità di vederci come un insieme lo si sente fortissimo ad esempio per quanto riguarda l’ambiente, che ancora una volta sembra sparire dalle prima pagine dei giornali, se non per urlare all’emergenza e poi tornare al silenzio su proposte e possibilità. Ma, nel silenzio, molte persone faticano sempre di più ad avere fiducia nel futuro – soprattutto le più giovani. Ci carichiamo sempre di più di responsabilità individuali, perché non sentiamo di appartenere a una collettività, se non – di tanto in tanto – sui social. Lì siamo tutti insieme, ma comunque uno contro l’altro, perché non sappiamo davvero riunirci. Ma più ci dividiamo, più ci sentiamo soli, e meno c’è fiducia e speranza.
Sono giunta alla conclusione che forse una forma di salvezza si annida timida nel valorizzare i gesti di cura verso gli altri, verso noi stessi e verso il nostro ambiente, acquisire consapevolezza verso quello che diciamo e verso il modo in cui lo esprimiamo, in maniera verbale e non. Facendo cadere i facili giudizi, ascoltando davvero quando si chiede “come stai?”, magari iniziando a chiederlo una volta in più, e provando a rispondere a quella stessa domanda con onestà, aprendosi al confronto. Solo questa vicinanza ci può aiutare a gestire in maniera positiva l’impotenza.