C’è un lungo elenco di nomi che potrei fare per evocare tutto d’un fiato il tragico racconto di uno dei più sconcertanti vuoti legislativi del nostro paese. Mi limito a quattro, in ordine cronologico: Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani, Karol Jozef Wojtyla. I primi due nomi dovreste ricordarveli, gli ultimi due invece sono meno scontati. Fabiano Antoniani altri non è che Dj Fabo – e tra le varie sfortune che gli sono capitate gli è toccato pure quella di essere ricordato dai nostri media con un nick name. L’ultimo ovviamente è Papa Giovanni Paolo II, e forse non tutti sanno che anche lui chiese di morire. Non disse “staccatemi la spina”, che è un’espressione linguisticamente orrenda e disumanizzante, ma “lasciatemi tornare alla casa del signore”. Lo fece in polacco, aggrappandosi alla lingua materna invece che a quella di Stato. Lo fece da uomo e non da papa. Poco meno di un anno dopo, nel marzo del 2006, le speranze del padre di Eluana Englaro si schiantarono contro un “vizio di forma” che motivò il rifiuto della corte di cassazione a concedere la sospensione delle cure per sua figlia. La sua odissea, com’è noto, non terminò lì e continuò a battersi fino a ottenere nel 2008 la storica sentenza che autorizzò l’interruzione delle cure. A dire il vero, che Eluana volesse morire non abbiamo modo di provarlo. Non ce l’aveva nemmeno suo padre, e per questo gli toccò interpretare sua figlia, immaginare quale sarebbe stata la sua volontà se avesse potuto decidere. Dovette fare una sorta di “esperimento”, che può fare chiunque, almeno per chiarire a se stesso qual è la propria posizione istintiva sul tema – per quanto possa valere appunto una posizione istintiva basata su un test di immaginazione. Basta farsi questa domanda: cosa sceglieresti se, un attimo prima di un incidente, ma anche ora, in questo momento, qualcuno ti facesse vedere una foto che ti ritrae nella stessa condizione di Eluana 17 anni dopo?
È possibile immaginare un confronto più spaventoso fra l’immagine che doveva avere del suo futuro e ciò che sarebbe stato? Per 17 anni Beppino Englaro ha risposto che sua figlia avrebbe voluto morire. E l’ha fatto affrontando coraggiosamente anche chi lo accusava del peccato più grave che un genitore possa commettere. Ancora oggi sono in molti a sostenere che Eluana non volesse morire – facendone una martire della causa pro-life – molti dei quali vengono dalle frange dell’estremismo cattolico che in questi giorni ha tremato sentendo le parole di Papa Francesco contro l’accanimento terapeutico, dirette a monsignor Vincenzo Paglia in occasione del meeting europeo della World Medical Association.
Agli altri, invece, le dichiarazioni del Papa sono suonate come un invito rivolto ai nostri senatori per farli procedere più velocemente verso l’approvazione del disegno di legge sul biotestamento che ha già ricevuto l’ok dalla Camera sette mesi fa. Com’era prevedibile, si è scatenato un coro di voci contrastanti che vale la pena di raccontare. Ma prima bisogna fare il punto della situazione per capire cosa propone il progetto di legge e quali sono le principali posizioni.
Semplice: il ddl Lenzi sul testamento biologico è un progetto equilibrato, frutto di un lungo lavoro di mediazione politica che afferma, in sintesi, il sacrosanto diritto del paziente di scegliere se e come farsi curare. Tutto qui. Il disegno di legge non parla in nessun modo di eutanasia attiva e concede ai medici il diritto all’obiezione di coscienza: un compromesso che dovrebbe accontentare tutti. Allora che problema c’è? Molteplici.
I cattolici contestano sostanzialmente due punti della legge: la possibilità del paziente di rifiutare idratazione e nutrizione. Affermano, infatti, che l’onere della decisione non può essere rimesso in toto alla volontà del paziente e che dovrebbe essere il medico, in ogni caso, a stabilire se è il caso di sospendere le cure farmacologiche. Questo è un caso abbastanza singolare in cui la religione sembra tendere la mano alla scienza pur di zittire la laicità del pensiero. La sospensione dell’alimentazione, oltre che delle cure farmacologiche, infatti, è una sorta di eutanasia passiva, che, ricordiamolo, si distingue dall’attiva in questo modo: nella prima ci si lascia morire, nella seconda ci si suicida. Ovvero: nella prima a premere il grilletto è la natura che, non più sostenuta dalla medicina, semplicemente fa il suo corso. Nella seconda è l’uomo. Se vogliamo, l’eutanasia passiva è uno stratagemma per non prendersi in terra la responsabilità di un atto doloroso ed eticamente problematico. I parlamentari di area cattolica fanno leva anche su questo cavillo logico per opporsi alle legge, che in effetti autorizza una specie di eutanasia passiva, con un virtuosismo di pensiero degno di quei filosofi medievali che si domandavano se a tenere il maiale al guinzaglio fosse l’uomo o il guinzaglio.
L’attuale pontefice, che non a caso sta molto antipatico ai cosiddetti teo-conservatori i quali lo hanno addirittura accusato di ben sette eresie, ha mostrato chiaramente la via da seguire: “un supplemento di saggezza“. Ovvero: buon senso. E cioè, parafrasando le belle parole del Papa, bisogna trovare il coraggio di non rifiutare la morte, la cui ineluttabilità ci accomuna tutti, e praticare con l’altro una “vicinanza responsabile”.
Tuttavia sembra che questo invito alla saggezza non sia stato accolto né dall’una né dall’altra parte. Così, fra chi, come Rosi Bindi, non ha perso l’occasione per commentare che “Perfino il Papa ci ha superati” e Renato Brunetta che, non avendo fretta di morire, si è smarcato bollando il ddl come non prioritario, a passarsela peggio in questi giorni è stato il Cardinal Ruini. Svegliato in mattinata da un Gaetano Quagliarello in lacrime, è dovuto correre alla sede del Foglio per rilasciare un’intervista in cui rettifica: “Il messaggio di Papa Francesco al meeting europeo della World Medical Association non contiene alcuna novità dottrinale rispetto a quanto affermato già sessant’anni fa da Pio XII”. Insomma, nessuna rivoluzione, state calmi. E le cose, a voler essere tecnici, stanno effettivamente così: è vero che sul piano dottrinale le parole del Papa non apportano nessuna modifica. Lo avrebbero fatto se avesse parlato di eutanasia, che è una cosa molto diversa dall’invito rivolto dal pontefice a riconsiderare il dibattito bioetico sulla base del bene della persona. Interpretarle come un’apertura all’eutanasia è un uso politico e strumentale. È scorretto, quindi, titolare la notizia, come hanno fatto molti, parlando di una “svolta epocale”. Tanto più quando a schiaffare prontamente il berretto di Che Guevara sul capo del Papa revolucionario sono proprio quei parlamentari del clan di Grillo che in un primo momento si erano detti insoddisfatti del ddl Lenzi chiedendo una virata più radicale verso l’eutanasia attiva.
Più interessante, invece, la voce di un sacerdote-teologo, Alberto Maggi, che in un’intervista a la Repubblica fa coming-out e racconta di quando, in vista di un intervento molto rischioso, lasciò detto ai suoi confratelli di lasciarlo morire nel caso in cui avesse subito danni cerebrali permanenti. Alla domanda dell’intervistatore “La vita non è sacra?”, Alberto Maggi, dà una risposta che sembra racchiudere una chiave di lettura più adatta a decifrare il discorso del Papa:
“È sacra la vita o l’uomo? Se è sacra la vita si deve difendere a oltranza anche quando diviene accanimento; se, invece, è sacro l’uomo gli si deve riconoscere la sua dignità e in alcuni casi lo si può anche aiutare ad andarsene serenamente”.
Questo è il bivio – la vita come ideale astratto da un lato, e l’uomo in carne, spirito e ossa dall’altra – in cui sembra essersi bloccato il discorso religioso sul tema del fine vita. Ma come dimostra il caso di Alberto Maggi, sono in molti – anche fra i cattolici – a ritenere che l’unica strada possibile sia quella che porta al rispetto del “bene integrale” della persona e non quella che conduce alle paludi di un integralismo religioso, che non viene sostenuto nemmeno dalla guida suprema della Chiesa.
Il Papa, insomma, resta il Papa: non si è iscritto al partito radicale e non fa nulla di più che umanizzare il discorso sulla morte. Eppure riesce a smarcarsi sia da chi, in nome di una presunta cattolicità, vorrebbe usarlo come scudo per medievali crociate pro-life, sia da chi, al contrario, lo riconduce a uno slogan, come #fatepresto, per pubblicità progresso oggettivamente incompatibili con il suo ruolo.
In questo sta il paradosso per cui il capo dell’istituzione più conservatrice dell’occidente esprime, almeno su questo tema, una visione più progressista della politica reale. Perché questa si rivela ancora incapace di legiferare in maniera chiara e risoluta su un tema imprescindibile, dandosi una scossa di tanto in tanto solo quando la cronaca di vicende drammatiche come quelle di Eluana Englaro le impone una parvenza di movimento. Mentre lui supera anche quell’altro bivio, ancora più squallido del primo – quello fra il bene delle persone e il bene degli schieramenti politici – e ci ricorda che la morte è un discorso serio. Che a tutti tocca morire, perfino a Renato Brunetta. Che quando se ne parla bisogna pensare che l’uomo non vive di solo pane, né di sole flebo, e che tutto questo non ha nulla a che fare con le prossime elezioni.