Il primo di febbraio, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha comunicato ufficialmente l’uscita degli Stati Uniti dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sui missili a medio raggio, segnando la rottura di un equilibrio durato 30 anni. L’accordo, sottoscritto a Washington l’8 dicembre del 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv per mettere fine alla crisi degli Euromissili, fu salutato come una tappa fondamentale verso la fine della guerra fredda. Entrato in vigore il primo giugno del 1987, il trattato impegnava Stati Uniti e Unione Sovietica a distruggere tutti i missili basati a terra con una gittata compresa tra i 500 e i 5.500 chilometri e i loro apparati di lancio. Con la firma dell’accordo, per la prima volta, non si stabilì una semplice riduzione degli armamenti, ma la loro eliminazione.
Lo strappo da parte dell’amministrazione Trump preoccupa soprattutto l’Europa. Anche se i Paesi dell’Ue non hanno firmato il trattato del 1987, ne sono stati i principali beneficiari: l’accordo portò all’eliminazione totale di quasi 2700 vettori, diede avvio ad una fase di distensione delle relazioni internazionali e sembrò segnare l’inizio di un’era di decisa denuclearizzazione della difesa continentale. L’abbandono dell’Inf potrebbe portare in breve tempo al dispiegamento di nuove armi atomiche statunitensi, anche a breve e medio raggio, sul suolo europeo e a una nuova corsa al riarmo, oltre a mettere in discussione gli altri accordi di non proliferazione sottoscritti nel corso degli anni da Mosca e Washington (primo fra tutti il New Start del 2010). Anche l’adozione da parte dei Paesi membri delle Nazioni Unite del trattato per la messa al bando delle armi nucleari del 2017 (Tpnw) sembra adesso in una fase di stallo.
La decisione statunitense rappresenta l’atto finale di un j’accuse iniziato nel 2014 con l’amministrazione Obama. L’ex presidente aveva accusato la Russia di pesanti violazioni dell’accordo, dovute allo sviluppo del missile cruise 9M729 (conosciuto anche come SSC-8), un vettore con una gittata stimata di 5.500 chilometri. Malgrado i sospetti che i russi abbiano continuato a sviluppare armamenti vietati dagli accordi del 1987, Obama non ha mai preso in considerazione l’opzione di abbandonare il trattato. Donald Trump non ha mostrato la stessa cautela del predecessore. La mente di questa virata è il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense John Bolton, definito dal Washington Post “Il serial killer del controllo delle armi”. Bolton considera ogni limite all’arsenale nucleare americano e al suo ammodernamento come una minaccia alla sovranità e alla supremazia globale degli Stati Uniti, oltre che alla loro stessa sopravvivenza. Per il consigliere di Trump, insomma, la possibilità di poter schierare armamenti atomici di ultima generazione è una necessità inderogabile per la difesa nazionale. In quest’ottica, l’abbandono dell’Inf è solo l’ultimo atto di una strategia avviata con l’uscita americana dall’accordo nucleare con l’Iran e lo stanziamento di mille miliardi di dollari in 30 anni per il potenziamento nucleare previsto dal Nuclear Posture Review 2018.
Il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la volontà di uscire dal trattato già lo scorso ottobre, sia per le ripetute violazioni da parte russa che per il nuovo ruolo giocato dalla Cina negli equilibri nucleari globali. Ai tempi della sottoscrizione del patto, gli equilibri internazionali dipendevano dai rapporti di forza tra due sole potenze nucleari, che individuavano nel mutuo bilanciamento del proprio potenziale distruttivo la chiave della stabilità. A trent’anni di distanza, il contesto è completamente cambiato, soprattutto per l’ingresso di un nuovo interlocutore: la Cina.
Libera dalle limitazioni del trattato Inf, Pechino ha avuto la possibilità di ingrandire il suo arsenale nucleare acquisendo un vantaggio strategico e militare che preoccupa la Casa Bianca e il Pentagono. Secondo le analisi del Centro di studi internazionali strategici Csis, la Cina avrebbe sviluppato negli ultimi anni il più attivo e variegato programma di sviluppo missilistico al mondo. I timori statunitensi sono cresciuti con i recenti test, resi di pubblico dominio dalla Repubblica popolare cinese, del vettore a medio raggio DF-26, la cui gittata stimata di 4mila chilometri gli ha fatto guadagnare il nomignolo di Guam Killer, isola americana del Pacifico sede di una importante base militare che ora la Cina sarebbe in grado di attaccare con un raid missilistico. Per questo una parte dell’opinione pubblica statunitense considera il trattato Inf anacronistico, e chiede un nuovo accordo multilaterale che tenga conto dell’attuale scenario internazionale e del potenziale nucleare di Pechino.
Dopo mesi di schermaglie diplomatiche, Vladimir Putin ha reagito al passo indietro degli Stati Uniti firmando il decreto di sospensione del Trattato e annunciando che la Russia comincerà a varare nuovi programmi di sviluppo missilistico, ma ha dichiarato che per il momento non schiererà missili a corto e medio raggio (quelli che potrebbero colpire Paesi europei) a meno che gli Stati Uniti non lo facciano per primi. Dall’annuncio, serviranno altri sei mesi prima che i firmatari possano uscire in maniera definitiva dall’accordo.
L’accantonamento dell’Inf mette in forse anche il New Strategic Arms Reduction Treaty (New Start), firmato l’8 Aprile 2010 da Barack Obama e Dmitri Medvedev. Il trattato New Start prevede la limitazione degli arsenali di entrambi i Paesi a 1550 tra testate e bombe nucleari: entrato in vigore il primo giugno del 2011, ha una validità decennale, ma può essere prorogato per altri cinque anni dopo la sua scadenza fissata per il 2021. La decisione di Trump e la reazione di Putin mettono in forse non soltanto il prolungamento dell’accordo, ma la sua stessa sopravvivenza. Il New Start ha sostituito tutti i precedenti accordi Start (Start I, scaduto nel dicembre 2009, Start II e Sort) stipulati da Washington e Mosca per limitare consensualmente i propri arsenali atomici. Il mancato rinnovo dell’accordo potrebbe cancellare i progressi di 30 anni di disgelo, scatenando una nuova guerra fredda – anche se per il momento sembra prevalere ancora la via del dialogo: lo scorso 7 febbraio, il viceministro degli esteri russo, Sergei Alexeyevich Ryabkov, ha provato a smorzare la tensione e a riaprire un canale diplomatico con gli Stati Uniti, garantendo la disponibilità della Russia per una nuova intesa multilaterale sul nucleare, che possa coinvolgere altri Paesi e sostituire l’Inf.
Il continente europeo ha un’importanza strategica fondamentale per gli Stati Uniti, in particolare sotto il profilo della condivisione nucleare: dalla seconda metà degli anni Cinquanta cinque Paesi hanno accettato di ospitare testate nucleari americane sul loro territorio. In Belgio, presso la base aerea di Kleine Brogel, si trovano almeno dieci armi atomiche; lo stesso numero sarebbe conservato nelle basi di Büchel, in Germania, e di Volkel, nei Paesi Bassi; ad Incirlik, in Turchia, sono presenti tra le 50 e le 90 bombe nucleari. In Italia le basi aeree di Aviano, in Friuli, e di Ghedi Torre, nel bresciano, ospitano almeno 70 testate. Date queste premesse, è facile intuire come l’abbandono dell’Inf sia visto come una minaccia per la sicurezza europea, soprattutto se si traducesse in una nuova corsa agli armamenti e nel dispiegamento di missili a breve e medio raggio da parte degli Stati Uniti.
L’Unione europea ha chiesto a Russia e Stati Uniti di salvaguardare il trattato Inf. L’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha sottolineato la speranza di Bruxelles che il trattato sia mantenuto in vita da entrambe le parti. L’atteggiamento di Trump nei confronti degli alleati europei della Nato non fa ben sperare: secondo il New York Times, nei giorni precedenti al summit Nato dello scorso luglio, il presidente Usa avrebbe confidato ai suoi consiglieri militari di non comprendere il senso di mantenere in vita l’Alleanza atlantica, considerata una perdita di tempo e di denaro per gli Stati Uniti, che sarebbero l’unico membro a rispettare l’obbligo di destinare alle spese militari il 2% del proprio Pil.
L’escalation dell’ultimo mese rischia di vanificare gli sforzi delle Nazione Unite per la non proliferazione e il disarmo. Meno di due anni fa, il 7 luglio del 2017, è stato adottato il Tpnw, il primo accordo internazionale legalmente vincolante per la completa proibizione delle armi nucleari: in base all’articolo 15, il Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons entrerà in vigore 90 giorni dopo la ratifica da parte di almeno 50 Stati. Dal 20 settembre 2017, il trattato può essere sottoscritto da tutti gli Stati membri dell’Onu, presso il quartier generale di New York. L’Icanw (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), organizzazione no profit nata nel 2007 in Australia, con sede a Ginevra e composta da 468 organizzazioni in 101 Paesi (tra le quali è le italiane Rete Disarmo e Senzatomica), ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di approvazione del trattato, premiato nel 2017 con il premio Nobel per la pace. Un’opinione pubblica compatta non ha smosso gli Stati membri del “Club della bomba” né i suoi alleati: l’Italia, nonostante gli appelli di Rete Disarmo e Senzatomica ha seguito le direttive Nato e disertato i lavori e la votazione finale sul trattato.
L’obiettivo principale del Tpnw dovrebbe essere quello di tracciare le linee guida di un percorso che porti alla definitiva eliminazione di questo tipo di tecnologie, ma la sua forte valenza simbolica non può bastare per renderlo efficace. La mancata partecipazione ai negoziati da parte di tutti gli Stati dotati di un arsenale nucleare (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) rappresenta un segnale scoraggiante: a distanza di più di 30 anni, il risveglio dall’incubo atomico appare ancora possibile.