Se sei ricco è facile essere Pif

L’elezione del governo M5S-Lega ha avuto, a livello mediatico, lo stesso effetto che si ha quando si lancia un sasso in uno stagno. Al coro di dissenso, e a quello più flebile di sostegno, si sono unite voci riconosciute, come quella di Saviano, ormai impegnato in uno scontro frontale con il nuovo ministro dell’Interno e di altri personaggi del mondo dello spettacolo, che raramente si occupano di politica. Il rapper romano Gemitaiz, ad esempio, ha manifestato il suo dissenso per Salvini su Instagram, ribadendolo in vari video e ricevendo l’ennesima risposta da Gangsta rap del ministro, che va ad alimentare la sua strategia mediatica aggressiva. Pochi giorni dopo si è esposto anche Chef Rubio, prima con lo sfottò social e poi con reali iniziative. Ultime, ma non per importanza, sono arrivate anche le dichiarazioni di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, che al contrario non è nuovo a commenti sulla situazione politica.

Gemitaiz
Chef Rubio

Ai microfoni di Circo Massimo – il programma di Radio Capital condotto da Massimo Giannini – il conduttore e regista ha detto che “Se sei ricco è facile essere di sinistra perché non hai il rom e il migrante come vicino.” Una dichiarazione forte, e non l’unica dell’intervento, infatti Pif ha continuato suggerendo al Pd “di aspettare, non fare niente”, solo così, a detta del siciliano, può avvenire la rifondazione del partito. E non ha risparmiato stoccate neanche ai Cinque Stelle, consigliando loro di tornare al dissenso delle origini: “Dov’è? Capisco che c’è un governo, ma tirate fuori la dignità! Voglio morire d’ingenuità e pensare che loro stiano soffrendo. Non posso pensare che una frase come ‘purtroppo i rom italiani ce li dobbiamo tenere’ sia piacevole. Capisco l’equilibrio di governo, ma dovrebbero tirare fuori un sussulto, quella sana incazzatura di Piazza Maggiore.”

Quelle di Pif possono sembrare parole di buonsenso, ma analizzandole nascondono un nucleo di approssimazione, che le riduce a sentenze piuttosto vaghe, che non dicono nulla di nuovo, né di costruttivo. Pif vorrebbe sottolineare l’anima radical chic dell’ultimo Pd – che vede in Calenda l’homo novus su cui puntare – ma pecca di paternalismo. È troppo facile ricondurre l’analisi del voto alla dicotomia fra ceto borghese progressista e “pancia del Paese” reazionaria. “Nel mio quartiere non si vedono immigrati, se non quelli che ti vendono i calzini,” dice Pif, ma queste sue dichiarazioni sono sulla falsariga di quelle del centrosinistra, e allo stesso modo riconducono la vittoria della Lega a una goffa lotta tra poveri.

Carlo Calenda

Queste sentenze non sono diverse da quelle di Oliviero Toscani, che dice che “non siamo più un Paese di brava gente, non tutti almeno.” Frase che decontestualizzata potrebbe anche essere uscita dalla bocca di un leghista, e che invece si riferisce alla lotta tra elettori di sinistra – “la brava gente” – e di destra, come se l’essere di sinistra portasse con se una presunta e connaturata superiorità etica.

Oliviero Toscani

Per di più Pif consiglia al Pd una tattica attendista, ma questa è una mossa che si rivelerebbe suicida: dato lo scarso appeal che il partito ha al momento sull’elettorato, al massimo si potrebbe tentare un’opposizione forte, presente, attiva, che ribatta punto per punto alle mosse del nuovo governo. Il leitmotiv del “lasciamoli lavorare” non paga, perché – come stiamo vedendo in questi giorni – si consegna la scena politica a un governo che – come da tradizione italiana – sa strumentalizzare bene le emergenze, creando battage a livello mediatico e senza fare niente di concreto per risolverle.

Pif comunque non sembra avere le idee molto chiare neanche sulle altre formazioni, ed è così che nei Cinque Stelle riesce a scorgere qualcosa di buono, il dissenso delle origini che però non si è mai concretizzato – volontariamente – in una prospettiva di sinistra, manifestando più un’indignazione da ceto medio impoverito che da movimento di piazza, e che sin da subito si è confinata nella retorica anti-casta.

Pif

Da un regista che ha spesso basato il suo lavoro sulla critica sociale, ci si aspetterebbe una complessità maggiore, che esuli dalle gabbie dell’intellettuale naif svegliatosi all’improvviso in un mondo di barbarie. Eppure Pif non è nuovo alle logiche del Partito democratico, ha infatti partecipato per ben tre volte alla Leopolda: in anni di renzismo rampante Pif era in prima linea nel novero degli intellettuali vicini al leader. Sembra però che qualcosa si sia rotto fra i due e Pif sia stato accusato di aver abbandonato l’ex segretario del partito caduto in disgrazia. Forse le sue dichiarazioni sottendono a una logica strategica, o magari Pif è soltanto l’ennesimo professionista di successo affascinato dal turborenzismo, poi risvegliatosi all’improvviso. Io credo che Pif faccia lo stesso errore del Pd, e ragioni semplicemente come chi fa parte di un’élite – quella progressista che secondo lui rappresenta il 100% dell’elettorato di sinistra.

Sono lontani i tempi in cui Pierfrancesco Diliberto, segaligno e stralunato, esordiva alle Iene. Nel calderone del programma Mediaset Pif si poneva come un personaggio eccessivo, disposto ad adottare l’ironia cringe. La sua esuberanza risultava innocua e tutto sommato divertente. Pif si faceva notare per il suo carisma, ma ha ben presto dismesso i panni del giullare, assumendo quelli del reporter riflessivo. I reportage de Il testimone si mantengono su un tono equilibrato: da una parte lo stile gonzo dell’inchiesta in prima persona, e dall’altro la vena moralista che Pif è solito mostrare in chiusura di servizio, come a voler tirare le somme di un apologo forzato. Così una giornata al Carnevale di Ivrea si trasforma  in un inno a favore delle tradizioni, un viaggio nei luoghi dell’arte contemporanea diventa motivo di critiche al mercato dell’arte. Pif adotta lo sguardo dell’uomo della strada, e la sua testimonianza è quella dell’osservatore mediocre, che riconduce tutto alla morale del senso comune. Il testimone fa il contrario dell’inchiesta giornalistica, perché non complica, non mostra punti di vista eterogenei, ma conferma le convinzioni pregresse: per quanto afferente alla visione del mondo sinistrorsa, pur sempre di pregiudizio si tratta.

Scene della serie La mafia uccide solo d’estate

Con La mafia uccide solo d’estate Pif entra nel gotha progressista dell’intellighenzia italiana, lo stesso che vede sedere sugli alti scranni Fazio e Saviano. E non può essere altrimenti dato che ha deciso di affrontare il grande tema della mafia. Eppure nel film si decide per una trattazione edulcorata, favolistica; il racconto è più attento a imbastire l’ennesima scena divertente che serve a dare conto della tragicità delle vicende che portano alla morte di Falcone e Borsellino. Pif strappa il sorriso a chi è già a conoscenza del problema, parla insomma a una nicchia ben precisa. Il suo film smussato è la versione edulcorata di Gomorra. Un po’ come La vita è bella rispetto a Schindler’s List. Nel 2014, a un anno dal film di Pif, esce nelle sale Belluscone, l’opera di Franco Maresco che indaga i rapporti tra mafia e società siciliana negli anni del berlusconismo. Anche in Maresco si mantiene un tono da commedia, ma il comico si tinge di grottesco, affresca un mondo in cui l’omertà e l’esercizio del potere agiscono a tutti i livelli e la connivenza con la malavita nasce dall’egoismo, la narrazione non viene appiattita sullo stereotipo.

A Pif è stato semplicemente chiesto del destino del Partito Democratico. Ma forse non è sparando sui salotti “buoni” che si propizia la crescita di un movimento, forse per superare la crisi bisogna anche imparare quando è il momento di astenersi dal commentare ed evitare di cadere in semplicistiche approssimazioni.

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