4 laureati su 10 non lavorano a 3 anni dal titolo. Come si può parlare di pensione?

A corrente alternata, il tema della riforma delle pensioni ha riempito la bocca di ogni politico dell’arco parlamentare. Il nostro sistema previdenziale continua a spostare un grande numero di voti, dividendo storicamente le forze politiche tra la fazione del calcolo della pensione con il metodo contributivo e con quello retributivo. L’unica eccezione è stato il fronte comune contro la legge Fornero del 2011. La riforma delle pensioni dell’ex ministra dell’Economia del governo Monti ha introdotto l’innalzamento dell’età pensionabile, l’abolizione delle pensioni di anzianità, l’Opzione donna – che consente alle lavoratrici dipendenti di andare in pensione anticipatamente con un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e un’età pari o superiore a 58 anni –, l’Ape e l’Ape social (anticipo pensionistico). Per molti economisti, tra cui quelli interpellati dalla Commissione Ue sulle pensioni 2018, queste misure sono molto rischiose per chi ha una carriera corta o non continuativa.

L’ultimo grande cambiamento è stata la riforma firmata dalla Lega di Salvini, Quota 100, operativa dal 2019, che consente l’uscita anticipata dal mondo del lavoro per tutti coloro che hanno maturato almeno 38 anni di contributi con un’età anagrafica minima di 62 anni. La nuova legge è l’ennesima dimostrazione delle generose caratteristiche del sistema previdenziale italiano che, dalla riforma Brodolini del 1968, hanno portato alla crisi della sua sostenibilità a causa di un cambiamento demografico e del mondo del lavoro.

Elsa Fornero

Misure come il sistema retributivo, le pensioni di anzianità e la perequazione automatica delle pensioni all’indice dei prezzi al consumo hanno riguardato quasi esclusivamente il contenitore – metodo contributivo o retributivo – e quasi per niente il contenuto, cioè il lavoro. “I giovani emigrano perché non c’è lavoro, e non perché non avranno una pensione”, ha spesso ripetuto la stessa Elsa Fornero, semplificando quello che dovrebbe essere il primo problema del Paese. Mentre nazioni come la Francia e la Cina hanno cambiato negli ultimi anni le proprie politiche economiche e sociali – a cominciare da quelle per la natalità, per ammortizzare il rovesciamento della piramide demografica e ristabilire l’equilibrio che dovrebbe esistere tra quanti vanno in pensione e quanti devono finanziare il sistema previdenziale – il nostro Paese si è limitato ad approvare, sull’onda dell’emergenza, riforme che gravano solo sulla spesa previdenziale e non sugli introiti contributivi necessari a finanziarla. Il risultato è che le maggiori criticità si sono abbattute proprio su coloro che avrebbero dovuto beneficiare delle nuove tutele, che un lavoro non ce l’hanno e che i contributi non riescono neanche a pagarli.

L’andamento del mercato del lavoro italiano è altalenante, i precari e gli occupati a tempo sono in aumento, mentre è sempre più diffuso un senso di precarietà tra i cittadini. A inizio gennaio, a conferma della sua volubilità, la situazione sembrava però aver preso la china giusta, con dati sempre più incoraggianti, il record di occupati (+41mila), il tasso di occupazione a quota 59,4% e una buona dose di fiducia per i membri dell’attuale governo.  Si tratta di dati tipici di un settore instabile come quello del lavoro italiano, che spiegano bene la situazione del nostro Paese, tra impieghi di bassa qualità e una rete di protezione generale quasi del tutto assente.

È vero che negli ultimi anni l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è scesa, ma si tratta di progressi lenti e non comparabili a quelli di altri Paesi con economie simili alla nostra, che confermano la teoria, argomentata anche dal rapporto Benessere equo e sostenibile in Italia dell’Istat, per cui a un miglioramento nelle statistiche sul numero di occupati non corrisponde per forza a un miglioramento significativo delle loro condizioni di vita. Nel 2018, per esempio, solo 2 italiani su 5 si ritenevano soddisfatti della propria vita, nonostante la statistica parli di un miglioramento nei livelli del benessere collettivo. Allo stesso tempo, circa 2 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni viveva in condizioni di sofferenza, molto spesso senza un lavoro e con conseguenti problemi di salute.

L’Italia sta entrando in una nuova fase della sua storia che corrisponde a un impoverimento della forza lavoro nelle età più attive e produttive. Per la combinazione tra riduzione demografica e deboli percorsi professionali, nei prossimi dieci anni il mondo del lavoro rischia infatti di perdere un lavoratore su cinque. Il motivo, oltre a quello demografico, si deve ricercare nelle ore di lavoro ancora sotto il livello pre-crisi 2008 a causa dell’esplosione del part-time involontario (in termini di monte ore siamo sotto del 4,8% rispetto alla fine del 2007), nei salari che stagnano (l’aumento medio annuo dei salari reali nell’area Ocse è passato dal 2,4% del quarto trimestre 2007 all’1,5 medio nel 2017) e nell’insistenza dei governi nel voler riformare un sistema pensionistico ormai obsoleto.

Dopo più di dieci anni dal crac di Lehman Brothers e la crisi economica globale del 2008 l’Italia è tornata sopra i 23 milioni di occupati grazie a una ripresa modesta. Dal quell’anno, tuttavia, l’occupazione italiana non è stata più la stessa: la precarizzazione dei rapporti, il boom della disoccupazione giovanile anche tra i laureati, la diffusione delle basse qualifiche, i rischi legati alla crescente automazione, le incognite legate all’invecchiamento demografico, l’acuirsi del divario Nord-Sud sono solo alcuni dei nodi non ancora sciolti in questi anni di crescita quasi esclusivamente finanziaria.

Alla fine del 2019 gli occupati sono scesi di 75mila unità, facendo registrare la flessione più marcata dal febbraio 2016, dopo alcuni mesi di crescita stabile. Ricordando che il calcolo statistico degli occupati e dei disoccupati si basa su individui che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana presa in esame, se si guarda al volume delle ore complessive lavorate, emergeva fino a poco tempo fa la realtà di un mercato dove più persone lavoravano, ma con medie orarie molto basse. Al momento il tempo è lo stesso, ma gli occupati sono meno.

Un’altra criticità è legata ai nuovi posti di lavoro. Nel 2018 e nella prima parte del 2019, secondo il report sull’economia delle regioni di Bankitalia, si sono distribuiti per l’87% al Centro-Nord e per il 13% al Sud. Un divario geografico nei ritmi di crescita dell’occupazione che al Sud e nelle Isole ha creato appena  40.614 nuovi contratti, la metà dei quali part-time. Per fare un paragone, il solo Veneto ne ha registrati 40.329.

L’effetto combinato della crisi economica e delle trasformazioni demografiche si aggrava anche con la situazione post laurea degli studenti: in Italia, secondo l’Eurostat, quattro laureati su dieci (il 40,2%) non lavorano a tre anni dal titolo. È comprensibile, quindi, che tra l’altalena dei dati, la bassa qualità di molti posti di lavoro e le numerose discussioni sulle crisi aziendali, nel Paese sia sempre più acuto il pessimismo dei cittadini. Meno chiaro è invece il ritorno a misure e tutele del passato non adatte ai mutamenti, demografici o strutturali, delle nuove professioni. Jobs act e articolo 18 sono l’esempio più lampante. Dopo la sentenza della Consulta del 2018, la disciplina sui licenziamenti prevista nella misura del governo Renzi ha subito drastiche modifiche, rendendo il grado di discrezionalità dei giudici in caso di licenziamento individuale molto ampio e l’indennità risarcitoria per le imprese, rispetto ad altri Paesi, potenzialmente elevata (fino a 36 mesi di stipendio). Sui licenziamenti collettivi, invece, pendono i ricorsi alla Consulta e alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che potrebbero reintrodurre quanto previsto in materia dall’articolo 18.

Eppure, i cosiddetti lavoratori “fragili” – senza un posto a tempo pieno, coinvolti in crisi aziendali, o che vedono il proprio contratto a termine finire senza rinnovo – troverebbero poca utilità in un ritorno dell’articolo 18. Una tutela degna di questo nome dovrebbe prevedere una sinergia tra sostegno economico, formativo e anche personale/psicologico. L’intera categoria ha bisogno di un rafforzamento delle protezioni economiche, con politiche attive che superino, per esempio, la cassa integrazione senza limiti temporali e solo per pochi. A sottolinearlo è stato anche l’ultimo report dell’Ocse, Employment Outlook 2019, per cui in Italia il 15,2% dei posti di lavoro potrebbe scomparire perché a rischio automazione (la media Ocse è del 14%) e un posto di lavoro su tre potrebbe subire sostanziali cambiamenti. Nel nostro Paese questo rischio è aggravato dalla quota di lavoro temporaneo che è superiore alla media Ocse (15,4% contro 11,2%) ed è cresciuta molto nell’ultimo decennio. Rimane complesso, nota l’organizzazione di Parigi, anche l’accesso agli strumenti di protezione sociale: i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti con periodi contributivi intermittenti hanno un accesso più difficile alla protezione sociale. Va meglio per i lavoratori a tempo parziale, che in Italia godono di un sostegno al reddito in caso di inattività simile a quello dei lavoratori con contratto a tempo pieno e indeterminato.

La risposta immediata alle crisi aziendali, spesso mediatizzata dai governi in carica, non risolve il problema di fondo della mancanza di una rete di protezione generale, a prescindere dal tipo di contratto. Le mancanze verso i giovani laureati, i disoccupati con famiglia e i lavoratori autonomi non può essere tamponata con strategie di breve periodo e proposte improvvisate in risposta alle prime pagine dei quotidiani del giorno. Le scelte degli ultimi decenni hanno portato il mercato del lavoro prima e poi il sistema pensionistico al cortocircuito. Il risultato è che l’Italia è ormai un Paese popolato di giovani disoccupati privi di una rete di sicurezza occupazionale, di tutele economiche e, in definitiva, della prospettiva di un futuro dignitoso.

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