L’aumento delle disuguaglianze dovuto alla crisi del Covid-19 è ormai un dato indiscutibile. Nel rapporto del gennaio 2021 Il Virus della disuguaglianza, l’Ong Oxfam International ha spiegato come nel 2020 i 10 miliardari più ricchi del mondo avessero aumentato la propria ricchezza complessiva di 540 miliardi di dollari. Nel frattempo, l’economia mondiale ha conosciuto una recessione, che ha ridotto del 3,5% la crescita globale del Pil: a pagarne le spese sono state le fasce medie e medio-basse della popolazione, soprattutto lavoratori precari, giovani e donne, come recentemente sottolineato in Italia dall’Istat.
Le evidenze della disuguaglianza dovuta alla crisi sono ormai così palesi che anche istituzioni storicamente vicine a posizioni conservatrici e neoliberiste chiedono un cambio di passo. Alla fine del 2020, il Financial Times, il giornale della City londinese, ha riportato in un articolo dal titolo How the pandemic is worsening inequality dati preoccupanti sulla crescente disuguaglianza tra Paesi ricchi e Paesi poveri e all’interno dei singoli Stati. Più recentemente l’ha fatto anche il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), una delle istituzioni economiche più attive nel corso degli ultimi decenni a favore di politiche di detassazione, liberalizzazione dei mercati e tagli allo stato sociale. Nell’ultimo report fiscale dal titolo A Fair Shot, il Fondo Monetario Internazionale denuncia l’aumento delle disuguaglianze, la povertà crescente, la mancata mobilità intergenerazionale e la crisi del mondo educativo in tutto il Pianeta. A questo unisce la richiesta di mettere in moto politiche redistributive basate su un aumento della tassazione per le fasce più abbienti della popolazione.
Il rapporto del Fondo Monetario internazionale si concentra su due aspetti: redistribution e predistribution. In primo luogo, viene chiesta una maggiore redistribuzione della ricchezza, partendo da un aumento della tassazione sui redditi più alti e sulle rendite da capitale. Si parla proprio di wealth taxes, ovvero tasse sulla ricchezza (o benessere), ciò che nel dibattito pubblico italiano è comunemente conosciuto con il nome di “patrimoniale”: queste includono tasse sullo stock totale di ricchezza (mobiliare e immobiliare), sui trasferimenti finanziari e sull’eredità. Secondo gli studi dell’Fmi una tassa ricorrente dell’1% sulla ricchezza totale dell’1% più ricco della popolazione mondiale ridurrebbe le disuguaglianze e aumenterebbe il Pil in una percentuale compresa tra lo 0,4 e lo 0,6%.
Il Fondo Monetario Internazionale chiede che misure come la tassa sui patrimoni vengano adottate non strutturalmente, ma solo per alcuni anni e in maniera eccezionale, in modo da ridurre il divario di ricchezza quando diventa eccessivamente elevato. Accanto a questo, però, viene ribadita la necessità di una tassazione sul reddito maggiormente orientata alla progressività, alzando le aliquote di coloro che guadagnano cifre più elevate. I fondi così ottenuti potranno essere spesi per garantire la mobilità intergenerazionale e la predistribution, ovvero la garanzia di servizi base di qualità a tutta la popolazione. L’Fmi evidenzia i vantaggi relativi alla spesa pubblica in educazione, salute e infrastrutture, la quale migliora l’accesso ai servizi e l’investimento in capitale umano, creando una società dove le condizioni di partenza sono più eque e giuste per tutti i suoi cittadini.
Il Fondo Monetario Internazionale non è la sola istituzione a segnare un cambiamento profondo a livello di linea politica: la sua posizione si inserisce in una tendenza più generale che, dopo decenni di neoliberismo, mette in discussione la totale assenza di regolazione dei mercati e porta avanti proposte concrete per una società più equa. Economisti e intellettuali che per anni hanno mantenuto posizioni liberiste e centriste ora vedono più positivamente un intervento pubblico per ridurre le disuguaglianze. Un esempio è Paul Collier, professore di economia all’Università di Oxford, da sempre sostenitore di posizioni liberali e moderate: nel suo ultimo libro, Il futuro del capitalismo, Collier critica i super stipendi degli amministratori delegati (negli Stati Uniti, trent’anni fa, il rapporto tra il salario di un operaio e quello di un Ceo era di 20 a 1, mentre oggi è di 231 a 1) e sostiene una riforma del sistema economico che passi da una redistribuzione della ricchezza tra centro e periferia e una maggior etica economica.
Ma sono gli Stati nazionali i veri protagonisti di questa svolta. In molti Paesi, infatti, il pubblico si sta riappropriando del ruolo di regolatore e ridistributore della ricchezza. In Cina il governo sta spingendo per approvare una più stringente regolamentazione dei giganti dell’hi-tech come Alibaba, Huawei e Tencent, promuovendo una politica antitrust che eviti la formazione di monopoli. In Nuova Zelanda la premier socialdemocratica Jacinda Ardern ha fatto approvare a fine marzo l’aumento dei salari minimi a 20 dollari neozelandesi l’ora, accompagnando questa politica con un aumento dell’aliquota al 39% per i redditi più alti, che riguarderà circa il 2% della popolazione neozelandese. Ancora più importanti sono le misure adottate negli Stati Uniti: l’amministrazione guidata dal presidente Joe Biden (che negli oltre 40 anni di carriera politica si è sempre distinto per posizioni centriste e moderate) sta segnando un cambio di passo radicale. Secondo il New York Times, il piano di stimoli da 1,9 trilioni di dollari approvato dal Presidente per combattere le conseguenze del Covid-19 è uno degli atti politici più importanti degli ultimi decenni. Si tratta di una cifra poco inferiore al Pil italiano di un anno, grazie alla quale il quinto più povero delle famiglie vedrà il proprio reddito aumentare del 20%. Un cambiamento radicale per un Paese che ha visto, per il momento, andare in crisi le posizioni Reaganiane dell’intervento statale minimo in favore del ritorno del cosiddetto big government, ovvero uno Stato federale e locale che agisce per regolare il mercato e ridurre le ingiustizie sociali invece che affidarsi alla capacità di autoregolarsi del mercato teorizzata da Adam Smith e i suoi sostenitori. Il Presidente Biden ha anche proposto a Camera e Senato un piano di investimenti da 2mila miliardi di dollari per il potenziamento e ammodernamento delle infrastrutture, la transizione ecologica e l’aggiornamento della forza lavoro statunitense nella prospettiva della new economy, l’aumento della corporate tax (la tassa sulle aziende) dal 21 al 28% e un incremento del salario minimo federale a 15 dollari l’ora.
L’Italia non sembra avere la stessa reattività di altri Paesi del mondo. A parte un breve riferimento alla necessità di combattere le disuguaglianze nel primo discorso tenuto dal Presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato, nulla sembra muoversi in questa direzione. Eppure, l’Italia è un Paese sempre più diseguale: secondo Eurostat, il coefficiente di Gini che misura la disuguaglianza è pari a 32,8 rispetto a una media nei paesi dell’Unione europea di 30,2. Nel suo rapporto Disuguitalia del gennaio 2021, Oxfam Italia spiega che il 20% più ricco della popolazione detiene il 69,8% della ricchezza nazionale, mentre il 20% più povero soltanto l’1,3 %. Negli ultimi 20 anni questi dati sono gradualmente peggiorati, con la parte più ricca della popolazione che diventava sempre più ricca mentre i salari medi si abbassavano. Negli ultimi anni sono state portate avanti alcune proposte per arginare la crescente povertà come il Reddito d’inclusione e il Reddito di cittadinanza (nonostante le debolezze di quest’ultimo), ma quasi nessun esponente politico ha affrontato in modo strutturale la questione della redistribuzione della ricchezza.
Lo scorso autunno, è stato fatto un tentativo con l’emendamento alla legge di bilancio elaborato dal responsabile per l’economia di Sinistra Italiana Giovanni Paglia, portato avanti dal collega di partito Nicola Fratoianni e da alcuni esponenti dell’ala sinistra del Partito Democratico, come Matteo Orfini, Giuditta Pini e Chiara Gribaudo. L’emendamento avrebbe introdotto una patrimoniale progressiva per i patrimoni sopra i 500mila euro. La misura partiva dai patrimoni oltre il mezzo milione di euro con un’aliquota allo 0,2%, per poi salire allo 0,5% sopra il milione di euro, all’1 % sopra i 5 milioni e infine al 2% per i patrimoni oltre i 50 milioni di euro. L’opinione pubblica sfavorevole e pilotata ad arte contro il suo stesso interesse da alcuni partiti e media ha fatto sì che la proposta naufragasse nel giro di pochi giorni.
Adesso che anche il Fondo Monetario Internazionale si dichiara favorevole a misure di questo tipo, è fondamentale che i partiti progressisti sappiano sfruttare questo assist importante, a cominciare dal Partito Democratico di Enrico Letta. È un’occasione da cogliere se si vuole veramente segnare una discontinuità con il passato e stare dalla parte di chi ha bisogno, portando avanti una battaglia non solo politica, ma anche culturale e sociale per ridare legittimità al settore pubblico e ridefinire il concetto di giustizia in un’ottica più inclusiva. Il consenso trasversale che si sta formando a livello internazionale dimostra che non si tratta di un’utopia socialista, ma di una misura di buon senso e a vantaggio di tutti. È il momento che anche l’Italia lo capisca.