La Storia disegna traiettorie che lasciano una traccia, una di queste è quella che collega Il capitale di Karl Marx e La società dello spettacolo di Guy Debord, pubblicati a cent’anni esatti l’uno dall’altro. Debord, infatti, apre il suo saggio parafrasando Marx e scrivendo: “L’intera vita delle società nelle quali predominano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Era il 1967: la cultura di massa aveva già trasformato i “lavoratori” di Marx in “consumatori”, rendendo ogni istante della vita di un individuo perfettamente funzionale al Sistema. Qualunque desiderio, sogno, istinto – perfino il tempo libero, inteso esclusivamente come “intrattenimento” – può essere mercificato e diventare prodotto interno al capitalismo. La merce di cui parlava Marx era diventata “spettacolo”: una sovrastruttura, per dirla con Deleuze; un insieme di segni e simboli a cui abbiamo dato un valore del tutto arbitrario che ora non siamo più in grado di separare dall’oggetto, dalla “struttura” stessa. La mercificazione assoluta del nostro vivere quotidiano ha però creato un cortocircuito esistenziale molto profondo, in cui i concetti stessi di “essere” e “avere” si sono sovrapposti. Nella società dello spettacolo io rivendico la mia identità attraverso il consumo: io sono quel che possiedo, quel che compro, quello che posso mostrare agli altri.
Le idee di Debord, insieme a quelle degli altri filosofi situazionisti, hanno contribuito a ispirare le contestazioni del Sessantotto: nel bene e nel male, il famoso maggio francese ha segnato un tentativo di scardinare un impianto socio-economico che già allora sembrava destinato a soffocare ogni divergenza all’interno delle logiche di mercato reiterate dall’autorità. Cinquant’anni dopo, non ci resta che ammettere la sconfitta di quella contestazione, riassorbita nel perimetro di una politica completamente e colpevolmente inscritta in quel “realismo capitalista” che preferisce accettare la fine del mondo piuttosto che mettere in discussione il modello economico dominante (la miopia con cui si affronta il cambiamento climatico, oggi, ne è una prova lampante).
Non tutte le rivoluzioni, però, esplodono nel fragore della piazza: ce ne sono altre, altrettanto profonde, che non si compiono nel clamore annunciato. Certe idee si limitano a scorrere sottotraccia, mescolandosi alla nostra quotidianità invece di sovvertirla, fino ad apparire ai più come innocue fenomenologie contemporanee. A volte, i primi a intercettare quest’ultime sono gli artisti. Nel 1968, mentre studenti e operai gridavano la loro voglia di cambiamento, infatti, Andy Warhol profetizzava quei “quindici minuti di celebrità” che la cultura tardo-capitalistica avrebbe davvero finito col dispensare automaticamente a ciascuno dei suoi figli. Ciò che Debord, all’epoca, non poteva immaginare – e che invece Warhol intravedeva nell’iconografia della cultura di massa – è che in questi decenni si sarebbe compiuta un’altra rivoluzione, quella digitale.
Il consumatore è diventato “prosumer”, per usare il termine coniato nel 1980 da Alvin Toffler ne La terza ondata. Sui social chiunque di noi vive una coincidenza identitaria che fino a quindici, vent’anni fa poteva essere sperimentata solo da un’élite formata da artisti visuali, scrittori, musicisti, performer e più in generale creativi. Oggi, invece, chiunque si trova a poter – e dover – produrre quegli stessi contenuti che, in veste di utente, consuma a sua volta sulle stesse piattaforme digitali. Lo “spettacolo” di cui parlava Debord ha raggiunto uno stadio inedito, si è infine trasformato in uno sconfinato mosaico di auto-rappresentazioni, dove (almeno in teoria) ciascun individuo pensa di poter esprimere se stesso grazie e attraverso la rete. Il consumo, da solo, non è più sufficiente: per rivendicare la nostra dimensione identitaria, adesso dobbiamo contemporaneamente produrre dei contenuti che possano definirci, i quali si depositano in “un’immensa accumulazione di post”, per parafrasare ancora l’incipit del Capitale.
La Gen X e i millennial sono stati sedotti da quella digitalizzazione esistenziale che prometteva loro uno spazio finalmente libero e meritocratico. La rivoluzione del web inizialmente incarnava tutte le pulsioni controculturali degli ingegneri informatici degli anni Settanta che ne avevano posto le fondamenta: per la maggior parte hippie che sognavano uno spazio digitale libero – e anarchico. Più di qualunque altra cosa, la Silicon Valley delle origini sembrava raccogliersi intorno a una filosofia precisa e lapidaria: distruggere le élites. Ma nei primissimi anni del Ventunesimo secolo questa rivoluzione si è trasformata in una “sostituzione”: il mondo virtuale, all’inizio della sua incredibile diffusione, si presentava come un Eden dove il talento avrebbe consentito a chiunque di emergere. Se la grande narrazione tardo-capitalistica si era arenata nelle raccomandazioni, nella corruzione, nel mercato del lavoro ormai saturo e ingiusto, il mondo digitale s’imponeva nell’immaginario collettivo con il suo “uno vale uno”. I social network apparivano come la soluzione alle esigenze primarie di ciascuno: finalmente Internet smetteva di essere popolato da avatar e diventava uno spazio estensivo della realtà.
Il primo vero social della storia – almeno nell’accezione moderna del termine – non è stato Facebook, ma LinkedIn, un network che mette in contatto chi cerca lavoro con chi lo offre. Via gli intermediari, via le raccomandazioni. Da lì a rispondere alla “fame di fama” insita in quella cultura di massa che idolatra le sue icone, il passo è stato breve. La struttura stessa dei social permette a chiunque di riscrivere la propria immagine, mostrandosi al mondo virtuale esattamente come desidera. In palio c’è la fama; e la visibilità (come abbiamo imparato in questi anni di influencer marketing) possiede un valore economico.
L’ultima grande narrazione, capace di resistere perfino alla dissoluzione postmoderna, è quella di Internet: tutti noi, giorno dopo giorno, continuiamo a produrre contenuti all’interno di una performance senza soluzione di continuità, sperando di vincere alla lotteria della viralità e diventare famosi – potendo monetizzare, infine, quella visibilità. Ogni nostra azione sui social, ogni nostra condivisione è funzionale all’esposizione mediatica: la performance digitale ci trasforma in “competitor”, reiterando una logica iperliberista imbevuta di competizione e culto della personalità.
L’immagine di noi stessi che scegliamo di depositare in rete è sempre il frutto di un processo di filtro che non lascia spazio alla spontaneità: il nostro profilo costituisce un simulacro identitario. Sui social avviene quella che Freud chiamava “sublimazione”: gli impulsi di cambiamento vengono incanalati in un “altrove” digitale, permettendo alla pressione sociale – che inevitabilmente si sviluppa all’interno di una cultura ipercompetitiva – di sgonfiarsi nei post su Facebook, nel brusio di Twitter o in un bel meme politico su Instagram. Indipendentemente dalla professione, dal titolo di studio o dalla classe sociale culturale, oggi la stragrande maggioranza delle persone si ritrova a inseguire il successo, i followers, la risonanza digitale. E questo, al di là del narcisismo di massa ipertrofizzato dai social, nasce per una ragione economica.
Il “prosumer” non può accettare di vivere l’inferno dell’irrilevanza mediatica perché ormai anche il mercato di grandi ambiti del lavoro ha riassorbito le logiche strutturali dei social, trasformando tutto in prestazione. Siamo quindi ormai tutti costretti a essere imprenditori di noi stessi, soprattutto se speriamo di riuscire a ritagliarci una nicchia in determinati spazi. E malgrado ormai questo meccanismo sia evidente, ancora non basta a dissolvere il sogno, a infrangere l’illusione. La speranza di indovinare la performance giusta riverbera in noi con estrema forza: preferiamo modellare il nostro altrove virtuale invece di cambiare la realtà che ci circonda.