Matteo Salvini sembra cercare un capro espiatorio al giorno contro cui indirizzare tutta la rabbia degli italiani, per trasformarla in voti per il suo partito: prima i migranti, poi i rom, poi Lilli Gruber, poi il suo vicino di casa. Non importa lo scotto, non è rilevante se questo mette a rischio l’incolumità di chi abita il suolo italiano, il punto è polarizzare l’opinione pubblica per ampliare il suo bacino elettorale. Oltre ad alimentare un clima di tensione sociale, che rischia in ogni momento di sfociare in un’esplosione di violenza – come già è successo a Roma, a Bologna e in tante altre occasioni – c’è un’altra cosa però che ci dovrebbe preoccupare, ed è la gerarchia delle priorità di un ministro dell’Interno che pone la tutela della sua immagine un gradino più in alto rispetto alla sicurezza dei cittadini e alla tutela del diritto alla libera espressione. Se pensavate infatti che avessimo toccato il fondo quando, pur di ridicolizzare le opposizioni, il ministro decise di gettare alla gogna pubblica dei giovani – anche minorenni – vi sbagliate di grosso.
Ultimamente ha preso piede una forma di contestazione non violenta che sembra davvero aver irritato il vicepremier, se non altro perché lo colpisce proprio lì dove è più forte: i social. Al ministro dell’Interno piace infatti moltissimo farsi fotografare insieme ai suoi sostenitori e, forse galvanizzato dai sondaggi, si era convinto che non fosse rimasto più nessuno immune al suo incantesimo. Nell’ultimo periodo, però, sono stati diffusi in rete diversi video di giovani che fingono di volersi fotografare insieme a Salvini per poi lanciare una provocazione: prima il ragazzo sardo che “osa” ricordargli dei 49milioni di euro di soldi pubblici che la Lega ha sottratto ai contribuenti, poi le due attiviste Lgbtq+ che si danno un bacio suscitando il suo sdegno, poi ancora la ragazza di Salerno che gli ricorda che, non molto tempo fa, gli abitanti di quelle zone per lui erano equiparabili ai cani.
Invece di abbozzare e incassare, però – come dovrebbe fare il ministro di in un qualsiasi Paese democratico di fronte a una provocazione pacifica – in quest’ultimo caso Salvini ha deciso, nelle parole de Il Giornale, che “era troppo”, che era “stufo” di quei “contestatori e centri sociali” che ogni volta gli “rovinano la festa” (una festa che dura da 95 giorni e non accenna a finire). Insomma, ha deciso che non era disposto a tollerare l’idea di chi non la pensa come lui. La sua reazione di fronte a una simile innocua provocazione è stata quindi quella di intimare alla Digos di cancellare il video – alla Digos, un corpo di sicurezza al servizio dei cittadini. Siccome, secondo quanto riportato dalla ragazza stessa, gli agenti non erano presenti, ha pensato bene di passare il cellulare a uno degli uomini della sua scorta, che l’avrebbe pure minacciata dicendo: “La prossima volta che usi il telefono in questo modo ti spezziamo le dita.” Un sequestro del tutto irregolare sul quale la polizia stessa ha aperto un’indagine interna. Le speranze che ne esca qualcosa di concreto, però, non sono molte considerate le recenti dichiarazioni del segretario generale Sap Lazio Francesco Paolo Russo, che ha definito il connubio tra Matteo Salvini e la polizia di Stato “indissolubile”; perché Salvini li ha resi “figli del governo” e non “figli dell’opposizione”, ha detto. Sorge spontaneo porre una domanda, forse ingenua: se invece si limitassero a fare il loro lavoro, invece di cercare una paternità nella politica? Siamo stati abituati a dichiarazioni piuttosto controverse da parte del sindacato di polizia, ma pensare che si ritengano i rappresentanti di una sorta di esercito di partito è piuttosto preoccupante.
Non si tratta però solo della polizia. Negli ultimi giorni si sono moltiplicati simili episodi, e hanno coinvolto vari corpi delle forze di sicurezza, le quali sembrano aver avuto ordine di porre una particolare attenzione alla tutela dell’immagine del ministro dell’Interno e alla tranquillità dei suoi comizi. È successo quindi che, sempre a Salerno, gli agenti sono entrati in casa di una donna per rimuovere lo striscione con la scritta “Questa Lega è una vergogna”, esposto sul suo balcone; che a Brembate, vicino Bergamo, siano intervenuti i Vigili del Fuoco con tanto di gru per togliere la scritta “Non sei il benvenuto”; che a Milano, durante il ritrovo per il centenario degli alpini, due persone siano state identificate dalle forze dell’ordine per aver detto, riferendosi a Salvini, “Non è una popstar con cui fare selfie, è una persona che decide di noi – e male pure”, non esattamente un invito alla jihad. Il ministro è talmente convinto che il ruolo della sicurezza agli eventi pubblici sia proteggere la sua pace mentale e la sua eterna campagna elettorale che si è persino inalberato con i deputati all’ordine pubblico per non aver debitamente censurato l’opposizione al suo comizio, a Settimo torinese, dove un gruppo di contestatori gridava “Meno 1”, riferendosi al voto – anche in questo caso, nessun insulto, nessuna minaccia di morte.
In quest’ultima occasione, Salvini ha urlato nel microfono: “Se quella gente lì mette le mani addosso anche solo a una persona perbene che c’è in questa piazza, mi arrabbio come una bestia. Perché se l’educazione non ve l’hanno spiegata mamma e papà, ve la spiego io.” Il senso è tanto chiaro, quanto inquietante: ci sono i cattivi dei “centri sociali” e ci sono le “persone perbene”, quelli che lo votano; le contestazioni sono solo una forma di “maleducazione”, perché l’educazione insegna che il (suo) potere non si contesta e che quando arriva in città l’autorità, questa va osannata e applaudita. Se questa cosa non dovesse essere chiara, sarà lui stesso a farla entrare in testa di quelli che non capiscono. E infatti, dopo la manifestazione una donna ha denunciato di aver visto il proprio figlio strattonato dalla polizia in borghese, per poi essere “chiuso in una camionetta, fotosegnalato, messo sotto interrogatorio”: il motivo di questo zelo è sempre lo stesso, ha osato alzare i toni (non le mani) mentre sul palco parlava Il Capitano.
Tutto questo non è normale, ed è necessario dirlo. Alcuni, in queste ore, stanno giustificando questi episodi con l’articolo 72 della legge numero 26 del 1948, che punisce chiunque “con qualsiasi mezzo impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale, sia pubblica che privata.” In questi casi, però, nessuna delle persone a cui è stato vietato di esprimere un pensiero stava mettendo a repentaglio l’incolumità degli altri cittadini, né quella del vicepremier. Sorge inoltre spontaneo il paragone con tutte le volte in cui Salvini ha sfruttato un vacuum legislativo per ignorare il silenzio elettorale, o con tutti quei casi in cui sono state organizzazioni dichiaratamente violente, ma evidentemente più accettabili per il ministro, a turbare l’ordine pubblico. Lì non è stato usato lo stesso zelo. Mentre infatti la maggior parte delle persone liberali e democratiche si arrovellava sul paradosso di Popper, chiedendosi se fosse giusto o meno escludere una casa editrice fascista dal Salone del libro di Torino, la questura di Roma autorizzava CasaPound ad allestire un gazebo all’interno di un cortile condominiale, senza considerare – per una svista, si spera – che il suo unico intento sembrava essere quello di intimidire la famiglia Omerović, che si stava regolarmente trasferendo in uno degli appartamenti popolari dello stabile. Di fronti agli indicibili insulti dei fascisti, le forze dell’ordine non si sono scomposte più di tanto e nessuno si è premurato di prendere le loro generalità sul momento. Nemmeno quelle di Davide, l’attivista di CasaPound che ha urlato “Troia, ti stupro” alla signora bosniaca. In questo caso, Salvini non sembrava altrettanto preoccupato di difendere le “persone perbene” dalle minacce dei fascisti.
Per fortuna di tutti, fuori dal Viminale c’è ancora vita e l’episodio ha sollevato numerose polemiche: la Cgil ha denunciato l’eccessiva tolleranza delle forze dell’ordine, l’Associazione 21 luglio e i Radicali hanno presentato un esposto in procura ipotizzando il reato di minaccia – con l’aggravante della motivazione razziale – e istigazione a delinquere. In seguito alle denunce, pare che la Digos abbia acquisito i video per appurare l’effettiva sussistenza di reato in quella circostanza. Quel che è certo, però, è che il fatto non ha minimamente scomposto il ministro dell’Interno, che ha liquidato la faccenda con un sorriso, muovendo una debole quanto generica critica contro chi usa violenza – mentre gridava all’inquisizione per le polemiche sulla casa editrice Altaforte. Salta poi all’occhio quanto il vicepremier non sia altrettanto generico quando si tratta di condannare una violenza commessa da “IMMIGRATI” o dai “figli di papà dei centri sociali” – qualsiasi cosa voglia dire.
Il punto centrale di tutta questa vicenda è che l’inquilino del Viminale dovrebbe essere, prima di tutto, il più alto responsabile in carica della sicurezza – non della repressione – dei cittadini italiani e di tutti coloro che sono presenti sul nostro territorio. Forse troppo impegnato a girare la Penisola per raccogliere voti in vista del prossimo 26 maggio, invece, Salvini sembra aver perso di vista quello che dovrebbe essere il suo obiettivo principale. Dev’essere perché al Viminale ha passato solo 17 giornate piene da quando è stato nominato e i suoi collaboratori del ministero hanno meno possibilità di incontrarlo dei partecipanti al suo contest. Inoltre, come ha fatto notare il capo della polizia di Stato Franco Gabrielli, le forze dell’ordine dipendono dal ministero dell’Interno, ma non sono al suo servizio: agiscono per la tutela dell’ordine pubblico e l’incolumità dei cittadini. Viene da chiedersi quindi in che modo uno qualsiasi di questi episodi – uno striscione o un video virale – potessero minacciare la sicurezza degli astanti.
In seguito alle polemiche, e alla diffusione sempre più pervasiva di questa forma pacifica di protesta – Campobasso ha accolto il ministro con 200 striscioni di critica nei confronti del suo operato – Salvini ha scritto su Twitter: “Confesso, alcuni striscioni contro mi divertono. Basta che non ci siano insulti o minacce di morte, basta che non ci sia violenza, tutto il resto fa parte della Democrazia.” Un passo indietro che sembra più dettato dalla convenienza elettorale che dalla reale filosofia politica del vicepremier, considerato le reazioni dei giorni precedenti alle manifestazioni di dissenso. Che abbia improvvisamente cambiato idea? C’è da sperarlo, ma la soglia dell’attenzione deve rimanere alta.
Portare il ministro dell’Interno Matteo Salvini a rispondere nel merito alle critiche è molto difficile: la maggior parte delle volte non risponde, svia, utilizza i dati a suo piacimento, butta tutto in caciara insultando i “professoroni”, i “rosiconi” e fondamentalmente tutti coloro che osano usare la propria testa, o i propri studi, per sollevare qualche dubbio sulle sue scelte politiche. Non è certamente una sua prerogativa, ma come in tante altre cose Salvini ha il merito – o il demerito, in base ai punti di vista – di aver portato la propaganda a un livello successivo, abituandoci a cose come il “Vinci Salvini”. Non si tratta però solo di propaganda: anche il limite della tolleranza alle opposizioni si sta muovendo, e non in una direzione più democratica. E così, mentre siamo impegnati a chiederci se anche i fascisti debbano avere spazio di critica, la mentalità fascista si sta diffondendo nelle istituzioni, abitate da chi non sembra averne rispetto e pensa che siano solo una barricata dietro cui difendersi per mantenere il proprio potere.