Il parto non può essere un trauma. Per evitarlo dobbiamo ripartire dai bisogni delle donne. - THE VISION

Un’amica mi ha chiesto cosa bisogna fare secondo me per poter avere il tanto fantomatico parto positivo. Purtroppo questa è una delle domande più difficili a cui rispondere che coinvolgono individui, cultura, Stato e sanità, e lo dico in veste di insegnante di yoga in gravidanza e post-parto, così come da figlia e nipote di ostetriche (ho avuto un punto di vista per certi aspetti privilegiato e interno a questo ambito) e non ultimo da donna che ha partorito. Il parto, per quanto una donna possa arrivarci preparata, resta infatti un evento estremamente complesso, in cui entrano in gioco molte variabili appartenenti a una pluralità di ambiti, non tutte controllabili.

Il modo migliore per renderlo positivo ed evitare che si trasformi in un incubo è essere presenti a se stesse, facendo il possibile prima di arrivare in sala parto per ridurre il numero degli eventuali accidenti, quantomeno di quelli evitabili. Per prima cosa è molto importante, come si ripete nei corsi pre-parto di molte strutture milanesi (città che in questo ambito rappresenta davvero un’avanguardia nel Paese), farsi un’idea il più concreta possibile del tipo di parto che si desidera. Successivamente, aggiungo io, sarebbe importante accertarsi che quell’idea corrisponda a una situazione reale e ragionevolmente ottenibile. A quel punto si può valutare quale sia la struttura più adatta dove essere accolte, considerando i vari pro e contro e mettendosi infine, con un discreto grado di tranquillità e abbandono, nelle mani di professionisti esperti con cui si condivida una visione simile nei confronti del corpo, del benessere psicologico e della nascita – se non sono singole persone (dato che i prezzi per assumere uno staff in libera professione – o anche solo due ostetriche e un medico da remoto – sono proibitivi) è ragionevole valutare la visione generale della struttura che scegliamo (per farlo, vengono organizzati nel corso dell’anno vari open day e conferenze aperte al pubblico legate al percorso nascita). Il problema è che già questa fase in molte regioni e città fila tutt’altro che liscia. Un esempio banale: una grande città ha molte più opzioni di una città medio-piccola e partorire lontano da casa è tutt’altro che agevole, non ultimo per le questioni burocratiche legate alla sanità che tutti conosciamo.

È poi fondamentale venire a patti con le nostre paure e con i nostri pregiudizi, che possono essere tanti e a volte molto fuorvianti, è importante riuscire ad accettare che qualcosa possa andare diversamente da come lo avevamo preventivato – e anche qui lo spettro di possibilità è piuttosto ampio, e coinvolge gradi di gravità purtroppo molto diversi. Affrontare questo aspetto, però, è già più semplice almeno da un punto di vista organizzativo. La psicoterapia, infatti, in presenza o da remoto è diffusa in maniera piuttosto endemica e in alcune regioni durante la gravidanza rientra a carico del sistema sanitario. È molto importante prepararsi psicologicamente al parto e alla maternità, venendo seguite prima e dopo dalla persona giusta, in modo da portare alla luce eventuali traumi e non detti, permettendoci di dare loro uno spazio nella nostra esperienza, in modo che non ci facciano soffrire più del dovuto.

La gestione delle nascite, come ho detto in passato più volte, può essere ancora migliorata, eppure in alcune città negli ultimi dieci anni, complici le direttive dell’Organizzazione mondiale della Sanità e la crescente sensibilità da parte delle donne stesse, ha compiuto passi enormi, raggiungendo eccellenze che possono rappresentare modelli virtuosi da seguire. Sicuramente, il lavoro che le istituzioni sanitarie, così come il personale specializzato che le popola, e lo Stato possono fare a questo riguardo è ancora tanto (in particolare per quanto riguarda la garanzia di accesso a determinati servizi in maniera endemica in tutto il territorio e di rispetto della paziente); al tempo stesso, però, le singole donne possono fare la loro parte. Per la prima volta, infatti, abbiamo a disposizione una quantità di informazioni inedite rispetto al passato. Chi lo desidera, oggi, ha accesso a un’immensa e variegata quantità di materiali che possono essere di volta in volta valutati ed eventualmente scartati, così come di figure professionali. Per sviluppare una coscienza riguardo a un tema ci vuole tempo, è vero, ma è il tempo necessario a diventare il più possibile padrone di se stesse, a scoprire e conoscere e soprattutto a dar forma a una propria posizione, invece di affidarsi a quella di qualcun altro, per quanto esperto. Questa presa di coscienza personale è necessaria per cambiare l’impronta politica dell’approccio sanitario. È difficile, è vero; richiede studio ed energia, è vero, e a volte sacrifici, sì; ma è necessaria, anche nel migliore dei mondi possibili.

Uno dei problemi fondamentali sul parto è proprio il confine tra attenzione e abbandono. Se da un lato lo stato di guardia e pericolo fa produrre ormoni in netto contrasto al processo fisiologico del parto, il totale abbandono in alcuni contesti rischia di farci subire violenze ostetriche. È quindi necessario concentrarsi prima, in modo da potersi poi affidare in quelle che si considerano buone mani, di cui ci si fida per vari motivi. Al tempo stesso è importante che anche i famigliari (il o la compagna, i genitori di entrambi, eventuali fratelli e sorelle e magari gli amici più intimi) siano sensibili al percorso compiuto dalla donna e maturino, per quanto in maniera diversa, strumenti similari, in modo da poterla sostenere e aiutare sia prima, che durante (in particolare il o la partner), che dopo il parto.

Ovviamente la responsabilità non deve certo ricadere sull’impegno personale, anzi, è importante che si crei un dialogo e una sinergia tra cittadine e istituzioni, anche e soprattutto rispetto alla ginecologia e all’ostetricia. Non si può, all’attuale stato dei fatti, sperare che qualcuno che non siamo noi, sappia cosa vogliamo o sia pronto a darcelo, neanche nella struttura più blasonata e ben recensita. Perché il sommo bene, per quanto riguarda il parto, è ancora ben lontano da aver raggiunto una posizione super partes. Uno dei motivi per cui superata la medicalizzazione è difficile dare forma a una sistematizzazione differente è che il parto è una delle esperienze più personali che esistano ed è quindi molto difficile che si riescano a dare risposte univoche, che facciano il bene di tutte.

“Ignorantia legis non excusat”, in questo caso la legge è il nostro corpo, la nostra mente, la nostra condizione e la nostra fisiologia – perché è vero che è fastidioso quando i pazienti si mettono al livello dei medici credendo di averne le competenze, ma in un avvenimento tanto sfumato e in teoria spontaneo come il parto, è meglio essere a conoscenza di ciò a cui si sta andando incontro. È chiaro, come in ogni cosa della vita: più cose si sanno, meglio è. Per questo la conoscenza è potere, per questo è tanto scomoda e per questo lo Stato si dovrebbe impegnare fin dalla scuola dell’obbligo a fornirci strumenti per comprendere i nostri stessi corpi e la biologia che li regola, così come la sessualità, le emozioni e la mente. Eppure fa più comodo non sia così, perché un popolo colto è un popolo con più pretese e soprattutto è un popolo con gli strumenti per trasformare quelle stesse pretese in realtà. Un popolo maturo.

Qui si apre un altro capitolo fondamentale legato a questo tema: l’infantilizzazione sistematica delle gravide e delle madri, come se le donne, una volta portatrici di ovulo concepito, non fossero più persone responsabili di se stesse in grado di intendere e di volere e di sapere cos’è meglio per loro e per la loro prole, ma diventassero bambine spaesate, minori in attesa che qualcuno dica loro cosa e come fare, sia un o una ginecologa, una doula, una o un ostetrico, una o un personal trainer. La donna gravida diventa corpo nelle mani dello Stato. Non si può sapere tutto, è vero, o meglio, non si può avere esperienza pratica su alcuni determinati ambiti del sapere, si può però impegnarsi per capire e cambiare la propria attenzione nei riguardi di determinati ambiti del mondo che ci riguardano in prima persona, come può essere appunto la gravidanza, il parto, la maternità. Non possiamo essere tanto ingenue da credere che qualcuno ci dica come fare e che quello che ci dice sia davvero la cosa migliore per noi. La prova ne è che moltissime madri portano i segni di un’esperienza traumatica legata al parto, così traumatica da decidere di non partorire mai più.

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Sicuramente il problema è culturale, storico e sociale, e inoltre spesso manca una rete di supporto, in grado di fare spazio a un dialogo sicuro attraverso cui confrontarsi e formarsi. E anche quando c’è non è facile da frequentare (soprattutto per le madri, come faceva notare la filosofa Selena Pastorino, autrice di Filosofia della maternità). La nostra generazione è povera di tempo e in molte non possono permettersi di rinunciare a un’ora di lavoro per poter frequentare a mente lucida un dibattito femminista, o leggere un saggio sulla medicalizzazione del parto, per fare il primo esempio che mi viene in mente: anche per questo si butta il cuore oltre l’ostacolo rischiando di dover affrontare il peggio (che a onor del vero non sempre poi si verifica, anche se certe percentuali sono tutt’altro che trascurabili a voler analizzare i fatti da un punto di vista statistico).

Qualche tempo fa ho visto un meme in cui un terapista diceva a un paziente “Ha detto che è deluso dalla vita e dal modo in cui funziona il mondo. Quali erano le sue aspettative?”. A queste parole seguiva un’immagine di Felicittà, la città disegnata dal grande illustratore Richard Scarry. È quello che spesso ho visto succedere in relazione al parto e alla maternità, e succede anche in quelle condizioni di privilegio in cui sarebbe ampiamente evitabile, soprattutto a causa della retorica anestetizzante e narcotica legata tutt’oggi al diventare madri. Forse, con una buona dose di anarchismo, i tempi sarebbero maturi per iniziare a far cambiare le cose, ma mentre la macchina istituzionale si muove con lentezza (grazie ad alcune, rare, figure che per decenni si sono impegnate nella lotta), sperando poi che non torni rapidamente indietro, dobbiamo prenderci cura di noi stesse e possibilmente delle altre donne, a partire dai nostri corpi. Il primo modo per farlo è convincerci di essere, almeno in questo frangente, responsabili di noi stesse e degli strumenti che siamo state capaci di affinare.

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