Durante i primi giorni di marzo era confortante leggere articoli che descrivevano la pandemia come un fenomeno che ci rendeva tutti uguali, una livella che annullava le differenze di reddito, genere e status sociale, peccato non fosse affatto così. La retorica della solidarietà che ispirava questa rappresentazione della realtà si è sgretolata di fronte al tragico aumento delle diseguaglianze che si è registrato già dalle prime settimane del lockdown. Moltissime persone sono state costrette a vivere in spazi ristretti, senza gli strumenti tecnologici adeguati per lavorare o per seguire le lezioni di didattica a distanza. L’ingiustizia sociale è diffusa almeno quanto il Covid e sta mettendo sempre più a dura prova la tenuta delle democrazie occidentali. Le persone che si trovavano in una situazione di difficoltà, o sul suo confine, già prima della pandemia hanno visto inevitabilmente un aggravarsi della propria condizione.
Secondo il report della Caritas “Gli anticorpi della solidarietà”, pubblicato il 19 ottobre 2020, le persone che hanno usufruito per la prima volta dei servizi della Caritas rappresentano il 45% delle persone assistite, contro il 31% registrato in Italia prima della pandemia. Quasi una persona su due di quelle che si sono rivolte alla Caritas negli scorsi mesi lo ha fatto per la prima volta, un dato che non lascia ben sperare. I “nuovi poveri” sono perlopiù rappresentati dalle famiglie con minori, dai giovani e dalle donne, vittime di un sistema profondamente dispari. Il loro ingresso nel mercato del lavoro avviene con contratti precari e privi di tutele. Il divieto generalizzato di licenziare per ragioni economiche i lavoratori assunti contratto a tempo indeterminato ha indotto le imprese a interrompere i rapporti di lavoro con i dipendenti precari, lasciandoli da un giorno all’altro senza una prospettiva di futuro. Mentre i dipendenti stabili possono essere lasciati a casa soltanto attraverso un licenziamento, le aziende possono decidere di non rinnovare i contratti precari, generando centinaia di migliaia di rapporti “a scadenza”. In questo contesto, ancora una volta, sono le donne – e in particolare le madri – a pagare un prezzo altissimo.
La forza con cui la crisi si è abbattuta sulle donne non è una scoperta di oggi. Già a maggio, l’Onu ha pubblicato un report con l’obiettivo di analizzare l’impatto che il Covid-19 ha avuto sulla popolazione femminile. Quest’anno ricorre il 25° anniversario dalla Dichiarazione di Pechino, adottata il 12 settembre 1995 per diffondere su scala globale le politiche di parità di genere tra uomo e donna. A distanza di un quarto di secolo, i piccoli passi avanti registrati negli ultimi anni sono stati cancellati dalla diffusione del nuovo coronavirus. L’emergenza sanitaria e l’adozione delle misure restrittive stanno aumentando le diseguaglianze di genere preesistenti, esponendo le donne al rischio di essere ulteriormente marginalizzate da un punto di vista politico, sociale ed economico. Per questo motivo è fondamentale che tutte le misure a sostegno della ripresa, a partire dal Next Generation EU, siano incentrate sulle donne e sull’annullamento di questo assurdo e ingiusto divario di genere.
Antonio Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, ha commentato il report sottolineando come circa il 60% delle donne in tutto il mondo lavora nell’economia sommersa, guadagna meno degli uomini, ha minori capacità di risparmio e maggiori probabilità di cadere in uno stato di povertà. La perdita di un’occupazione retribuita a causa della pandemia è coincisa con un aumento vertiginoso delle ore di lavoro non retribuite dedicate alla cura della casa e della famiglia. La violenza domestica è aumentata significativamente negli scorsi mesi. Un mix di ingiustizie che rischia di riportarci indietro di mezzo secolo, con fortissime ripercussioni psicologiche. Tutte le società del mondo hanno mostrato un evidente problema culturale relativo al ruolo che le donne sono chiamate a svolgere in famiglia e in società. Un modello di pensiero malato eppure estremamente radicato, secondo il quale le persone di sesso femminile sono costrette a sacrificare le proprie aspirazioni per non pregiudicare le aspettative degli uomini. Se questa crisi deve insegnarci qualcosa, dobbiamo imparare a combattere con decisione la discriminazione sistemica che le donne subiscono quotidianamente in ogni parte del mondo.
Il disagio sociale non ha colpito soltanto le persone di sesso femminile. È lo stesso report della Caritas ad ammettere che la frammentazione delle misure poste in campo dal governo non è stata in grado di intercettare tutte le persone in difficoltà. La burocrazia e i procedimenti amministrativi necessari per ottenere il reddito di emergenza, ad esempio, hanno prodotto dei risultati sotto le aspettative. Lo strumento messo in campo dal governo con il cosiddetto decreto rilancio ha raggiunto soltanto il 30% dei beneficiari che ne hanno fatto richiesta. Nuove forme di povertà si nascondono anche tra le partite Iva e i piccoli professionisti, che sono tra i soggetti ad aver ricevuto il contraccolpo più marcato a causa della pandemia. Quasi 8 lavoratori autonomi su 10 hanno riscontrato delle perdite di fatturato durante il 2020. I bonus messi in campo dal governo hanno attutito in parte il colpo ma non sono certamente in grado di compensare il danno professionale subìto dai milioni di professionisti e imprenditori presenti nel nostro Paese. La situazione sarebbe stata senza dubbio peggiore senza il supporto della Caritas che tuttavia non può e non è chiamata a supplire a tutte le storture di un sistema economico profondamente ingiusto.
In questo periodo, la povertà ha assunto molte diverse sfaccettature e le sue caratteristiche non sono affatto rassicuranti. Dopo anni in cui veniva documentata una povertà dai connotati “cronici”, infatti, quest’anno i dati della Caritas raccontano uno scenario popolato da “nuovi poveri”. Se l’anno scorso era ancora possibile individuare aree di disagio omogenee su cui intervenire, l’aumento di persone che vivono sotto la soglia di povertà oggi genera complessità non indifferenti per chi opera nel campo della solidarietà. Il lavoratore in nero si trova nella stessa situazione del piccolo commerciante costretto a chiudere, generando una situazione eterogenea su cui è difficile intervenire. Dall’altra parte diminuiscono le persone in difficoltà che vivono ai margini della società. Il dato, apparentemente positivo, non lo è affatto, e fa pensare a una normalizzazione dello stato di indigenza che a oggi riguarda quasi 5 milioni di persone. L’abolizione della povertà, decantata dal balcone prima dell’inizio della pandemia, si è trasformata nella rassegnazione al perenne stato di bisogno in cui sono costrette a vivere moltissime persone. L’obiettivo delle società occidentali doveva essere quello di normalizzare il benessere, abbiamo ottenuto la rassegnazione all’indigenza. Se non è questa la definizione di fallimento, ci siamo andati molto vicino.
Lo scenario presenta diverse analogie con la crisi economica provocata dal crac di Lehman Brothers nel 2008. Anche in questo caso, tutti i soggetti ai margini del mercato del lavoro sono esposti ai drammatici effetti della recessione. Alla vigilia del crac finanziario del 2008, però, gli italiani senza redditi sufficienti ad assicurare una vita dignitosa erano meno di 2 milioni, mentre i dati di oggi ci consegnano un numero di poveri più che raddoppiato: un aumento delle diseguaglianze destinato a crescere che dovrebbe preoccupare, e non poco, chi ci governa. La tenuta della nostra società dipende anche dalla solidarietà che riesce a esprimere. I giovani e le donne sono gli attori sociali che dovrebbero rappresentare il motore per la ripresa del nostro Paese. La crisi li ha travolti e adesso manca un piano concreto che metta al centro della ripartenza le loro aspettative e il loro futuro. Esistono già corpi intermedi che chiedono un’inversione di rotta per cambiare un paradigma sociale che ha prodotto soprattutto ingiustizia e diseguaglianze. Il Giusto Mezzo, ad esempio, è un movimento composto da comuni cittadini che chiedono di utilizzare le risorse del Recovery Fund per cambiare la società, garantendo alle donne un’effettiva inclusione nel mercato del lavoro e il superamento del gender pay gap. Il governo ha assicurato che una parte significativa delle risorse europee sarà destinate ad aumentare l’occupazione femminile. Ancora siamo nella fase dei vaghi proclami ed è necessario tenere alta la guardia. Non possiamo permettere al governo di sprecare anche questa occasione.
L’emergenza, prima sanitaria e poi economica, ha prodotto un vertiginoso aumento delle diseguaglianze con un numero sempre maggiore di persone che non ha i mezzi per poter condurre un’esistenza dignitosa. Mai come oggi si avverte l’esigenza di una protezione sociale universale, in grado di garantire un reddito a tutti, che faccia da argine alla rabbia crescente che si respira nelle nostre comunità. La parola crisi deriva del verbo greco “krino” che può essere tradotto come separare, discernere, valutare. Il vocabolo ha assunto un’accezione negativa e viene utilizzato per indicare il peggioramento di una situazione. I governanti hanno spesso usato questa parola come scusa per giustificare la loro inettitudine davanti a uno scenario difficile. Dobbiamo invertire la tendenza e utilizzare questa crisi come momento di riflessione utile al miglioramento della società. È intollerabile che il suo peso ricada su chi è già in difficoltà. Se non cambiamo in fretta rischiamo di trovarci con fratture sociali insanabili, e con le loro conseguenze. Migliorare la società in cui viviamo non è più soltanto un auspicio, è una necessità impellente per non sprofondare nel baratro.