La crisi afghana, ad agosto, ha giustamente monopolizzato i media con tutta la sua drammaticità. Gli afghani disposti a morire pur di fuggire e non essere abbandonati al dominio dei talebani, le madri e i padri che mettevano i loro bambini in braccio ai soldati stranieri pur di dar loro un futuro, le centinaia di vittime dell’attentato all’aeroporto di Kabul hanno fatto irruzione nella nostra quotidianità dopo anni di ipocrita silenzio e di buio pressoché totale sull’Afghanistan. È stata falsa, in fondo, la sorpresa occidentale per un collasso tanto rapido, come se quelle immagini strazianti non fossero il risultato di anni di politiche discutibili e il chiaro fallimento di tutte le buone quanto retoriche intenzioni di ricostruzione e stabilizzazione dell’Afghanistan da parte dell’Occidente.
Peccato che la rimozione torni già compiersi a distanza di poche settimane: gli Stati Uniti sono infatti arrivati a chiudere un capitolo scomodo e si concentrano oggi sul fronte della pandemia, anche in Europa la politica e le prime pagine dei giornali sono ora rivolte a questioni interne, l’opinione pubblica, prima tanto commossa, sta già richiudendo gli occhi su quei 40 milioni di afghani che non hanno potuto beneficiare del ponte aereo. Eppure i corpi dei giustiziati appesi alle gru a Herat e le donne prese a bastonate alle manifestazioni ed estromesse dalle università e dalla vita pubblica, le attiviste e gli attivisti prelevati nelle loro case meriterebbero ancora le aperture dei tg, ma l’onda è passata, oggi farebbero già meno notizia. Assistiamo ormai impotenti e annichiliti alla normalizzazione dell’Afghanistan e del “governo” talebano e presto calerà del tutto un nuovo silenzio nonostante il disastro afghano ci chiami in causa in prima persona e fosse più che annunciato.
La ritirata degli statunitensi e della coalizione internazionale dall’Afghanistan è stata eclatante e rovinosa. Ma non imprevedibile, visto che i talebani negli ultimi anni sono stati riabilitati da diverse potenze straniere, e per primi dagli Stati Uniti, durante le trattative condotte con loro anche dalla Russia e dalla Cina per spartirsi l’Afghanistan dopo il disimpegno occidentale. Ancor meno sorprendenti, nonostante il silenzio che sta riavvolgendo l’Afghanistan, saranno le ripercussioni di quanto accaduto negli ultimi mesi. Un copione in verità già scritto dagli Stati Uniti con la loro tattica di strumentalizzare l’estremismo islamico che si protrae dalla Guerra fredda, e che oltre a far ripiombare gli afghani in un medioevo dei diritti alimenterà altre ondate di terrorismo internazionale.
Per ammissione degli stessi generali del Pentagono, nell’est dell’Afghanistan i talebani sono un avversario delle cellule afghane dell’Isis, i jihadisti rivali e anche le frange più estremiste di al-Qaeda. Al di là delle trattative ufficiali, le intelligence occidentali e dei Paesi confinanti condividono da tempo delle informazioni con i gruppi di talebani che combattono gli affiliati del Califfato in Afghanistan. La loro presa del potere di agosto a Kabul era preventivata, per quando sia stata probabilmente più rapida del previsto, anche considerato che a Doha, in Qatar, gli Stati Uniti avevano messo in piedi sin dall’Amministrazione Obama un ufficio di rappresentanza talebano per organizzare l’uscita dall’Afghanistan: già nel 2014 furono rilasciati cinque importanti detenuti afghani da Guantanamo, messi sotto custodia del Qatar. Il gruppo dei taliban five entrato poi nella delegazione di interlocutori.
Donald Trump aveva rafforzato questo processo, siglando nel 2020 gli accordi di Doha con due allegati che restano tuttora secretati, facendo scarcerare come contropartita 5mila talebani. Anche Abdul Ghani Baradar, artefice della fulminante offensiva su Kabul e vice del mullah Omar, l’emiro protettore di Osama Bin Laden, fu liberato dalla prigionia in Pakistan nel 2018, diventando poi il capo negoziatore accolto a Mosca, Pechino e Teheran, mentre Trump programmava di ospitare i talebani a Camp David per firmare l’accordo. Dal 2021 Joe Biden ha avallato e accelerato l’agenda di Trump, per poter dichiarare terminato l’impegno in Afghanistan entro il ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001. Ha scelto di farlo con un frettoloso ritiro delle truppe, nonostante secondo i rapporti al Congresso del Sigar, l’Ispettorato speciale statunitense per la ricostruzione afghana, già dal 2017 i talebani controllassero o contendessero al governo il 40% del Paese. Una scelta tra l’altro compiuta senza coinvolgere il presidente afghano Ashraf Ghani, che si opponeva all’ipotesi di formare un governo con i talebani.
L’amministrazione statunitense continua ad affidarsi agli estremisti islamici per raggiungere obiettivi a breve termine, secondo la logica del “nemico del mio nemico è un mio amico” che ha provocato sempre danni nel mondo, e più che mai in Medio Oriente. Un solco scivoloso che, dall’appoggio di Ronald Reagan negli anni Ottanta ai mujaheddin in funzione antisovietica, ha innescato una crisi quarantennale in Afghanistan, portando alla costituzione dell’emirato talebano che li copriva, alle reti terroristiche internazionali di al-Qaeda e dell’Isis, fino al nuovo emirato di Kabul. Al-Qaeda è germinata grazie al flusso di petrodollari e dollari verso i ribelli islamici mobilitati contro il regime laico dell’Afghanistan, instaurato con l’invasione russa del 1979. Un governo boicottato dagli Stati Uniti con finanziamenti e armamenti, scriveva all’epoca anche il Washington Post, inviati indiscriminatamente all’opposizione afghana rifugiata in Pakistan, nel Peshawar.
Attraverso la triangolazione dei servizi segreti pachistani (Isi) e sauditi, gli Stati Uniti supportarono con operazioni coperte sia i mujaheddin moderati di Jamiat e Islami, l’Alleanza del Nord del comandante Ahmad Shah Massoud, sia i fondamentalisti di Hezbi Islami del leader Gulbuddin Hektmatyar. A rinforzo di Hektmatyar, richiamati da una fatwa del predicatore radicalizzato in Arabia Saudita Abdullah Azzam, arrivarono presto in Afghanistan decine di migliaia di foreign fighters arabi, per lo più sauditi come il rampollo dei Bin Laden, che nel 1989 avrebbero spinto l’Unione Sovietica alla ritirata e rovesciato il governo comunista di Kabul nel 1992. Un successo dal punto di vista statunitense, salutato dall’allora Presidente Reagan con queste parole: “La battaglia per la libertà del popolo afgano è una fonte d’ispirazione per tutta la gente libera nel mondo, il sostegno degli Stati Uniti proseguirà finché ce ne sarà il bisogno”.
Ma anche all’epoca andò diversamente. L’ala di Hektmatyar prese il sopravvento sui moderati, sconfitti in una faida culminata con la fondazione dell’emirato talebano nel 1996. Il comandante Massoud fu assassinato due giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001, atto più eclatante di una scia di attentati di al Qaeda nel mondo, come gli attacchi alle ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya, che nel 1998 avevano già fatto 224 vittime. In visita al parlamento europeo nel 2001, poco prima di morire, Massoud ammonì che “gli obiettivi dei talebani non erano limitati all’Afghanistan, era solo una prima fase per colpire nella regione e oltre”. Poche settimane più tardi, più di 3mila cittadini statunitensi morirono negli attentati di Washington e New York e nel dirottamento dell’aereo di linea United 93. Dal 2003, durante l’invasione anglostatunitense in Iraq il terrorista Abu Musab al Zarqawi, addestrato in Afghanistan, guidò il ramo locale di al-Qaeda, dal quale anni dopo sarebbe germogliato l’Isis. In Europa le stragi sui treni a Madrid e Londra del 2004 e del 2005 uccisero altre centinaia di persone.
Oggi il primo ministro nominato dal nuovo governo talebano è il mullah Muhammad Hassan, nella black list dell’Onu dal 2001. Ministro della Difesa è il figlio del mullah Omar, Mohammad Yaqoob. Gli Interni sono guidati da Sirajuddin Haqqani, sulla cui testa pende una taglia da 5 milioni di dollari dell’Fbi come capo dell’omonima rete Haqqani responsabile dei più cruenti attacchi in Afghanistan degli ultimi anni: una rete tra l’altro largamente finanziata dagli statunitensi durante la Guerra fredda, come riporta anche l’osservatorio strategico del ministero della Difesa, e ora sospettata di un avvicinamento con l’Isis. È difficile immaginare un dejà vu peggiore, ed è a dir poco sbrigativo che Biden liquidi l’intervento statunitense in Afghanistan come una guerra nata e finita “con l’obiettivo di vendicare l’attacco dell’11 settembre e assicurarsi che i terroristi di al-Qaeda non trovassero rifugio nel Paese”.
Prima della Guerra fredda, il fondamentalismo islamico era un fenomeno marginale. A eccezione della rivolta araba – appoggiata a scopi coloniali dai britannici – che nel 1932 diede vita al regno dell’Arabia Saudita, gli estremisti sunniti non si erano mai armati né avevano conquistato il potere. Lo stesso valeva nella Persia sciita, finché negli anni Cinquanta un’operazione britannica e della Cia rovesciò il primo ministro eletto con elezioni democratiche Mossadeq, aprendo la strada, con la dittatura dello scià Reza Pahlavi, alla catena di eventi conclusa con rivoluzione integralista di Khomeini. In quegli anni anche gli afghani stavano trovando una via islamica verso la modernità: nel 1964 il regno aveva emanato una Costituzione liberale permettendo di votare a tutte le donne, già da inizio secolo titolari di alcuni diritti, come ricostruito dalla storica dell’Afghanistan Nancy Hatch Dupree.
Dopo decenni di interventismo occidentale che ha stravolto il sistema culturale islamico, ancora non si vede la fine del terrorismo jihadista. La guerra antisovietica dei mujaheddin può essere a ragione considerata la matrice del terrorismo islamico internazionale, una piaga tutt’altro che rimarginata dall’uccisione di Bin Laden in Pakistan nel 2011, nel suo fortino nel Peshawar dove evidentemente viveva ancora protetto dall’intelligence pakistana che ne favorì l’ascesa. I jihadisti sono foraggiati da un numero crescente di Stati in competizione come il Qatar, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti, e con il progressivo disimpegno dall’area degli Stati Uniti – ormai focalizzati sul Pacifico e la competizione con la Cina – la loro azione terroristica diventerà sempre più un’emergenza per i Paesi e i cittadini dei Paesi del Medio Oriente e dell’Europa. Un’emergenza che potrebbe durare ancora molti anni.