Non è un mistero che i Paesi scandinavi siano un modello per la parità di genere: da anni Islanda, Norvegia, Finlandia e Svezia sono ai primi quattro posti nel Global Gender Gap Report, l’indice del World Economic Forum per la parità di salario. Anche per il Gender Equality Index dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, Svezia, Danimarca, e Finlandia – la Norvegia non è conteggiata perché non fa parte dell’Unione Europea – sono i Paesi più virtuosi. La Scandinavia è stata pioniera anche per quanto riguarda la rappresentatività politica: l’Islanda è stato il primo Paese al mondo ad avere una donna come Presidente della Repubblica, Vigdís Finnbogadóttir, e in generale quasi tutte le nazioni del Nord Europa hanno concesso il voto ad alcune donne già a partire dalla fine dell’Ottocento, ad esempio alle vedove o alle iscritte alle gilde. Da un po’ di tempo, però, esistono dei dati che sembrano incrinare l’immagine della Scandinavia come di un “paradiso femminista”, come spesso viene chiamata. Nonostante i tanti successi nel campo dei diritti civili, l’efficienza del welfare e la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale, i tassi di violenza domestica di queste nazioni restano infatti molto più alti che nel resto dell’Europa. Questo fenomeno è stato chiamato “paradosso nordico”.
Se n’è cominciato a discutere intorno al 2014, quando da un rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali risultava che i Paesi con i più alti tassi di “Intimate partner violence” (IPV) erano proprio quelli con i risultati migliori nella parità di genere. Il 32% delle donne in Danimarca, il 30% in Finlandia e il 28% in Svezia dichiarava di aver subìto violenza in una relazione intima, contro una media europea del 22%. Questi dati sembravano contraddire ciò che da sempre sostengono femministe e organizzazioni per la parità di genere, ovvero che la violenza può diminuire laddove si eliminano le disuguaglianze sociali tra uomini e donne. Gli studiosi si sono quindi subito impegnati per cercare di spiegare le ragioni di questo apparente paradosso. La prima ipotesi era che in queste nazioni così avanzate gli uomini utilizzino la violenza contro le proprie partner come forma di vendetta nei confronti della loro emancipazione: non potendo esercitare il proprio dominio nella società, lo indirizzano contro mogli e fidanzate. Anche gli alti consumi di alcool nella popolazione maschile sono stati messi in relazione con la violenza domestica.
Altri studi hanno invece messo in discussione l’affidabilità dei dati riportati dall’Agenzia, che nei Paesi scandinavi sono stati raccolti attraverso interviste telefoniche e non, ad esempio, analizzando le denunce o i processi in tribunale. Poiché le donne scandinave sono molto consapevoli dell’importanza della parità di genere, sarebbero anche più propense a riconoscere una violenza subita e a parlarne pubblicamente. Considerando che in Italia si stima che solo il 12% delle violenze commesse da un partner venga denunciato, l’assenza della cosiddetta “violenza sommersa” spiegherebbe percentuali così alte in Scandinavia.
Nonostante i dubbi sulla sua veridicità, la notizia dell’esistenza di un “paradosso nordico” ha avuto una eco internazionale e ne hanno parlato il Washington Post, Insider e Amnesty International. Si è cominciato a parlare di paradosso nordico anche per indicare una apparente segregazione di genere nel mercato del lavoro scandinavo: nonostante gli avanzati livelli di parità, infatti, le donne norvegesi sceglierebbero ancora i lavori di cura. Sebbene questi dati siano stati in gran parte smentiti, la credenza che esista un paradosso è ormai molto diffusa. Questo tema è stato anche oggetto di una controversa docuserie del 2010, condotta dal comico Harald Eia, e intitolata Hjernevask (“Lavaggio del cervello”). La serie, andata in onda sulla tv pubblica norvegese, criticava le politiche per l’uguaglianza di genere adottate nel Paese e proponeva la tesi che le differenze biologiche tra uomini e donne fossero più rilevanti della cultura e della socializzazione. Richiamandosi a concetti della psicologia evoluzionista, il documentario cercava di riaffermare la divisone “naturale” fra i sessi e di confutare le teorie degli studi di genere.
Come ricostruito dalla ricercatrice Mari Lilleslåtten, subito dopo la messa in onda del documentario si era diffusa a livello internazionale in vari siti conservatori la falsa notizia che uno dei più importanti istituti di studi di genere della Scandinavia, che aveva sede in Norvegia, fosse stato chiuso, quando in realtà era semplicemente stato trasferito in Svezia, senza alcuna correlazione con il programma televisivo. Diversi siti di informazione ultracattolica e di attivisti per i diritti maschili intanto presentavano la falsa notizia della chiusura del centro come prova dell’invalidità di tutti gli studi di genere, celebrando Harald Eia come un eroe antifemminista, anche se il conduttore ha preso le distanze da queste strumentalizzazioni di Hjernevask.
In effetti, l’idea che esista questo paradosso si presta molto bene come argomentazione a sfavore delle politiche della parità: se nemmeno il welfare state ha scardinato la violenza di genere, significa che in fondo non serve impegnarsi più di tanto per raggiungerla. Così, il tema è stato monopolizzato da conservatori e antifemministi. Se si cerca “paradosso nordico” su Google, ad esempio, il primo risultato è l’omonimo sito di un libro sull’argomento, scritto dal ricercatore svedese Nima Sanandaji e pubblicato da Timbro, think tank svedese di stampo neoliberista il cui claim è “libero mercato, libertà individuale e società aperta”, affiliato al gruppo conservatore americano The Heritage Foundation. Non è un caso che l’attività di Sanandaji sia volta a criticare il modello del socialismo nordico e lo stato sociale. Di paradosso nordico ha parlato estensivamente anche Jordan Peterson, ideologo dell’alt-right e figura di riferimento per gli attivisti dei diritti maschili. Lo psicologo ha trattato l’argomento anche durante un programma sulla tv svedese, ribadendo l’importanza delle differenze biologiche tra uomini e donne e affermando che quest’ultime non sono naturalmente portate a svolgere certe professioni.
Al di là delle strumentalizzazioni, gli studiosi sono ancora molto divisi sull’esistenza di un paradosso nordico. Lo scorso anno sull’International Journal of Public Health è uscito un articolo intitolato Il paradosso nordico è un’illusione? che contestava i precedenti studi e avanzava una nuova ipotesi. Il rapporto dell’Agenzia che ha dato vita alla nozione del paradosso prendeva in considerazione solo le relazioni passate, ma se si considerano quelle attuali, i Paesi scandinavi sono quelli con il tasso di violenza più basso d’Europa. La conclusione degli autori è quindi che in questi Paesi non ci sia – come sostengono i sostenitori del paradosso – un ampio numero di autori di violenza di bassa intensità, ma un numero contenuto di uomini particolarmente violenti. Questa ipotesi è molto importante perché scagiona le politiche della parità di genere dalla colpa di aumentare il tasso di violenza domestica, sostenendone la validità. Un altro recente studio, uscito sulla rivista Women & Criminal Justice, ha visto invece trenta esperti di violenza domestica confrontarsi sul tema, senza giungere a una vera e propria conclusione. I partecipanti hanno messo in discussione la metodologia di raccolta dei dati del rapporto dell’Agenzia e sottolineato come l’ipotesi del backlash, cioè che l’IPV sia una risposta violenta alla perdita di supremazia maschile nella società, sia plausibile.
La presunta esistenza del paradosso nordico in ogni caso non dovrebbe essere usata come dimostrazione dell’inefficacia delle politiche per la parità di genere. Sappiamo che le manifestazioni di violenza fisica sono solo la punta dell’iceberg di un più ampio sistema sociale che passa per tante altre forme di sopruso, ben più invisibili, ma non per questo assenti. Il fatto che alcuni Paesi siano riusciti a eliminare le disparità di genere senza riuscire a eradicare del tutto la violenza sulle donne, non deve essere in alcun modo una giustificazione per il nostro disimpegno. Se c’è qualcosa che questa vicenda può davvero insegnare è al massimo la necessità di avere dati più chiari e trasparenti sulla violenza di genere.