L’oblio oncologico è solo il primo passo, dobbiamo smettere di discriminare i malati di cancro - THE VISION
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Il 28 febbraio è stato depositato in Senato il ddl sul diritto all’oblio oncologico, la proposta di legge prevede che a dieci anni dall’ultimo trattamento e in assenza di recidive – cinque se la diagnosi è stata formulata prima del ventunesimo anno d’età – cada l’obbligo a dover dichiarare di aver avuto una neoplasia quando ci si trova a richiedere un prestito, firmare un nuovo contratto di lavoro e anche in caso di richiesta di adozione. Al momento, infatti, le prassi contrattuali contemplano la possibilità̀ di svolgere indagini sullo stato di salute dei richiedenti e spesso una malattia pregressa rappresenta un limite all’accesso a questi servizi.

Le neoplasie anche nel caso in cui si riesca a guarire, al momento in Italia – ma purtroppo non solo – finiscono per inficiare il benessere e il futuro delle persone per molto tempo, in vari ambiti. Per gran parte dei tribunali italiani, ad esempio, nel caso in cui un ex-paziente avanzi richiesta di adozione, nonostante la guarigione corrisponda al raggiungimento della stessa aspettativa di vita di chi non ha mai sofferto di patologie oncologiche, la malattia pregressa basta per negare la richiesta. Le direttive del parlamento europeo, in realtà, richiedono a tutti gli Stati membri che questo diritto sia garantito entro il 2025 – come già accade in Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Portogallo. L’invito alle istituzioni riguarda anche il riconoscimento delle conseguenze fisiche e mentali e la discriminazione che avviene anche in ambito lavorativo, riconoscendo che, al di là dei trattamenti oncologici, la malattia comporta anche oneri finanziari. Allo stesso tempo il ddl prevede l’istituzione della Consulta per la parità al trattamento degli ex-malati, con il compito di vigilare sull’osservazione delle norme da parte degli istituti bancari e di credito oltre che promuovere una maggiore consapevolezza.

Tra le conseguenze economiche della neoplasia vi è la cosiddetta “tossicità finanziaria”, emersa da uno studio condotto negli Stati Uniti che rivela le falle di un servizio sanitario privato e le sue relative ricadute sul decorso della malattia legate alle difficoltà finanziarie delle persone malate. Anche in Italia, però, nonostante il Sistema Sanitario Nazionale offra una copertura ben diversa, il fenomeno riguarda un quarto delle persone malate, che lamentano un disagio economico legato alla malattia e al suo trattamento. Così, le ricadute economiche della malattia, tra cui le tante spese che paziente e familiari devono affrontare – come spostamenti, cure domiciliari e riabilitazione – si sommano a una diminuzione delle entrate a causa delle difficoltà sul lavoro e delle lunghe liste d’attesa del Sistema Sanitario Nazionale, che spingono i più a rivolgersi a privati. Come se non bastasse, riuscire a ottenere un prestito diventa pressoché impossibile, a causa del rischio d’insolvenza che le assicurazioni e le banche valutano nei confronti del malato o ex-malato.

Questo provvedimento, quindi, risulta estremamente urgente, dato che ogni anno in Italia si diagnosticano 377mila casi di tumore, con più di mille diagnosi al giorno che, con le dovute eccezioni, grazie ai progressi della ricerca, sembrano avere sempre maggiori possibilità di evolversi in una cronicizzazione della malattia o nella guarigione. In campo oncologico, la sensibilizzazione e le conseguenti diagnosi precoci hanno portato a un sensibile miglioramento della prognosi. Secondo il report I numeri del cancro in Italia 2021 il numero dei decessi ha registrato un lieve calo rispetto all’anno precedente; inoltre, i tassi di mortalità in Italia sono decisamente più bassi rispetto alla media europea, mentre sono aumentate le stime di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi, toccando valori superiori di almeno due punti percentuali rispetto all’anno precedente: il 59,4% per gli uomini e il 65% per le donne. Un dato interessante se rapportato a quello del 2007, in cui la sopravvivenza relativa standardizzata a cinque anni dalla diagnosi (per tutti i tumori esclusi i carcinomi della cute) era del del 45,7% negli uomini e del 57,5% nelle donne e che dimostra l’efficacia delle campagne di prevenzione e delle cure. Se da un lato queste sono ottime informazioni, dall’altro, però, i trend temporali mostrano invece un aumento delle diagnosi e di conseguenza anche delle morti – sulla base delle 2,8 milioni nuove diagnosi nel 2020, entro il 2040 si è calcolato un aumento del 21,4%, pari a 3,4 milioni di nuovi casi– cosa che come società mondiale non dovremmo sottovalutare, dato che nella maggior parte dei casi è il nostro stesso ambiente, unito a determinate abitudini, a giocare un ruolo fondamentale nell’aumento delle possibilità di sviluppare un tumore.

I progressi delle cure hanno comunque fatto emergere una nuova categoria sociale, quella dei cosiddetti lungosopravviventi, cioè i pazienti che si possono considerare guariti, avendo un rischio di recidiva paragonabile al rischio di ammalarsi di tumore di chi non lo ha mai avuto. In Italia sono circa 900mila persone e, insieme a coloro che grazie alle terapie riescono a convivere in maniera stabile con la cronicizzazione della malattia, rientrano in questa nuova categoria di invisibili. Tra questi, inoltre, buona parte è rappresentata da ex-pazienti pediatrici che, nonostante abbiano superato da tempo i trattamenti e le cure, si ritrovano a dover affrontare non solo i problemi a lungo termine delle terapie (come la radioterapia, la chemioterapia e l’immunoterapia), ma anche la difficoltà di condizioni di invalidità più o meno gravi, o comunque di malessere cronico, spesso purtroppo ancora incertificabile.

Il paradosso è che il Servizio sanitario nazionale italiano assiste – spesso in maniera eccellente se comparata ad altre realtà – il malato durante le cure, ma una volta guarito lo Stato lo dimentica, nutrendo una concezione abilista che considera la malattia una condizione di svantaggio, addossando una sorta di colpa al malato per la sua condizione. Questo problema strutturale, affonda le radici in una cultura che distingue nettamente le persone sane dalle persone malate, e che per certi aspetti risale alla paura ancestrale che si ha nei confronti della malattia, che da sempre ha avuto molteplici effetti, tra cui proprio l’allontanamento sociale. Spesso, infatti, la malattia crea disagio non solo a chi ne è affetto, ma anche a chi gli sta intorno e sente il bisogno di allontanarsi, una risposta comune all’angoscia della morte: l’evitamento.

Tutto questo porta le persone malate a sentirsi in colpa dopo una diagnosi, una risposta alla perdita di controllo che si riflette nel tentativo di trovare una risposta alla domanda: “Perché proprio a me?”. Ci si sente in colpa perché si pensa di aver fatto qualcosa per causare la malattia o perché non ci si sente più in grado di ricoprire il proprio ruolo nella società o di diventare un peso per i propri cari, e questo sentimento si ripresenta anche in seguito alla guarigione. Secondo studi recenti, ansia e angoscia sono i sintomi più comuni anche dopo anni dall’ultima terapia e tendono ad acuirsi in corrispondenza delle fasi di controllo e follow up. Questa sensazione può degenerare in una vera e propria sindrome del sopravvissuto: la vergogna di avercela fatta mentre altri no, segno che la connotazione morale della malattia è ancora molto forte. Non a caso il pietismo resta la reazione più comune che nega il carattere “naturale” della malattia e perpetra lo stigma. Così, anche una volta guarite le persone scelgono spesso di nascondere la malattia, a cui è in molti casi è legato un sentimento di vergogna.

Come spiegato dal filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer disponiamo di una conoscenza approssimativa di tutte le malattie perché siamo in grado di riconoscere in ognuna di esse il “guasto” che deve essere riparato, mentre per assurdo si potrebbe dire che la salute non goda della stessa attenzione. Secondo l’Oms la salute è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale dell’uomo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale e non la sola assenza di malattia. Una sensazione invisibile, difficile da rilevare e di cui siamo perlopiù incoscienti. Si potrebbe dire che la salute venga presa in considerazione solo nel momento in cui si ha a che fare con la malattia, che secondo Gadamer “ci rende consapevoli del nostro corpo fino all’inopportunità”. Così, come per la medicina allopatica tutto ciò che si frappone tra la malattia e la salute resta per lo più ignorato, anche noi siamo portati a discriminare e ignorare tutto ciò che possa esserci tra queste due condizioni. A livello culturale l’assurdo sta nel fatto che nonostante la malattia possa considerarsi uno stato alterato resta comunque un evento naturale, ma il nostro rapporto con la malattia è segnato dal tentativo di rimuoverla. Il nostro rigetto verso la sofferenza e la morte è noto, ma che questo debba voler dire rendere invisibili le persone malate è una drammatica conseguenza della paura di avere a che fare con la caducità della vita. In questo senso sono evidenti i limiti della medicina moderna, che si occupa unicamente di trovare una cura al male. Una concezione che ha sì permesso il progresso della ricerca e il raggiungimento di nuovi traguardi, ma che crea anche numerosi punti ciechi e lascia molte domande senza risposta.

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Al di là delle problematiche fisiche e psicologiche individuali, la malattia non dovrebbe avere come ulteriore effetto quello di escludere l’individuo dal tessuto sociale e marginalizzarlo. Una maggiore attenzione verso la condizione delle persone malate – meno retorica e al tempo stesso disumanizzante – è l’unica cura possibile alla mancanza del riconoscimento di diritti e problematiche individuali che sorgono contestualmente alla malattia. Proprio questa cecità è il motivo per il quale nel 2022, nonostante la malattia sia sempre stata parte integrante della nostra esistenza, siamo costretti a emanare leggi che contrastino la sua discriminazione. A livello culturale, la speranza che un giorno saremo liberi da ogni malattia è radicata in ogni religione come, ad esempio, nel “padre nostro” e rappresenta il sogno comune di una vita eterna libera da ogni male. Guardando alla realtà delle cose, in particolare dopo questi anni di pandemia, dovremmo però essere ancora più coscienti del fatto che non ne saremo mai liberi, proprio per nostra natura. Urge allora una nuova presa di coscienza della malattia, intesa come evento spontaneo, privo di connotazioni morali, in modo tale da eliminare una alla volta ogni discriminazione. L’attuazione del diritto oncologico potrebbe rappresentare un primo passo in avanti, ma in assenza di una rivalutazione culturale e sociale del malato, che ponga al centro dell’attenzione le problematiche concrete della sua malattia, l’obiettivo di garantire a ogni guarito di potersi davvero lasciare alle spalle ciò che ha attraversato rischia di essere solo un miraggio.

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