Barbara Palombelli ha presentato ieri nella puntata de Lo sportello di Forum su Rete 4 un discorso in cui si chiedeva non solo se il motivo per cui nell’ultima settimana ci siano stati sette femminicidi sia dovuto alle consuete dinamiche di rabbia tra marito e moglie, ma se questi uomini siano davvero “fuori di testa” o se siano stati portati a compiere determinate azioni perché “esasperati” dal comportamento delle proprie compagne. Ancora una volta si alimenta una narrazione mediatica che colpevolizza le donne e dà visibilità alla cultura del possesso.
Le premesse c’erano tutte, a partire da quelle che secondo la presentatrice sono dinamiche di rabbia tra moglie e marito definite consuete. Palombelli non è nuova a certi tipi di esternazioni che hanno acceso il dibattito pubblico e fatto particolarmente discutere in passato: proprio pochi mesi fa, durante la quarta serata del Festival di Sanremo, ha metaforizzato la morte di Luigi Tenco parlando di un presunto giocare con le pistole, banalizzando davanti a milioni di spettatori temi delicati come il suicidio e la salute mentale; aveva poi spiegato, sempre in diretta nazionale, che “voi donne giovani i diritti li avete trovati già fatti” e di “studiare e lavorare fino alle lacrime per entrare a far parte delle vere donne”. A marzo 2020 ha dichiarato nel corso della trasmissione Stasera Italia che “il 90% dei morti per coronavirus è nelle regioni del Nord” forse perché, al Nord, “le persone vanno tutte a lavorare”. La televisione italiana, di cui la Palombelli è divenuta volto storico, non si dimostra in grado di riconoscere e smantellare un sistema tossico e classista di cui nessuno ai vertici sembra volersi assumere le responsabilità, confermando ancora di più di vivere in una bolla rispetto a chi ogni giorno paga le conseguenze di questi meccanismi. Questo deve spingerci a porci una domanda a proposito dei programmi TV che ancora vanno per la maggiore in gran parte dei palinsesti generalisti: se ai vertici delle emittenti ci fossero più donne, giovani e membri di minoranze cosa cambierebbe?
Alessandra Zorzin, Giuseppina di Luca, Sonia Lattari, Rita Amenze, Angelica Salis, Ada Rotini e Chiara Ugolini non sono morte per i loro atteggiamenti “esasperanti”. Quello utilizzato dalla conduttrice è un esempio di victim blaming vero e proprio, che deresponsabilizza i carnefici e cerca di trovare una giustificazione per femminicidi e violenze fisiche e verbali che non possono mai essere giustificati. Parliamo di atteggiamenti profondamente pericolosi, che emarginano le donne che subiscono abusi facendole sentire nel torto o in colpa, e rendono più difficile la scelta di denunciare. Una donna che sopravvive, temendo di essere parte di una società che facilmente giustificherà il colpevole, non si sentirà sicura di presentarsi davanti alle istituzioni e nel chiedere giustizia a chi dovrebbe tutelare i suoi diritti più basilari. Questo sistema protegge violentatori e omicidi che dovrebbero rendere conto delle proprie azioni. Non a caso secondo l’Istat la quota di donne che non parlano con nessuno della violenza subita è ancora troppo alta: si tratta del 28,1% nel caso di violenze da parte del partner e del 25,5% di chi le subisce da persone esterne alle cerchia delle conoscenze più strette.
L’Italia, che viene da una cultura fortemente patriarcale ed estremamente legata al concetto di marito-padrone, non è nuova a questo tipo di episodi. Per gran parte del Ventesimo secolo alle donne italiane non furono concessi i diritti legali delle loro controparti maschili e durante il periodo fascista furono dichiaratamente viste come esseri sottomessi e inferiori, il cui ruolo era quello di procreare e quindi far crescere la popolazione del Paese. Fino al dicembre 1970 il divorzio è rimasto illegale e le mogli erano obbligate a convivere in relazioni violente, perché questo era il loro ruolo: lo stupro all’interno del matrimonio non è stato riconosciuto legalmente fino al 1976 con la Sentenza n. 12857. Fino al 1996, inoltre, lo stupro era classificato come un “crimine contro la morale pubblica”. L’abuso, invece di una violazione della dignità umana, era visto come una forma di offesa contro la famiglia.
Un altro eclatante esempio di victim blaming nel panorama italiano è quello di Beppe Grillo, fondatore del Movimento Cinque Stelle, che il 19 aprile ha pubblicato un video sui propri social media in cui diceva che il figlio, accusato di aver partecipato a una violenza sessuale di gruppo durante una vacanza in Costa Smeralda e ancora sotto processo, fosse innocente poiché la vittima (che secondo Grillo sta mentendo) era andata a fare kitesurf il giorno dopo la presunta aggressione e aveva aspettato otto giorni per denunciare.
Pochi giorni fa la statunitense Simone Biles, considerata una delle più grandi ginnaste al mondo, giunta davanti alla commissione Giustizia del Senato di Washington per testimoniare contro gli abusi perpetrati da Larry Nassar (ex medico della nazionale statunitense di ginnastica artistica accusato nel 2018 di violenze sessuali) ha incolpato non solo l’imputato, ma un intero sistema che gli ha consentito di continuare a perpetrare i suoi abusi.
Le vittime di violenza sessuale non solo sperimentano un trauma fisico ed emotivo, ma soprattutto la stigmatizzazione basata sui cosiddetti miti dello stupro: isolamento, abusi psicologici, slut-shaming, umiliazione pubblica. Indossare abiti provocanti stimola l’aggressività sessuale negli uomini, camminare da sole per strada induce i più a convincersi che una donna sia alla ricerca del rischio, viaggiare da sole implica il voler approcciare qualche partner sessuale e a dare consenso sono ancora luoghi comuni tanto sbagliati quanto ancora radicati nell’opinione comune.
Quando i telegiornali parlano di femminicidi, l’abusatore è mentalmente instabile o accecato dalla gelosia, e quindi giustificato a compiere un delitto a causa di una donna che lo aveva fatto impazzire. I media italiani sono avvezzi a questo tipo di narrazioni, in un’industria i cui responsabili sono ancora principalmente uomini. Pensiamo anche solo al caso Me Too e Asia Argento, e le accuse di molestie nei confronti di Harvey Wenstein, poi dichiarato colpevole di violenza sessuale e stupro grazie anche ad alcuni articoli del New York Times. “Prima sono d’accordo, poi si lamentano e fingono di pentirsi“, sono state le parole con cui in quell’occasione Vittorio Feltri aveva etichettato quello di Argento come un caso di “prostituzione” anziché di abuso.
Indipendentemente dalle presunte motivazioni, abusi fisici, verbali o sessuali non possono mai essere giustificati, in nessun contesto. Dare la colpa della violenza alla vittima è un modo per manipolarla: dobbiamo fare il possibile per combattere questa narrativa, cercando di allontanarci da una visione del mondo maschio-centrica e smetterla di voltarci dall’altra parte, per sradicare un sistema che non dovrebbe esistere più.