Hai insultato qualcuno su Internet, ma la tua vita fa ancora schifo

Siamo nel 2018, e l’hater su Internet è diventata una figura che non ha riscontri nella vita reale. Nella maggioranza dei casi, il signor Nessuno che ti augura la morte sul web, per strada non si azzarderebbe nemmeno a guardarti negli occhi. I social hanno assunto la forma del sacco da boxe, la piazza dove ogni sfogo è legittimato grazie alla protezione di uno schermo e, in alcuni casi, dell’anonimato. Tutto ciò che nella vita “vera” risulterebbe impensabile, trova in rete lo spazio propizio dove manifestarsi attraverso forme di violenza verbale più o meno estrema e nonostante gli sforzi profusi dai gestori delle varie piattaforme online, ci troviamo davanti a un vero e proprio Far West. Uno studio dell’osservatorio Vox, coadiuvato dall’Università di Milano, ha mostrato i risultati di un’analisi di 2,6 milioni di tweet raccolti in un anno. La shitstorm scagliata da tutti i signor Nessuno d’Italia colpisce maggiormente alcune categorie specifiche. Per il 63% riguarda le donne, gli omosessuali (10,8%), e i migranti (10%). Chiudono i diversamente abili, con il 6,4%, e gli ebrei, al 2,2%. Appare dunque uno squadrismo virtuale che insiste contro quelle categorie che storicamente sono sempre state vittima di scoppi di violenza della società. L’errore, però, sta nell’associare l’hater a uno psicopatico privo di vita sociale, inadatto alla vita, quando invece è uno di noi: può anche essere un amorevole padre di famiglia, la fruttivendola che ci sorride, il vicino che ci tiene sempre aperta la porta.

Eppure, il tempo che passiamo su Internet non può più essere considerato come una second life astratta, un’oasi remota che ci permette un momento di libertà, soprattutto se consideriamo l’approccio al web delle nuove generazioni. Il 45% dei giovani tra gli 11 e i 25 anni passa almeno 6 ore al giorno online. Il tempo in rete ormai non è più una breve parentesi sottratta alla routine della giornata, ma ha assunto ormai una mole e un peso che lo deve far considerare come tempo vero e proprio, di reale interazione col mondo che ci circonda. John Suler, professore di Psicologia alla Rider University, ha pubblicato uno dei testi più seguiti per decifrare i comportamenti umani su Internet, intitolato The online disinhibition effect (L’effetto disinibitorio della rete). Le caratteristiche di tale comportamento, che si attiva quando ci si trova davanti a uno schermo, sono molteplici. Suler analizza in particolar modo l’anonimità dissociativa, ovvero la forma di mediazione che strumenti come il computer o lo smartphone hanno nella comunicazione e che consente alle persone di creare una distinzione tra le azioni della vita quotidiana e quella virtuale. Altri fattori importanti sono l’invisibilità e l’asincronia. Il primo permette un’iniezione di coraggio, il via libera per compiere azioni altrimenti precluse, mentre il secondo consente di non assistere alla reazione istantanea dell’altra persona, potendo preparare una controffensiva ancora più violenta. Inoltre, Suler si concentra sull’immaginazione dissociativa: l’opportunità del web di creare un personaggio quasi immaginario, collocato in uno spazio separato, apparentemente lontano dalla vita reale, dove le conseguenze delle proprie azioni sembrano meno intense.

Siamo in un’epoca in cui anche i politici utilizzano la rete per esprimere i propri pensieri e incanalare l’odio nelle direzioni che preferiscono. D’altronde, nel 2018, è più efficace un post su Facebook che un’apparizione da Bruno Vespa. Le forze populiste hanno captato prima delle altre l’aggressività, la frustrazione e l’insoddisfazione che divampano dietro gli schermi, traducendole in un lessico personale fatto di slogan, rabbia e insulti. Questo non ha fatto altro che aizzare ancor di più gli hater, che si sono sentiti legittimati dalle azioni e dalle parole dei loro rappresentanti a esternare tutta la loro violenza verbale – e non. Anche se alcuni di loro hanno dovuto rendere conto della loro condotta davanti alla giustizia, rendendosi conto che lo schermo non gli garantiva la totale immunità, spesso abbiamo finito per assistere semplicemente a scuse tardive che non hanno mai veramente acquietato la mole di energia negativa sprigionata dal comportamento precedentemente attuato: come nel caso delle minacce di morte nei confronti di Mattarella, o quando un hater ha dichiarato di voler tagliare la gola a Saviano e alla Boldrini. Quest’ultima, ad esempio, ha portato in tribunale un sindaco leghista che le augurava di essere violentata.

Il primo cittadino di Pontinvrea si è giustificato dicendo che si trattava di un “attacco politico”, ma la realtà è che spesso l’hater non si rende conto della gravità delle parole che digita sulla tastiera, frutto di una repressione sociale atavica, a tratti triviale. Eppure, non è giusto dare sempre tutta la colpa al mezzo, quando è l’utente a farne un uso scorretto. Probabilmente, queste persone hanno i profili social invasi da foto di cuccioli, seguono il mantra del “Buongiornissimo, kaffè?!” e porgono una rosa virtuale a ogni loro nuova amicizia. Per poi augurarsi lo scoppio di un incendio in un campo rom.

Un ramo dell’hating, poi, è il cyberbullismo, che in realtà ha spesso ripercussioni psicologiche ancora più gravi sulle sue vittime, dato che riguarda una fascia d’età delicata e facilmente condizionabile. Secondo i dati della Polizia Postale, nel 2017 sono oltre 350 i minori che hanno subito violenze in rete. Sette vittime su dieci non chiedono aiuto, come riporta una ricerca della Sapienza e del Moige. Il 59% delle vittime di cyberbullismo ha pensato almeno una volta al suicidio. In questi casi, l’hater è un coetaneo della vittima. I pedinamenti lungo i corridoi della scuola sono stati sostituiti dal dileggio in una chat di gruppo, dalle minacce online, dai ricatti e dall’intimidazione a distanza – e quindi potenzialmente a oltranza. Difficile venirne a capo, quando questi carnefici sono probabilmente figli del signor Nessuno che sputa a sua volta il suo odio sul web.

Una delle poche parti interessanti de Le Iene, che negli ultimi anni ha visto precipitare la qualità dei suoi servizi, è la serie “Faccia a faccia col suo hater”, dove alcuni personaggi famosi incontrano vis-à-vis le persone che li hanno tempestati di insulti su Internet. Spesso l’hater in questione cede alla vergogna, si nasconde negli anfratti dell’imbarazzo, chiede scusa rimangiandosi tutto. È un esperimento sociale volto a dimostrare la totale discrepanza tra la tastiera e la realtà. Non basta educare le persone, vanno educati gli utenti. Quello di Internet è un mondo relativamente giovane, a cui mancano ancora quei confini che ne certificano una solidità. Alla sana e vecchia educazione civica andrebbe integrata un’educazione alla virtualità tesa a recidere proprio quella distinzione tra i due mondi. Perché le regole del primo dovrebbero essere rispettate anche nel secondo, essendo l’utente una persona, un’identità ben definita, e non soltanto un avatar anonimo.

Forse, il primo comandamento della nostra epoca dovrebbe essere “Non fare su Internet quello che non faresti nella vita reale.” Anche per evitare di trasformarci nel nostro alter ego virtuale: cinico, violento e frustrato.

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