Praticare uno sport è una delle prime raccomandazioni che ci sentiamo ripetere fin da quando siamo bambini, tanto che a volte diventa un’ossessione per i genitori e una tortura per i bambini. Quando ho visto il nuovo spettacolo di Michela Giraud su Netflix mi sono sentita molto vicina a lei, anch’io infatti sono stata costretta da mia madre a fare danza, per migliorare la mia postura e possibilmente far sì che diventassi l’Audrey Hepburn di Napoli. Lo sport viene raccontato da sempre come un’attività in grado di stimolare la crescita, sviluppare una sana competizione e al tempo stesso il gioco di squadra, oltre a valori di amicizia, solidarietà, lealtà, rispetto per gli altri, tanto da essere riconosciuto anche dall’Onu un diritto fondamentale. Tutto questo sarebbe vero, oltre che molto bello, se all’interno dell’immaginario sportivo i valori di rispetto, collaborazione, interazione e appartenenza fossero reali per tutti e non solo per chi rientra nella definizione socialmente accettata di “atleta”.
Solo col tempo ho capito che la scelta di mia madre di trascinarmi per anni da una scuola di danza all’altra non è stata dettata solo dai benefici che ne avrei potuto trarre: principalmente la sua scelta è caduta sulla danza perché la danza era considerata un’attività da femmine. Io avrei voluto fare calcio, ma ogni volta la discussione finiva sempre con quello sguardo di preoccupazione e rimprovero e la frase “Il calcio è uno sport da maschi, tu sei femmina”. All’epoca non faceva una piega, e probabilmente neanche adesso. Ci sono sport da maschi e sport da femmine, e non riuscivo a immaginare che potesse esistere qualcosa di diverso. Quando poi finalmente sono riuscita ad andare allo stadio ho capito perché le cose stessero così: perché i “fr-ci” sono tutti quelli che sbagliano un rigore o i giocatori avversari che giocano molto bene, quindi o chi gioca male o chi è un nemico. In entrambi i casi meglio non esserlo.
Durante le olimpiadi di Tokyo di quest’estate ha fatto scalpore lo sfogo di Fabio Fognini durante gli ottavi di finale del torneo di tennis: “Sei un fr-cio, sei un fr-cio”, ha ripetuto rivolgendosi a se stesso per aver mancato l’occasione di passare in vantaggio contro Daniil Medvedev. Le parole di Fognini hanno risuonato nel silenzio del palcoscenico olimpico: era impossibile che non scoppiasse un caso mediatico. “Sei un fr-cio perché devi tirarle sopra la rete”. Fognini era a un passo così dal farcela e l’aver mancato quell’occasione, peraltro dopo una lunga ed estenuante rimonta, è stato per lui un grave errore, tanto da scatenare un’enorme ira contro se stesso, o quella parte di lui che ha commesso quegli sbagli, la parte “fr-cia”.
Anche la recente dichiarazione della campionessa di sci Sofia Goggia – ”Gay nello sci maschile? Direi che non ci sono: devono gettarsi dalla Streif di Kitz” – sembra seguire la stessa traccia della rabbia di Fognini: questo non è uno sport da fr-ci, quindi non possono esistere sciatori gay. Una sorta di cortocircuito antagonistico più che interiorizzato che è emerso per il primo in un momento di rabbia e per la seconda forse in seguito a una sessione di allenamento sulle Alpi, dove l’afasia è una delle prime conseguenze dell’aria rarefatta e della mancanza di ossigeno. Infatti, entrambi, hanno subito chiesto scusa, non volevano discriminare nessuno; eppure è capitato ed è proprio questa spontaneità ad apparire come uno dei sintomi dei valori eteronormativi che ancora infestano il mondo dello sport e non solo. Queste dichiarazioni si sommano ad altre riguardo il tema delle atlete trans, che secondo Goggia non dovrebbero essere ammesse a partecipare alle gare femminili. Come invece è stato consentito a Valentina Petrillo, la prima atleta trans italiana a partecipare ai campionati europei paralimpici d’atletica in Polonia.
A Tokyo, però, nel 2021 c’era anche la campionessa di pugilato Irma Testa, prima italiana nella storia del pugilato femminile a vincere la medaglia di bronzo. Proprio a novembre scorso la campionessa ha affidato a un’intervista di Vanity Fair il suo coming out, denunciando la difficile condizione delle persone omosessuali nel mondo dello sport e ribadendo l’importanza dell’immagine di sé che gli atleti olimpici sono spinti a mostrare, mentre per molti l’omosessualità è ancora un’imperfezione che li spinge a nascondersi per timore di ripercussioni. “Anche per me è stato così fino a pochi mesi fa,” ha detto Testa, “Ma quella medaglia di Tokyo è diventata il mio scudo: ora che la Irma atleta è al sicuro, la Irma donna può essere sincera”. Quindi da ora il pugilato può essere considerato uno sport anche per femmine, ma soprattutto per femmine “con le palle”, sì, perché la commistione tra la connotazione antagonistica dello sport e gli stereotipi di genere crea quest’ulteriore cortocircuito: un perdente è sempre un fr-cio, a prescindere dal suo orientamento sessuale, un macho mancato, mentre se sei una donna che fa sport, magari anche vincente sei l’eccezione che conferma la regola, perché la forza e la capacità di vincere sono ancora riconosciute ingiustamente come prerogative maschili. Riprendendo le dichiarazioni di Goggia, infatti, alla domanda se ci siano o meno omosessuali tra gli atleti ha risposto che tra le donne qualcuna sì, mentre tra gli uomini no, additando la causa proprio al coraggio necessario a gettarsi in piste pericolose.
Nonostante questa connotazione “positiva” che viene concessa alle sportive, un altro paradosso del mondo dello sport è che il gender gap per le atlete professioniste è ancora molto ampio. In Italia ci sono circa cinque milioni di atleti tesserati, tra questi solo il 28% sono donne, percentuale che si riduce tra gli operatori sportivi: solo il 19,8% sono allenatrici, il 15,4% dirigenti di società e il 12,4% dirigenti di Federazione. Il ritratto di un universo fortemente maschile si riflette anche nei compensi e nel riconoscimento che viene dato alle sportive. Questa situazione in alcune parti del mondo sta lentamente migliorando, come ad esempio nel caso della nazionale femminile di calcio statunitense, che solo lo scorso febbraio ha ottenuto la parità salariale. In Italia, però, questa parità non è ancora stata raggiunta e solo la recente attenzione verso il mondo del calcio femminile sta lentamente erodendo certi stereotipi di genere. Recente è stato ad esempio anche il coming out della pallavolista Paola Egonu, che come Testa ha denunciato la difficoltà nel mondo dello sport a mostrare se stessi per ciò che si è, ammettendo di capire “la difficoltà di un atleta, che magari pensa di rovinarsi la carriera”. L’omofobia interiorizzata e la paura che non conformarsi agli stereotipi faccia essere ostracizzati sono tali da zittire tutti.
La stigmatizzazione dell’omosessualità nel mondo del calcio è ancora più forte: l’insulto omofobo è all’ordine del giorno. Molti però sono i giocatori che tentano di sensibilizzare sul tema: tra i primi Josh Cavallo, il centrocampista australiano, ventiduenne, che ha scelto di fare coming out agli inizi della sua carriera proprio per aiutare chi si nasconde a non avere più paura. Anche Patrice Evra ha recentemente denunciato il tabù dell’omofobia nel mondo del calcio per cui “se lo dici sei morto”, una paura che non si limita ai confini del calcio ma che riguarda il mondo dello sport in generale. Nel 2012, anche il nuotatore australiano Ian Thorpe ha deciso di fare coming out e di denunciare la difficoltà a parlarne apertamente durante tutta la sua carriera e la sofferenza che ne è derivata portandolo alla depressione. In termini di coming out è infatti più facile trovare esempi di atlete che di atleti che fanno coming out, come la cestista Elena delle Donne o la coppia d’oro dell’hockey femminile a Rio 2016 – Kate e Helen Richardson-Walsh.
Ritornando all’Italia, però, sembra sia concesso essere gay solo nel balletto, che non è uno sport. Viene facile pensare che forse lo stesso ragionamento per cui mia madre mi ha iscritta a danza classica, in un qualche modo abbia reso la vita più facile e legittimato il coming out di Roberto Bolle. Con buona pace di Goggia, esistono tantissimi atleti gay e atlete lesbiche, ma spesso si sentono costretti a restare nell’ombra per paura di rovinarsi la carriera, quando invece sarebbe estremamente importante riuscire a normalizzare questo tema, proprio per sostenere tanti ragazzi e ragazze che fanno sport e nel loro piccolo vivono le stesse paure. Lo stigma dell’omofobia è ancora molto forte e oltre a condizionare gli atleti ha anche l’effetto retroattivo sulle nuove generazioni di perpetrare stereotipi e ideali sessisti, omobitransfobici e patriarcali, e questo è un paradosso per un’attività che dovrebbe essere il sinonimo di valori come appartenenza, inclusione, collaborazione e rispetto.