La pandemia ha cambiato le nostre priorità. Ora in molti preferirebbero vivere in campagna.

Prima dell’ultimo inverno, nessuno avrebbe immaginato che per una pandemia gran parte del mondo sarebbe stato costretto alla quarantena e che milioni di persone si sarebbero trovate catapultate in una cornice molto simile a quella dei protagonisti del Decameron di Boccaccio, fuggiti dalla Firenze colpita dalla pestilenza per trovare rifugio in una villa di campagna isolata dall’esterno. Come allora le città sono state serrate e le dimore di campagna sono diventate un rifugio da privilegiati agli occhi di chi, per mesi, è stato costretto a trascorrere le giornate in appartamenti di poche decine di metri quadrati. Manhattan si è svuotata dei suoi abitanti, corsi nell‘hinterland o sconfinati negli spazi aperti di altri Stati come il New Jersey. I londinesi benestanti si sono riversati nelle campagne inglesi e scozzesi. In Francia tre milioni di seconde case nella zona rurale del Paese sono diventate il rifugio di molti cittadini dei grandi centri d’Oltralpe. In Italia, le varie Regioni fanno ora a gara per attirare i turisti nei borghi Covid free.

È in atto una generale riscossa della campagna. Per il poeta e paesologo Franco Arminio la “pandemia apre oggettivamente degli spazi per un importante intervento pubblico nelle aree interne, abbandonate negli anni per far crescere metropoli che si dimostrano inospitali e pericolose”. Un mondo capovolto durante il confinamento, dove l’hinterland è sempre più percepito come un luogo più vivibile e sicuro. È un’evidenza che, come in tutte le epidemie, anche per il COVID-19 nelle zone più densamente abitate e oggi anche più industrializzate e inquinate, il rischio di focolai sia più alto. In particolare negli Stati Uniti, dove la gran parte dei governatori non ha atteso che calassero i contagi prima di riaprire le attività, è quasi inevitabile tentare di tenersi lontani dai grandi centri abitati o fare il possibile per andarsene, sempre a patto di averne la possibilità.

Il dirigente 50enne Jinky Demarest de Rivera, una vita dedicata alla carriera tra Manhattan e Oakland, in California, ha raccontato al Washington Post di aver deciso dopo due mesi di lockdown di traslocare con la moglie Sarah nella valle dell’Hudson, a un passo da New York City ma ancora caratterizzata da una natura quasi incontaminata. La loro idea è continuare a lavorare da remoto come in questi mesi, ma cambiando stile di vita. I coniugi De Rivera rientrano nella ristretta minoranza di statunitensi che possono permettersi una dimora di lusso sulle sponde del fiume già scelte dal presidente Franklin D. Roosevelt e dai Rockefeller per le loro fughe bucoliche dalla città. Anche in Italia si tratta di una cerchia ristretta che dopo la pandemia progetta di trascorrere l’estate e quel che resta del 2020 in casali dell’Umbria, della Toscana e su colli come quelli delle Langhe, affittati per lunghi periodi o direttamente acquistati. Le richieste di immobili di questo tipo che riceve la Fiaip (Federazione Italiana agenti immobiliari professionali) da alcuni mesi sono in crescita. Tra il febbraio e l’aprile scorso è stato registrato un aumento del 20%, secondo un’indagine della principale rivista italiana di riferimento, Ville&Casali. La domanda è cresciuta principalmente per merito di professionisti affermati, top manager e grossi imprenditori, anche se in Italia la riscoperta delle campagne è in realtà un fenomeno molto più ampio e trasversale, che coinvolge anche i ceti medi e meno abbienti. E che attrae sempre di più i giovani: una spinta che arriva da generazioni limitate da oltre un decennio di contrazione economica, e adesso più che mai in cerca di alternative sostenibili per ripartire dopo lo stop per l’epidemia di COVID-19.

Decine di migliaia di connazionali hanno risposto alla chiamata al lavoro nei campi per colmare il vuoto lasciato dagli oltre 200mila braccianti stagionali stranieri rimasti bloccati fuori dai confini italiani e dell’Unione europea per le restrizioni: ai primi di giugno in 30mila risultano iscritti alla piattaforma creata da Confagricoltura, Agrijob, mentre altri 10mila si sono registrati su Jobincountry di Coldiretti. A maggio anche l’osservatorio dell’agenzia per il lavoro Orienta contava migliaia di candidature nel settore agricolo, composte “per il 90% di italiani”, tra i quali “moltissimi sotto i 35 anni”. Soprattutto studenti e laureati rientrati anche dall’estero, oltre a camerieri, artigiani, negozianti, tanti freelance e altri giovani professionisti senza coperture. Un esercito composito che sfugge agli stereotipi: la province con più curriculum arrivati a Confagricoltura sono per esempio Bologna e Brescia, mentre il 30% delle domande in Puglia arrivate a Coldiretti è di persone tra i 30 e i 60 anni, che spesso prima svolgevano altri lavori, anche in ambito accademico.

Questo ritorno alla terra e alle campagne è il risultato da una parte della massiccia richiesta di manodopera temporanea in un momento eccezionale, dall’altra della vulnerabilità alle crisi delle generazioni successive ai baby boomers. È in ogni modo un trend in corso da alcuni anni, che i mesi di pandemia stanno estremizzando e, secondo le testimonianze e i primi dati, non si giustifica solo con una ricerca di maggiore sicurezza e comodità durante il periodo di lockdown, o del minor costo della vita rispetto alle città. In diversi casi il ritorno in campagna prende i contorni di una scelta di vita. Un’analisi di Coldiretti su dati di Infocamere diffusa alla fine del 2019 ha fotografato l’Italia come il primo Paese in Europa per imprese agricole fondate da ventenni e trentenni (oltre 57mila nel 2018, in aumento del 12% nell’ultimo quinquennio), anche dopo percorsi di studi molto distanti dal settore agricolo. Anziché costruirsi un futuro nelle città dove si sono laureati o espatriare, un numero ormai considerevole di giovani ha ristrutturato poderi e casali per avviare progetti originali come agri-nidi, fattorie didattiche o a scopo sociale, coltivazioni biologiche con tecniche sperimentali o parchi per energie rinnovabili.

Queste start up, ricostruisce l’indagine, sono di conseguenza anche più solide a livello economico, con un fatturato più alto del 75% e con il 50% degli occupati in più della media del settore, grazie alle formule innovative adottate. In testa al fenomeno dei cosiddetti “contadini millennial” si posiziona la Sicilia con oltre 6.670 imprese agricole di under 35, seguita da Campania (poco più di 6.250) e Puglia (circa 5.300), in un Meridione dove finalmente i giovani riescono a trovare delle prospettive per il futuro. Il 20 febbraio scorso, mentre a Codogno si scopriva il paziente 1, la ministra alle Politiche agricole Teresa Bellanova salutava uno “storico ritorno alla campagna” guidato da “una generazione”, come sottolineato anche dal ramo Giovani impresa di Coldiretti, “che ha invertito la tendenza, non si vergogna più di fare i contadini”. Questo processo sta accelerando, perché la pandemia mette in luce i grossi squilibri dell’urbanizzazione, che tra l’altro sono anche tra le principali cause dei salti di specie dei virus. Il COVID-19 ci pone infatti di fronte all’evidenza che il futuro delle grandi città sarà molto simile alle sinistre distopie immaginate dalla fantascienza se non si cambierà corso. Al contrario le campagne spiccano come luoghi ideali per cambiare modello di sviluppo, e crescere anche rallentando i ritmi imposti dall’industrializzazione degli ultimi 200 anni.

Oltreoceano i de Rivera sostengono di aver rivalutato “durante la pandemia, il valore di possedere terreni e di viverci a contatto con la famiglia, trascorrendo più tempo insieme”. Come in Italia, tanti giovani statunitensi che hanno perso le entrate economiche con cui si mantenevano nelle metropoli stanno tornando nelle case dei genitori negli Stati rurali dove sono nati. Qui riscoprono i vantaggi dei piccoli centri: spazi più ampi, affitti meno costosi per ricominciare a essere indipendenti e una migliore qualità della vita. È probabile che, nell’incertezza dei prossimi mesi, la domanda di lavoro esplosa nell’entroterra si consolidi, incanalandosi in nuovi progetti di recupero e di ripopolamento: la tendenza a prolungare i soggiorni in campagna, affittando immobili per lunghi periodi, è comune in molti Paesi occidentali. “L’appello urgente” a sfruttare questo periodo straordinario per ridefinire il nostro rapporto con la natura, viene continuamente anche da papa Bergoglio, che nell’enciclica Laudato si’ esorta proprio a rispondere alla “crisi ecologica, al grido della Terra e al grido dei poveri che non possono più aspettare”.

Architetti come Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri appoggiano senza esitazioni la proposta di intellettuali come Arminio di “ripopolare le campagne”, per un “futuro nei borghi” dopo il COVID-19. Va detto che questo non è facile in un Paese come l’Italia, gravemente carente di strutture e infrastrutture, in particolare al di fuori degli insediamenti urbani: lo ha dimostrato la difficoltà per moltissimi di lavorare o seguire le lezioni da remoto durante il lockdown, per i troppi luoghi periferici ancora privi di copertura Internet. Per ristrutturare i borghi occorrono anche grossi investimenti e va evitata, in prospettiva, una corsa che trasformi le campagne in piccole città e scateni una nuova corsa alla loro cementificazione selvaggia. La direzione è però chiara a tutti gli urbanisti, e univoca, considerato che per sopravvivere anche le metropoli cercano di assomigliare sempre di più alle campagne, diradandosi con luoghi aperti e ambienti il più possibile naturali con una crescita di spazi verdi e riservati a pedoni e veicoli non a motore. Il futuro dopo la pandemia sembra quindi andare verso un superamento del concetto di centralità dei grandi centri urbani per trovare una nuova sinergia con ciò che li circonda. Un’opportunità che se ben sfruttata può migliorarli, a beneficio degli abitanti di entrambi.

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