Nel 1764 la pubblicazione di un breve saggio diede una scossa ad alcune certezze che resistevano da millenni nella storia dell’uomo. L’opera, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, influenzò la formazione dei successivi sistemi giuridici di gran parte delle democrazie mondiali. Il ventottesimo capitolo, dal titolo “Della pena di morte”, è una feroce critica contro la pena capitale, presente sin dalla preistoria e mai messa in discussione dall’uomo fino a quel momento. Le parole di Beccaria sono inequivocabili: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Per Beccaria la pena capitale è un’inciviltà dello Stato, una legalizzazione della vendetta. Tra i suoi principi di giustizia è di fondamentale importanza offrire al reo l’opportunità di redimersi, e di certo la morte non è un viatico per la redenzione. Inoltre Beccaria mosse una dura critica alla Chiesa, all’epoca contraria al suicidio e favorevole alla pena di morte, sottolineando l’incongruenza di questo pensiero. L’intero universo illuminista accolse con entusiasmo gli scritti di Beccaria. Le approvazioni sembravano consensi mirati alla soppressione di una pratica rozza, disumana, ormai superata. Eppure, ancora oggi, a tre secoli di distanza, 56 Paesi mantengono ancora la pena capitale.
Il 18 dicembre del 2007 l’Onu ha approvato la Moratoria universale della pena di morte. Un traguardo raggiunto anche grazie al contributo dell’Italia, che dal 1994 premeva in questa direzione. Nel documento viene specificato che violi il diritto alla vita riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che è un omicidio premeditato da parte dello Stato, che non è un deterrente efficace e che nega la possibilità di riabilitazione del condannato. Come per molte altre azioni dell’Onu, la moratoria non rappresenta però una legge vincolante, è alla stregua di un consiglio, di un blando ammonimento che può anche non essere seguito. Non a caso due dei cinque membri permanenti dell’Onu, Stati Uniti e Cina, non hanno alcuna intenzione di abolirla.
Già nelle più antiche comunità preistoriche la pena di morte era una sanzione largamente usata, con i capi tribù che decidevano di infliggerla anche per furti di lieve entità. La prima testimonianza scritta viene dal Codice di Hammurabi, risalente al 1750 a.C. circa, in cui la pena capitale era prevista per omicidio, furto e sacrilegio. Tutte le altre civiltà antiche hanno seguito questa prassi. Per gli egizi l’esecuzione avveniva chiudendo il condannato in un sacco, ancora vivo, e gettandolo nel Nilo. Nelle civiltà americane precolombiane (maya, incas e atzechi) il sistema giuridico era molto semplice: non esistevano carceri, la pena per un furto era la schiavitù, per un omicidio la morte. Presso gli antichi greci e romani la pena di morte rimase un punto fermo e inevitabile. Unica eccezione il periodo dell’imperatore Tito, che scelse di non emettere mai condanne a morte, pur senza abolire la pena capitale. Dal Medioevo fino al Diciottesimo secolo, sono stati pochissimi i casi di clemenza di un sovrano. L’imperatore del Giappone Saga fu il primo abolizionista della Storia, ma fu costretto ad abdicare nell’823 e nel suo Paese tornò la pena di morte, che regge tutt’ora. La zarina Elisabetta I nel Diciottesimo secolo ordinò una forte limitazione delle esecuzioni in Russia, ma anche in questo caso senza una continuità negli anni successivi. Le prime reazioni alle idee di Beccaria vennero dall’Italia, che ancora non era unita, e questa fu una svolta storica.
Nel 1786 fu il Granducato di Toscana a diventare il primo Stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte, grazie al granduca Pietro Leopoldo. L’Italia unita la abolì nel 1889, a eccezione dei casi per crimini di guerra e regicidio. Con l’ascesa del fascismo al potere fu reintrodotta nel 1930 attraverso il Codice Rocco, per poi venire abolita definitivamente nel 1948. L’ultima esecuzione italiana risale al 5 marzo 1947 quando tre collaborazionisti, responsabili della deportazione, vennero fucilati. Nell’Italia moderna la fucilazione è stata la forma più comune di esecuzione, mentre nel corso della Storia i metodi sono cambiati radicalmente da luogo a luogo. Tra i romani si usava l’impiccagione o la damnatio ad bestias, in cui i condannati venivano sbranati vivi dagli animali feroci nelle arene, in Spagna si è usata la garrota dal Medioevo fino al periodo di Franco, una macchina che strangola meccanicamente il condannato, mentre in Francia come tutti sanno veniva usata la ghigliottina, introdotta alla fine del Settecento. Le condanne della Santa Inquisizione prevedevano il rogo, mentre lapidazione, impiccagione e iniezione letale – che ha sostituito la sedia elettrica negli Stati Uniti – sono metodi usati ancora oggi, perché evidentemente il Medioevo non è ancora finito. Secondo Amnesty International, nel 2018 si sono avute almeno 690 sentenze capitali, un dato al ribasso se si considera che in Cina non è possibile avere numeri precisi.
Se per Albert Camus la pena di morte è una “disgustosa macelleria”, gli Stati Uniti rappresentano il Paese in cui i macellai continuano a proliferare con quel senso di giustizia all’americana per cui la libera ricerca della felicità non può esistere divisa dal diritto dello Stato di dare la morte. In America la pena capitale è ancora legale a livello federale per 42 reati, mentre è presente nello statuto di 34 Stati. Il Texas è lo Stato con il più alto numero di esecuzioni, e si differenzia dagli altri per un più ampio ventaglio di reati punibili con essa (non soltanto omicidi, ma anche, tra gli altri, il traffico di droga). Accantonato l’uso della sedia elettrica e dell’impiccagione, negli Stati Uniti il metodo più diffuso è l’iniezione letale, ma in alcuni Stati (come ad esempio lo Utah) il condannato può scegliere anche la fucilazione. Pur avendo la pena capitale nei loro statuti, alcuni Stati non la applicano da almeno 10 anni, mentre altri hanno applicato una moratoria sospendendo le condanne. Gli Stati che invece la contemplano a tutti gli effetti non hanno mai applicato la risoluzione dell’Onu. Barack Obama è stato il presidente degli Stati Uniti dall’era di Truman in poi con il più alto numero di commutazioni della pena, mentre la clemenza è svanita con l’arrivo di Donald Trump, che ha ripristinato le esecuzioni capitali anche nelle prigioni federali, dopo più di 16 anni.
Se l’orrore della pena di morte negli Stati Uniti è almeno trasparente, per dati e numeri, in Cina è invece un segreto di Stato. Secondo Amnesty International, pur non riuscendo a definirne il numero esatto, la Cina è il Paese con il più alto numero di esecuzioni al mondo. Inoltre nel codice penale cinese il numero di reati punibili con questa pena si estende fino a toccare l’evasione fiscale, il furto, l’estorsione e addirittura la pirateria informatica. Al secondo posto per numero di esecuzioni si classifica l’Iran, dove i metodi sono lapidazione e impiccagione. In Arabia Saudita il principe Mohammad bin Salman aveva promesso, in un’intervista al Time del luglio 2018, di ridurre al minimo l’uso della pena di morte, per poi comportarsi in modo molto diverso: nel 2019, infatti, sono state uccise 184 persone, 35 in più rispetto al 2018. Bisogna ricordare che nel 2015 l’Arabia Saudita è anche stata nominata dall’Onu alla presidenza di un panel sui diritti umani. Scelta a dir poco discutibile in riferimento a un Paese che si trova ai primi posti per numero di condanne capitali e per la limitazione della libertà d’espressione.
Sulla pena capitale il dibattito è stato inevitabilmente toccato dalla filosofia e dalla religione. Si tramanda che Buddha, il quale predicava la non violenza nei confronti di tutti gli esseri viventi, dicesse: “Il sangue non pulisce ma sporca”. Anche il buddismo odierno condanna la pena capitale, secondo il pensiero per cui la punizione disumana non assolve i reati – mentre è auspicabile una punizione rieducativa – e il reo è tenuto a risarcire, non a soffrire. Eppure nelle nazioni a maggioranza buddista o con un’ampia diffusione del buddismo (come ad esempio Giappone, Cina, Thailandia e Vietnam) è tuttora prevista la pena di morte. Le incongruenze riguardano anche la Chiesa cattolica. Nei testi sacri ci sono versi che si contraddicono, e si nota una discrepanza tra Antico e Nuovo Testamento. Nella Bibbia è scritto che “Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte”, ma nel Vangelo è lo stesso Gesù a chiedere il perdono, criticando l’episodio di una donna condannata alla lapidazione: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”.
Anche nei tempi moderni le versioni della Chiesa non si sono allineate su un unico pensiero. Giovanni Paolo II durante una visita negli Stati Uniti disse: “La pena di morte è crudele e non necessaria, e questo vale anche per colui che ha fatto molto del male”. Eppure il suo successore, Benedetto XVI, ha in seguito scritto: “Può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia”. Francesco ha poi ribaltato ulteriormente il pensiero, scrivendo che “La pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona, e la Chiesa si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.
Il fatto che nel 2020 la pena capitale sia ancora in uso in gran parte del mondo, e specialmente nelle due più grandi potenze economiche – Cina e Usa – è un segnale di arretratezza e brutalità. Il pensiero di Beccaria ha sicuramente influenzato l’Italia, almeno in questo al passo coi tempi e in prima linea per l’abolizione, ed è stato diffuso e sostenuto anche a organizzazioni come Nessuno tocchi Caino. La pena di morte non è altro che l’esaltazione della cultura della violenza, con lo Stato nelle vesti dell’assassino. Uno Stato che smarrisce ogni frammento di superiorità morale quando emette il suo giudizio sugli assassini, diventando esso stesso un assassino. Dostoevskij fu condannato a morte nel 1849 per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi. Si presentò sul patibolo pronto per la fucilazione, quando gli comunicarono la scelta dello zar Nicola I di commutare la pena in lavori forzati. Questa esperienza lo segnerà profondamente, portandolo a scrivere Delitto e castigo e L’idiota, dove scrive: “Uccidere chi ha ucciso è […] un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Ci sono dati casi, in cui l’assalito […] è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. […] Un solo uomo potrebbe chiarire il punto; un uomo cui abbiamo letto la sentenza di morte, e poi detto: ‘Va’, ti è fatta la grazia!’. […] No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può né deve esser lecito applicarla all’uomo”. Dostoevskij fu graziato e divenne una delle menti più brillanti della storia. Le migliaia di persone che ogni anno vengono condannate a morte, e che poi vengono effettivamente uccise, non potranno diventare nulla. Un mondo che non consente la riabilitazione e la sopravvivenza di un essere umano è destinato a collassare su se stesso.