Fermare l’attività delle navi delle Ong nel Mediterraneo è stato un ottimo espediente per individuare un nemico su cui basare la campagna elettorale di diversi partiti e dettare l’agenda politica degli ultimi mesi, ma non ha avuto nessun effetto nella gestione dei flussi migratori.
Considerando i dati relativi al periodo compreso tra il primo maggio al 21 giugno, dalla Libia sono partiti almeno 3.926 migranti. Di questi, 431 hanno lasciato la terraferma quando le navi delle Ong erano pronte a intervenire al largo delle coste libiche (in media, 62 persone al giorno). Dopo la stretta dell’attuale governo, hanno affrontato il mare 3.495 persone (76 al giorno). È evidente che le navi delle Ong non costituiscono un pull factor per i migranti: a differenza di quanto sostiene Matteo Salvini, i migranti non aspettano le Ong per partire.
“La differenza tra le partenze nei vari giorni è talmente piccola da non essere significativa”, spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi che ha rielaborato i dati dell’Unhcr e li ha presentati su un thread diventato virale su Twitter. A rimanere sorpreso dai risultati è stato persino lui. “È apparentemente logico pensare che fermare le navi porti a fermare le partenze. Perciò volevo stimare l’intensità di quel legame di causa-effetto. Dopo aver messo in fila tutti i numeri, ho scoperto che non esiste neppure un legame”, spiega Villa. I fattori che influenzano le partenze sono altri: la situazione geopolitica in Libia e soprattutto le condizioni meteo. Il flusso migratorio, infatti, viene organizzato dalle milizie libiche senza tenere conto delle presenza o meno delle navi delle Ong di fronte alle loro coste. Alla volontà dei miliziani si aggiunge il fatto che, nel periodo tra luglio e settembre, il Mediterraneo è più facilmente navigabile perché più calmo e meno freddo.
Eppure Salvini, durante una diretta Facebook del 26 giugno, ha ribadito il mantra della sua propaganda anti Ong: “Sono complici dei trafficanti di esseri umani. Non gli darò l’autorizzazione a sbarcare né ora né mai”. Il bersaglio della rabbia leghista è il comandante della nave Sea Watch 3 Carola Rackete dopo il suo annuncio di voler infrangere il blocco navale italiano, per mettere al sicuro i 42 migranti a bordo dopo 14 giorni bloccati al largo. Per il ministro dell’Interno il comandante, con il suo rifiuto di far sbarcare i migranti a Tripoli per portarli al sicuro in Italia, ha dimostrato di essere “una sbruffoncella che fa politica sulla pelle dei migranti”.
La teoria del fattore di attrazione tanto cara al vicepremier, per cui non è “un caso che gli scafisti facciano partire i gommoni quando c’è una nave di Ong” al largo delle coste libiche, torna ciclicamente nel dibattito internazionale. Questo perché è semplice, facilmente comunicabile, si presta a tesi che rasentano il complottismo, ma non è mai stata dimostrata. Come ricostruito dall’Associazione diritti e frontiere, ha fatto la sua prima comparsa nel 2014 grazie all’allora direttore esecutivo dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera Frontex Gil Arias-Fernandéz. “Con Mare Nostrum il numero degli attraversamenti e degli arrivi era drasticamente aumentato. Temo che abbia costituito un pull factor e che i trafficanti abbiano abusato della vicinanza delle operazioni alla costa libica per mettere più persone in mare nella convinzione che sarebbero presto state messe in salvo”. Questa affermazione è stata poi smentita da Medici senza frontiere che ha rilevato un aumento delle partenze nei mesi successivi alla sospensione dell’operazione Mare Nostrum.
Dopo due anni la teoria è stata ripresa dalla Fondazione Gefira, ufficialmente un think tank paneuropeo con sede nei Paesi Bassi, “che ha come focus l’attuale instabilità geopolitica e finanziaria”. Ufficiosamente si tratta uno dei numerosi strumenti di propaganda online della galassia dell’estrema destra europea, il cui sito è registrato a nome di Bart Kruitwagen, esponente del partito islamofobo Newropeans. In un articolo del 2016, la fondazione ha affermato di aver tracciato per due mesi le rotte di 15 navi delle Ong (tra cui Moas, Medici senza Frontiere, Save the Children e Sea-Watch) e di aver incrociato i dati ottenuti con quelli dell’Unhcr sugli sbarchi in Italia. La tesi sostenuta dal think tank era che “Ong, scafisti e mafia, in accordo con l’Unione europea, hanno trasportato migliaia di migranti illegali in Europa con il pretesto di salvare vite umane, assistiti dalla Guardia Costiera italiana che ne coordinava le attività”. Secondo gli autori del testo le navi delle Ong lasciavano con regolarità i porti italiani per navigare fino alle acque nazionali libiche, recuperare i migranti e tornare in Italia distante 260 miglia, nonostante il porto di Zarzis in Tunisia ne distasse solo 60. Nonostante la sua faziosità e mancanza di metodo scientifico, lo studio è stato citato da numerosi siti in tutto il mondo, tra cui il popolare Zero Hedge. In Italia è stato ripreso dal blogger Luca Donadel, che lo ha usato come materiale per un video poi diventato virale.
Dai siti di disinformazione, la notizia è rimbalzata fino agli organi di stampa mainstream. Alla fine del 2016 il Financial Times ha pubblicato un rapporto riservato di Frontex in cui venivano denunciati i presunti legami tra i trafficanti di esseri umani di stanza in Libia e alcuni responsabili delle Ong. Il direttore dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, Fabrice Leggeri, non solo non ha mai smentito, ma in una intervista rilasciata due mesi dopo al tedesco Die Welt tornò a parlare di pull factor, sostenendo che “Dobbiamo evitare di sostenere il business dei trafficanti andando a prendere i migranti davanti alle coste libiche”.
L’ultimo tassello per completare il teorema “più Ong uguale più partenze” è quello giudiziario. La procura di Catania, nella primavera del 2017, ha aperto una indagine conoscitiva sulle Ong, sui loro finanziamenti e su eventuali contatti con i trafficanti libici. Per tutta l’estate di quell’anno il procuratore Carmelo Zuccaro ha rilasciato interviste ai giornali italiani e stranieri, lanciando un allarme che si è poi rivelato privo di fondamento.
La Lega, nel solco della comunicazione messa in campo dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti per far accettare all’opinione pubblica la sua strategia di gestione dei migranti, ha trovato nella propaganda contro le Ong uno dei temi principali per la campagna elettorale in vista delle politiche del 2018. Sui giornali di quel periodo le prime pagine aprivano con titoli sui “contatti tra Ong e scafisti”. A Palazzo Madama la Commissione difesa del Senato ha aperto un’indagine, ascoltando lo stesso procuratore Zuccaro: “Le barche delle Ong lavorano sempre più a ridosso delle coste libiche. Sempre su segnalazione e mandato della Guardia Costiera italiana, permettendo così ai trafficanti di usare barche sempre più scadenti e intensificare le partenze. Siamo di fronte ad un traffico organizzato di esseri umani messo in atto da vere e proprie organizzazioni criminali”.
Due anni dopo, di quelle indagini sono rimasti solo i titoli allarmistici e le richieste di archiviazione da parte dello stesso Zuccaro. Una decisione arrivata troppo tardi per impedire alla macchina della propaganda di mettersi in moto con slogan semplici ed efficaci come “Se riapri i porti, ritornano i morti”. Il mantra ripetuto da certi partiti si è alimentato e si alimenta di rovesciamenti del rapporto causa effetto: non si viene salvati in mare perché si è partiti, ma si parte perché si viene salvati in mare. A questo si aggiunge la distorsione dei dati, come quello che sostiene una diminuzione dell’80% degli sbarchi in Italia per merito della politica dei porti chiusi. Nonostante quanto sostenuto dal Viminale, questo è un merito che va riconosciuto ai discutibili accordi fatti dal precedente governo Gentiloni con le milizie che controllano la Libia.
Salvini insiste citando il modello del No Way australiano. Nel 2013, il governo di Canberra iniziò a respingere le navi in mezzo al mare e a riportare i migranti (per lo più afghani e pakistani) in altri Stati con cui aveva stretto un accordo, tra cui Nauru e Papua Nuova Guinea. Nel giro di pochi mesi, le partenze vennero azzerate, ma a un costo altissimo in termini di diritti umani (e anche finanziario, visto che l’Australia dovrà versare quasi 50 milioni di dollari come risarcimento per il trattamento “crudele e disumano” riservato ai profughi detenuti nella remota isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, tra il 2012 e il 2014. Perdipiù, questa strategia non è replicabile in Italia. Secondo Villa per tre motivi: “Primo, per la dimensione del problema: gli australiani non hanno mai visto più di 20 mila partenze l’anno. Noi, ne abbiamo viste 200 mila. Secondo, per la pressione migratoria. I migranti che lasciano la Libia sono molto più motivati e disperati. Talmente disperati da affrontare un viaggio in cui sanno che, statisticamente, uno su 50 morirà. Terzo, più importante, l’Italia non ha molti Paesi disposti a riprendersi i migranti. Davvero vorremmo rimandare le persone in Libia?”.
Non siamo ancora a quel punto, ma si sta raggiungendo giorno dopo giorno. Il sottosegretario per gli Affari esteri Manlio Di Stefano, in quota M5S, ha sostenuto nei giorni scorsi che “Chi sta facendo un abuso è proprio la capitana della Sea Watch. Alla nave è stato detto di sbarcare i migranti nel porto libico, ma lei ha preferito tenerli in mare. Se i migranti sono stremati è perché lei li tiene in mare. Perché deve arrivare per forza in Italia?”. Allineandosi alla propaganda dell’alleato di governo, il M5S ignora che il porto di Tripoli non è un porto sicuro, come confermano anche l’Unhcr e l’Europa. Riportare in Libia le 42 persone a bordo della Sea Watch significa condannarle all’arresto e alla tortura. Non siamo ancora arrivati al punto di rimandare le persone in Libia sapendo di mettere a rischio la loro stessa vita, ma dopo anni di disinformazione siamo più disposti a tollerarlo e augurarci che altri lo facciano per noi. Altri che per fortuna si sono rifiutati di farlo.